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Centro sociale A.23 n.130-132. Partecipazione e salute

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Academic year: 2021

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130-132

" C e n t r o

S o c i a l e "

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Centro Sociale

Periodico bimestrale del Centro di Educazione Professionale per Assistenti Sociali (CEPAS)

Comitato scientifico

A. Ardigò, Istituto di Sociologia, Università di Bologna - G. Balandier, Sorbonne, Ecole Pratiques des Hautes Etudes, Paris - R. Bauer, Società Umanitaria, Milano - L. Benevolo, Architetto urbanista, Roma - M. Berry, International Federation of Settlements, New York - F. Botts, FÀO, Roma - G. Calogero, Istituto di Filosofia, Università di Roma - M. Calogero Comandini, CEPAS, Roma - V. Casara, Esperta Educazione degli Adulti, Roma - G. Cigliana, Esperto Servizi Sociali, Roma - E. Clunies-Ross, Institute of Education, University of London H. Desroche, Sorbonne, Ecole Pratique des Hautes Etudes, Paris -J. Dumazedier, Centre National de la Recherche Scientifique, Paris - A. Dunham, School of Social Work (Emeritus), University of Michigan - M. Fichera, Fondazione « A. Olivetti », Roma - E. tìytten, Div. Social Affairs, UN, Ginevra - F. Lombardi, Istituto di Filosofia, Università di Roma - E. Lopez Cardozo, State University of Utrecht - A. Meister, Sorbonne, Ecole Pratique des Hautes Etudes, Paris G. Molino, Esperto Servizi Sociali, Roma -G. Motta, Fondazione « A. Olivetti », Roma - R. Nisbet, Dept. of Sociology, University of California - C. Pellizzi, Istituto di Sociologia, Università di Firenze - E. Pusic, Faculty of Law, University of Zagreb - L. Quaroni, Facoltà di Architettura, Università di Roma - M. G. Ross, University of Toronto - M. Rossi-Doria, Centro di Specializ. e Ricerche Economico-agrarie per il Mezzogiorno, Università di Napoli (Portici) - U. Serafini, Presi-denza Consiglio Comuni d'Europa, Roma - M. Smith, Home Office, London - ]. Spencer, Dept. of Social Work, University of Edinburgh - A. Todisco, Fondazione « A. Olivetti », Ivrea - A. Visalberghi, Istituto di Filosofia, Università di Roma - P. Volponi, Fondazione « A. Olivetti » - E. de Vries, Institute of Social Studies (Emeritus), The Flague - A. Zucconi, CEPAS, Roma.

Comitato di redazione

Adele Antonangeli Marino — Elisa Calzavara — Teresa Ciolft Ossicini — Egisto Fatarella — Velelia Massaccesi — Giuliana Milana Lisa — Laura Sasso Calogero.

DIRETT. RESPONSABILE: ANNA MARIA LEVI - SEGRET. DI REDAZIONE: ERNESTA ROGERS VACCA DIREZ. REDAZ. AMMINISTRAZ. PIAZZA CAVALIERI DI MALTA, 2 - 0 0 1 5 3 ROMA - TEL. 5 7 3 . 4 5 5

Prezzi del 1977:

Abbonamento a 6 numeri annui L. 8.500 — estero L. 11.000 — un numero L. 1.500 — spedizione in abbonamento postale gruppo IV - c. c . postale n. 1/20100. —

Prezzo di questo fascicolo L. 4.500.

Una volta all'anno Centro Sociale pubblica un volume in edizione internazionale dedicato a problemi di sviluppo socio-economico dal titolo International Review of Community Development.

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Centro Sociale

scienze sociali - servizi sociali - educazione degli adulti sviluppo di comunità

anno XXIII, n. 130-132, luglio-die. 1976

Sommario

Partecipazione e salute

A S P E T T I SOCIO-CULTURALI

V. Padiglione 3 Salute e malattia: aspetti socio-culturali

V. Oracolo 49 Ruolo professionale e ruolo sociale del medico: uno studio sui medici di Catania

A S P E T T I POLITICO-ISTITUZIONALI

F. Terranova 67 Aspetti istituzionali, azioni delle Regioni e degli enti locali e altri nella formazione e riqualificazione degli operatori

socio-sanitari

C. Boesi 97 Dalla monetizzazione del rischio alla gestione della salute

APERTURE ALLA PARTECIPAZIONE

U. Mancini 117 Integrazione e partecipazione: il caso degli handicappati L.LaloniNobiloni 141 Mortalità materna e prevenzione: carenze e prospettive

A S P E T T I ORGANIZZATIVI

E. Rogers Vacca 149 Importanza di un modello organizzativo

1 6 9 RECENSIONI

L. Balbo, G. Chiaretti, G. Massironi, L'inferma scienza. Tre saggi sull'istituzionalizzazione della sociologia in Italia (G. Losito); J. Ben-David, Scienza e società (G. Losito); F. Ga-rugati, F. Emiliani, A. Palmonari, Il possibile esperimento: ricerca sugli interventi alternativi alla istituzionalizzazione di minori (E. Rogers Vacca); G. Rossellini, Impariamo a par-lare - G. Snyders, Le pedagogie non direttive - AA.VV.,

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Questioni di didattica - Del Corno, Di Rienzo, Maragliano, Manuale degli eletti nei Consigli Scolastici - R. Rizzi, La scuola dopo i Decreti Delegati (M. Negri); R. Poignant, L'insegnamento nei paesi industrializzati (M. Negri); R. Ca-vallaro, La sociologia dei gruppi primari (V. Padiglione).

1 8 1 SEGNALAZIONI

A cura di E. Calzavara, L. Cannavo, R. Cavallaro, A. Faenzi, G. Losito, M. Negri, V. Padiglione, E. Rogers Vacca.

2 0 7 DOCUMENTI

Ricordo di Maria Jervolino; La formazione infermieristica e sanitaria; L'esperienza di un gruppo di coordinamento nel territorio della XX Circoscrizione a Roma; Tesi discusse al CEPAS dal marzo 1974 al dicembre 1976.

Questo volume è pubblicato con un contributo dell'Amministrazione Attività Assisten-ziali Italiane e Internazionali, Roma.

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Salute e malattia: aspetti socioculturali

dì Vincenzo Padiglione

La problematica teorica e metodologica dell'antropologia medica

L'antropologia medica costituisce, in seno agli studi etno-antropologici, un importante orientamento specialistico con esplicite finalità applicative. Le ricerche che finora sono state intraprese hanno seguito principalmente tre direttive complementari di indagine. Innanzitutto è emerso il vasto ambito dell'etnomedicina, che riguarda l'analisi delle credenze e delle pratiche inerenti la malattia, espresse dai vari popoli nel tempo e nello spazio. La se-conda direttiva seguita comprende gli studi di epidemiologia sociale o di ecologia medica, cioè interessati a rilevare l'incidenza dei differenti contesti socio-culturali sulla distribuzione e frequenza delle malattie. Infine si de-vono segnalare, per la loro crescente rilevanza, i contributi specifici di antropologi alla diffusione delle prescrizioni igienico-sanitarie della medicina occidentale.

Il crescente sviluppo dell'antropologia medica impone di precisare la posizione assunta da tale indirizzo specialistico all'interno degli studi an-tropologici.

In primo luogo si deve notare che l'antropologia medica ripropone in termini più accentuati ed urgenti la necessità di una chiarificazione epistemo-logica riguardante il modo di rapportarsi dell'antropologo al fenomeno cul-turale che intende analizzare; ripropone, cioè, la necessità di una congiun-zione delle due fondamentali ottiche antropologiche, entrambe indispensabili ma spesso incompatibili tra loro. Il riferimento va alle modalità seguite dall'antropologo, di rilevare gli eventi sia come si presentano agli occhi ed agli strumenti tecnici e concettuali del ricercatore (punto di vista

dell'os-servatore), sia come vengono espressi, interpretati, vissuti da coloro che li producono e li fruiscono nel quotidiano (punto di vista dell'osservato).

« Scienza sociale dell'osservato »1 (così la definisce Lévi-Strauss),

l'antropo-logia è immancabilmente e necessariamente anche ' scienza dell'osservatore '. Interessata a comprendere i fenomeni evidenziando la logica interna che li combina e attribuisce loro significato, tende — avendo mire esplicative e non meramente descrittive — a farli rientrare in categorie più ampie al fine

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di poter formulare generalizzazioni. Nell'antropologia medica questa dico-tomia metodologica si esprime nella sostanziale diversità di approccio tra l'etnomedicina e l'epidemiologia sociale. La prima prende in considerazione la salute e la malattia così come sono percepite, vissute, interpretate e trat-tate dai membri di un gruppo culturalmente omogeneo; le categorie clas-sificatorie nosografiche di cui "si servirà il ricercatore, saranno modellate se non elaborate seguendo e ricalcando scrupolosamente la stessa visione e concettualizzazione dei fenomeni espressa dal gruppo esaminato. L'epidemio-logia, invece, nella sua prassi di comparare le differenze nella distribuzione delle malattie in diverse aree culturali, nel tentativo di rilevarne le deter-minanti, si avvale di una rigida classificazione nosologica, dedotta completa-mente dalla medicina occidentale scientifica, entro cui far rientrare la con-gerie dei casi rintracciati. Entrambe le ottiche sono da sole insufficienti a far luce sull'intricato problema. Mentre l'etnomedicina, descrivendo meti-colosamente le diverse medicine, le molteplici teorie e terapie, senza offrire la possibilità di andare oltre il realismo del singolo caso culturale, è limitata quanto a capacità di generalizzazione, l'epidemiologia incontra il suo evi-dente limite nel rischio di produrre generalizzazioni astratte, dedotte etno-centricamente dalla morfologia occidentale, di confrontare così situazioni me-diche diverse, di quantificare, senza una provata similarità eziologica, ma-lattie che andrebbero poste su piani qualitativi diversi.

H. Fabrega, che ha rilevato queste difficoltà, giunge a proporre, per non perpetuare la confusione terminologica esistente, due differenti concetti per indicare la malattia secondo le due divergenti ottiche: Ulne ss e disease. La prima esprime la percezione della malattia secondo l'ottica dell'etnomedicina, riducendola ad un evento culturale, ad un pattern di comportamenti interre-lati, il cui criterio di riconoscibilità è proprio del gruppo e non semplice-mente basato su indicatori di perturbazione biologica. Disease, invece, iden-tifica le malattie così come sono ufficialmente riconosciute, analizzate e cu-rate quali « stati o processi di alterazione corporea che deviano dalle norme

stabilite dalla scienza biomedica occidentale ».2 Disease ed Ulne ss possono

coincidere ma, essendo categorie di teorizzazioni culturali diverse, dimostrano sovente variazioni notevoli. L'obbiettivo dell'antropologia medica è di

con-ciliare, almeno nei risultati,3 i contributi delle due prospettive in modo da

pervenire alla possibilità di formulare spiegazioni e previsioni, cioè di operare generalizzazioni mantenendo la concretezza, la validità empirica, delle asserzioni concettuali di base. Ciò si potrà verificare solo elaborando uno schema di riferimento non delimitato al contributo di una singola cul-tura, ma adeguatamente ampio, così da comprendere, cioè da tenere in con-siderazione, la molteplicità delle variazioni esistenti ed esistite, il partico-lare « vissuto » culturale così come l'effetto oggettivo di un disturbo.

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Vi è anche un altro aspetto, di natura teorica, che rende stimolante oltre che interessante approfondire il dibattito sull'antropologia medica, e anzi interviene sovente a dirigere la ricerca antropologica su tali tematiche anche nei casi in cui le finalità conoscitive iniziali erano diverse. È indubbio che il rapporto natura-cultura costituisca il focus della problematica antropolo-gica, l'area di convergenza dei contributi più qualificati. Gli antropologi, procedendo in direzione inversa a quella usuale, cioè dell'ideologia, del senso comune, hanno costantemente teso a ridurre il « naturale » al « cul-turale », a spostare il confine delle asserzioni universali, di ciò che si ritiene naturale, mostrando quanto sovente presenti i segni indelebili della produ-zione storica.

L'esperienza interculturale permette di verificare la flessibilità, la plasticità della natura umana, o meglio la molteplicità delle sue possibilità comporta-mentali, cognitive ed emotive, espressione di quel formidabile strumento di adattamento interattivo con l'ambiente che è la cultura.

Là dove un semplicistico biologismo pretendeva e pretende di spiegare

tuttora4 la complessità e varietà del comportamento umano, saltando tale

concetto e ciò che esso implica, l'antropologia impone nuove basi e prospet-tive al discorso, impostando in termini dinamici di continua interazione tra fattori biologici, ambientali e culturali la comprensione delle vicissitudini evolutive della specie umana; vicissitudini che — come le malattie — oltre ad appartenere all'universo dell'organico seguono nel loro originarsi e

mu-tarsi le dinamiche socio-economiche e socio-culturali.5

L'antropologia medica è dunque al centro del dibattito natura-cultura pro-vandosi con le variazioni culturali delle morfologie nosologiche, e per tale compito costruisce, sulla base di apporti interdisciplinari, in una stretta col-laborazione fra discipline sociali e bio-mediche, quella ricomposizione del-l'unicità e globalità dell'evento « uomo » che la viene così a qualificare come pienamente aderente alla migliore tradizione antropologica.

Ma la rilevanza dell'antropologia medica non è solo dovuta al suo essere potenzialmente duplice occasione per una messa a punto della strategia meto-dologica della disciplina, e per un approfondimento ed una verifica teorica: la sua importanza riflette principalmente la posizione fondamentale che la problematica esistenziale inerente alla medicina assume all'interno del sistema socioculturale. La natura umana, la morte, la vita, la malattia, il dolore, la sfortuna, la paura, i rapporti sessuali, la nascita, il controllo demografico, ecc. rappresentano per ogni gruppo umano situazioni ansiogene di riflessione, e di intensa codificazione normativa. Anche se ogni singola società, in fun-zione della particolare strategia di adattamento seguita, offre a questi stimoli interpretazioni e risposte diverse, la loro universalità ed incisività ne deter-minano ovunque l'importanza, poiché tale contesto problematico in generale

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coincide o è strettamente associato alla riflessione dell'uomo sul suo essere al mondo, sulla modalità del suo esistere. Ecco quindi che i valori, le norme, le credenze, gli atteggiamenti inerenti tali esperienze costituiscono il nucleo centrale della « concezione del mondo » di ogni gruppo umano in quanto in esse si riflette radicalmente l'universo dei rapporti sociali esistenti, le con-dizioni di vita materiali e ideali.

Chiunque abbia esperienza di « lavoro sul campo » può confermare quanto sia essenziale per l'antropologo l'osservazione e la discussione di situazioni o temi quali la nascita e la morte, l'origine delle malattie, le pratiche tera-peutiche, per rilevare alcuni valori fondamentali, alcuni modelli di compor-tamento che uniformano e caratterizzano il gruppo; modelli di comporta-mento che si riproducono a vari livelli del sociale, che si estendono per molteplici istituzioni, ma che si manifestano in termini più espliciti e radicali in tali situazioni di già prevista crisi. Ad esempio il rapporto con la divinità, con la natura, ciò che è bene e ciò che è male, la rassegnazione, il fatalismo, il livello di cooperazione (a chi si chiede aiuto ?), di individualismo, di pri-vatezza, le aspettative nei confronti della vita, del prossimo, il culto dei morti, la manipolazione magica dell'esistenza propria ed altrui, la stessa con-cezione religiosa, ecc. Non mancano casi in cui lo stesso antropologo è venuto a configurarsi, specialmente nel passato e non sempre

volontaria-mente, nel ruolo di medico,6 usufruendo di tale ruolo per cogliere in

pro-fondità, per fissare, documentare, nel loro vivo ed immediato manifestarsi, momenti ed atteggiamenti esemplari di un distinto modo di vita. Si pensi alle suggestive annotazioni e riflessioni di Carlo Levi sull'universo esisten-ziale ed esperienesisten-ziale del contadino lucano, rese possibili, oltre che dalla sua acuta sensibilità di uomo e artista, dall'opportunità apertasi a lui con l'eser-cizio della professione medica.

Infine un unico test può dimostrare, senza lasciare alcun dubbio, l'impor-tanza di un complesso di tratti all'interno del sistema socioculturale: mi-surare il grado di controllo sociale che viene espresso dalla collettività, o da una parte dominante di essa, sul rispetto delle norme che sottendono tali tratti e quindi la facilità o la difficoltà di stimolarne e indurne il mutamento sostanziale. Ora, che la problematica medica non costituisce una zona franca della cultura, un ambito di strutturazione marginale, risulta evidente dalle forti resistenze psicosociali che emergono sovente nei confronti di tendenze innovative, dall'esplicito intervento del controllo sociale, nelle sue molteplici espressioni, nel segnare marcatamente il limite deviante del com-portamento, il confine tra normalità ricompensata e anormalità permessa o punita, tra la devianza incentivata, ammessa e di prestigio e quella degra-dante, tra malattia e salute, l'insieme ulteriormente differenziato a seconda della posizione dell'individuo nella stratificazione sociale.

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La necessità e l'urgenza di operare interventi realmente efficaci nel settore igienico-sanitario, possibili solo se guidati, oltre che da una volontà politica di mutamento sostanziale, da una specifica conoscenza della realtà socio-culturale, diviene un ulteriore rilevante motivo per auspicare lo sviluppo degli studi di antropologia medica.

Cultura, esperienze del corpo ed implicazioni mediche

Prima di prendere in esame da un punto di vista antropologico alcune que-stioni specifiche della realtà sanitaria italiana dove notevole risulti l'inci-denza culturale, sarà opportuno soffermarsi, con brevi considerazioni teoriche, su un ambito, quale è quello delle esperienze del corpo, sovente ignorato nelle sue complesse implicazioni dalla letteratura medica, ma da ritenersi basilare per la comprensione dei fenomeni morbosi.

La malattia, fisica o mentale, manifestandosi come alterazione biosomatica, deformazione, perturbazione o disturbo del comportamento, trova nel corpo l'unico reale spazio del suo esprimersi. Spazio, la cui già preesistente ed intensa codificazione, a livello culturale (collettivo) come psichico (indi-viduale), condiziona strutturalmente la dinamica ed i contenuti dei processi emotivi, cognitivi e comportamentali inerenti la situazione di salute e di malattia. Pertanto, alla luce di questa ipotesi e nel tentativo di individuare le fondamentali forme di relazione tra la cultura e la morfologia e la feno-menologia patologica, diviene necessario far riferimento, in primo luogo, al corpo, o meglio alle esperienze corporee, cioè a quell'insieme di situazioni e di « vissuti » che, come lo stato di salute e di malattia, si originano, si manifestano, coinvolgono lo spazio corporeo.

La tradizione organicistica della medicina occidentale, ormai da lungo tempo ci ha abituati ad una comprensione riduttiva dell'esperienza del corpo. La sola dimensione fisio-anatomica è stata ritenuta essenziale ed esaustiva-mente trattata: è stata sottovalutata, fino ad epoca recente, quella psicolo-gica ed è tutt'ora esclusa la dimensione socio-culturale. Apprendiamo a scom-porre il corpo in una miriade di strutture, organi, funzioni e processi, ove localizzare la malattia; ad oggettivarlo, a visualizzarlo come un fenomeno a sé stante, estraniandolo dal contesto di manifestazione individuale e sociale (storico) nel quale è immesso. Studiamo l'anatomia senza chiederci che cosa il corpo rappresenti per noi, che cosa percepiamo di esso, come ci piace-rebbe che fosse, quale sensazione in termini emotivi esso susciti, come siamo abituati ad usarlo, che cosa significa sentirsi bene o male, ecc.

Non si è, in definitiva, in alcun modo indagato sistematicamente sulle dimensioni che più attribuiscono significato al corpo, come se questo non coinvolgesse l'individuo nel dar senso alla propria immagine spaziale, come

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se il corpo risultasse escluso dalla continua opera di codificazione collettiva, di manipolazione, di trasformazione culturale intrapresa dall'uomo. L'assunto base che con evidenza emerge da tale carenza riflessiva (e conoscitiva in ge-nerale), può essere riassunto nella considerazione che il corpo sia un qualcosa di completamente «naturale», soggetto alle ferree leggi, anch'esse «naturali», che regolano i fenomeni biochimici, alle cui dinamiche benefiche o malefiche è senza dubbio da attribuire lo stato di salute e di malattia.

Attualmente si tende a riequilibrare, in termini esclusivamente psicologici, il discorso sull'esperienza del corpo. La prospettiva psicologica, in partico-lare di orientamento psicoanalitico e fenomenologico, ha avuto il merito di focalizzare l'attenzione sul corpo quale origine delle pulsioni ed epicentro delle connotazione emotive dell'individuo, del suo percepirsi globalmente come essere vivente, differenziato dall'ambiente esterno, diverso dagli « altri ». Ha sottolineato l'importanza delle prime esperienze collegate al corpo (allattamento, toilet training, ecc.) per una lettura della personalità

adulta.7 Di fatto nel bambino il processo durante il quale giunge a

distin-guere il proprio corpo dal resto dell'ambiente (delineando confini spaziali), costituisce un momento fondamentale nella formazione e strutturazione dell'Io, in quanto rende possibile l'acquisizione (da parte del bambino) di una coscienza ed oggettivazione del Sé, tale che, il riconoscersi come spazial-mente definito, significa potersi situare consapevolspazial-mente come valore auto-nomo in relazione con altri individui, con oggetti ed eventi esterni.

In questo modo, dunque, l'immagine del corpo, quale percezione emotiva del Sé occupante o dotato di spazio, influenza direttamente le valutazioni globali del Sé e le possibilità e modalità cognitive. Star bene o male, in forma e in salute, sentirsi bello o brutto, forte o debole, eccitato, pronto, nervoso, stanco, ecc. sono precisi attributi con i quali indichiamo gli stati del Sé corporeo, contingenti immagini corporee.

Se tuttavia intendiamo comprendere le esperienze del corpo nella loro complessità, non possiamo limitarci alla prospettiva psicologica, alla descri-zione della dinamica individuale dell'immagine corporea, a meno di ritenere impropriamente come universali i meccanismi e le espressioni psichiche a livello individuale. È necessario, in definitiva, interrogarsi sull'origine del-l'immagine del corpo, con quale modalità viene a costituirsi, su quale realtà o contenuto culturale viene a fondarsi, essendo evidenti una molteplicità di sue espressioni. L'antropologia può offrire delle risposte a tale quesito occu-pandosi della rilevazione e delle comparazioni dei diversi simboli e delle diverse tecniche corporali dei vari gruppi umani spazialmente e storicamente determinati. Se per simboli comprendiamo l'insieme dei significati che ven-gono associati al corpo e alle parti distintive che lo costituiscono, per tecniche

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società, si servono, uniformandosi alla tradizione, del loro corpo » .8 Sono pertanto inclusi in tale concetto tutti quei tratti del portamento, più che genericamente del comportamento, in cui viene utilizzato il corpo o parte di esso, in una certa modalità, fissata culturalmente e pertanto appresa, come altri modelli culturali, nel processo di socializzazione-inculturazione. L'aspetto rivoluzionario della brillante intuizione classificatoria di Mauss va colto nel suo essere un riuscito tentativo di confutazione delle attribuzioni di « naturalità » a eventi che, come le posture corporali, sono del tutto originate dalla cultura o significativamente alterate e manipolate nel processo storico da non potersi più discernere la condizione naturale dalla manife-stazione culturale. Così il nostro modo di camminare, di correre, di dormire

(vi sono popolazioni, ad es. i Masai, che dormono in posizione verticale),9

nuotare, partorire, avere rapporti sessuali, ecc., non è naturale ma culturale, cioè diverso da altri e quindi inventato o appreso; è un evento culturale che per essere compreso deve essere riferito in prima istanza al sistema simbo-lico, contestuale di cui è una delle espressioni.

Alcune società possono aver teorizzato una assenza di confini — come

ricorda M. Mead 10 — tra il corpo e l'ambiente, tanto che l'esistenza viene

completamente immersa in un continuum ecologico, viene percepita come appartenente alla, o come parte della natura, frutto della terra destinato con la morte a ritornarvi. Ma anche un vincolo di relazione di parentela, di continuità generazionale, può essere rappresentato da un elemento del corpo, quale il sangue, che assurge a simbolizzare nel presunto comune pos-sesso uno stretto legame di solidarietà, una precisa identità sociale. Ancora, la Mead ci ricorda prescrizioni associate a parti del corpo, come ad esempio « le cose che possono essere fatte con la mano sinistra e quelle che possono

essere fatte con la destra »: 11 la sinistra collegata per alcune culture al sesso

e agli escrementi e la destra al cucinare e mangiare; altri significati emozio-nali e rituali sono in relazione alla testa, al taglio dei capelli, alle mammelle e in generale agli organi sessuali e a zone erogene, ecc.

Nella società indiana, la cui stratificazione castale è fondata sul criterio della purità-impurità, gravi pericoli di contaminazione (con le implicazioni sociali e psichiche che ciò comporta) possono essere arrecati all'individuo dal contatto fisico diretto o indiretto con membri di caste inferiori (ad esempio anche per i cibi cucinati da questi) o con escrementi del corpo, o sangue (in particolare quello mestruale), di cui non ci si sia purificati con opportune abluzioni e preghiere.

Si pensi anche al cuore per noi occidentali, che identifica la parte più profonda e sincera della persona, sede dell'anima, della buona coscienza, del-l'amore; e allora diviene comprensibile il turbamento, anche di parte della classe medica, alla notizia di trapianti di tale organo, che sfociò nella

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pole-mica sulla liceità di tali interventi, e sul criterio di valutazione della morte clinica. Se il cuore è al vertice, quanto a purezza, della gerarchia morale delle parti del corpo, agli organi genitali sono associati sovente, nella nostra cultura, significati opposti, di impuro, di sporco, ecc. Queste particolari con-notazioni, come si può immaginare, vengono poi ad incidere notevolmente sui « vissuti » nei confronti di alcune malattie e sui livelli di privatezza riguardanti patologie che colpiscono specifici organi, facilitando o inibendo il processo terapeutico, oltre che la raccolta di dati anamnestici, ecc.

Il problema che si pone già in queste frammentarie annotazioni riguarda il tipo di correlazione tra la dimensione psicologica e quella antropologica, tra l'immagine corporea e le tecniche ed i simboli corporali. In un contributo,

ancora in via di pubblicazione, R. Menarini,12 dopo aver documentato i

diversi livelli e prospettive di analisi delle esperienze del corpo, ne ha ten-tato una sintesi seguendo l'iniziale proposta di M. Mauss, che assegnava al fattore psichico il momento di collegamento, di mediazione tra quello bio-logico e quello socioculturale. Immagine e tecnica corporale sono in un rapporto diretto di interdipendenza, in cui però la seconda diviene fattore predominante della forma assunta dalla prima; cioè la percezione spaziale del proprio Sé (l'immagine del corpo) potrà essere in buona parte direttamente riferita alle connotazioni e agli usi culturali nei confronti del corpo, propri del gruppo del quale l'individuo fa parte. Tecniche e simboli corporali,

dunque — ed è qui che diventa evidente la rilevanza dell'approccio antro-pologico alle esperienze del corpo — costituiscono momenti reali di azione,

e modelli ideali di riferimento di ordine collettivo, sui quali viene a fondarsi l'immagine del corpo dell'individuo, cioè il vissuto della propria esistenza corporea.

Ogni società, selezionando tra le infinite possibilità di comportamento e di codificazione soltanto alcune particolari utilizzazioni e significati del corpo, corrispondenti alle necessità legate alla strategia di adattamento e manipola-zione intrapresa e al modo e ai rapporti di produmanipola-zione elaborati, viene a favorire durante il lungo e fondamentale periodo di socializzazione, il costi-tuirsi negli individui dei criteri di valutazione uniformi riguardanti il corpo nel suo insieme (bellezza, salute, forza, codice di comunicazione mimica o gestuale), e nelle sue diverse parti componenti, come pure le posizioni ed i movimenti adeguati a determinate situazioni, la valenza positiva o negativa di alcuni organi, la privatezza di certe funzioni corporali (sessualità, eva-cuazione).

Così gli attributi con i quali siamo soliti esprimere, visualizzare, comu-nicare sensazioni ed esperienze di stati corporei, come essere belli o brutti, forti o deboli, in salute o malati, stanchi ecc., riflettono modelli collettivi di bellezza, di forza, di salute propri della cultura alla quale apparteniamo;

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modelli ormai interiorizzati così profondamente da essere vissuti del tutto come naturali.

Resoconti etnografici riguardanti popoli detti « primitivi », hanno dimo-strato ampiamente quanto possono essere diversi i modelli di riferimento, i criteri di valutazione e quindi manifestarsi differentemente le stesse espe-rienze reali ad essi collegati. « Le soglie di eccitabilità, — afferma C. Lévi-Strauss — i limiti di resistenza variano da cultura a cultura. Lo sforzo ' irrealizzabile ', il dolore ' intollerabile ', il piacere ' incredibile ', sono, più che funzioni di particolarità individuali, criteri sanzionati dalla

appro-vazione o dalla disapproappro-vazione collettive ».13 L'esperienza ed il controllo del

dolore, della sofferenza,14 la resistenza fisica saranno, ad es., in una società

di cacciatori, valori fondamentali che si distribuiranno in una molteplicità di modelli, di norme del comportamento che richiederanno una continua, quo-tidiana attuazione da parte dell'individuo, che, non realizzandoli, viene a sentirsi come deviante, come malato. Del resto la collettività si garantisce da possibili discrepanze dal modello ideale istituzionalizzando meccanismi di controllo sociale dell'immagine del corpo, quali ad esempio possono essere considerati i riti di iniziazione, o de passage, dove il cambiamento di status è simbolizzato da rituali altamente drammatici che implicano specifiche doti fisiche (robustezza, forza, destrezza, ecc.), e del carattere (tenacia, co-raggio, tensione, controllo), cioè caratteristiche che sottendono una precisa identità sessuale, una definita immagine corporea. Se l'individuo è pronto a sopportare sofferenze, dolori, a sottoporsi a certe prove, significa che la sua immagine corporea corrisponde al modello culturale, funzione reciproca delle tecniche corporali necessarie alla vita sociale, ad esempio alla caccia, alla guerra.

Risulta pertanto evidente che in ciascun individuo opera un filtro psico-culturale che seleziona le sensazioni propriocettive ed eterocettive determi-nando spostamenti, diminuzioni o aumenti di intensità. Gli indicatori sinto-matologici degli stati corporei della salute e della malattia possono variare notevolmente da cultura a cultura, e ciò che per alcune società presenta tutti i connotati della patologia per altre rappresenta una condizione di normalità.

Si può provare comunque, utilizzando e sviluppando il modello interpreta-tivo-esplicativo su menzionato, ad andare oltre ad affermazioni relativistiche (che pur saranno sottolineate come fondamentali nel corso della trattazione), tentando di comprendere dall'interno il significato ed il meccanismo del co-stituirsi di attributi quali la salute e la malattia. Se lo stato di salute non è individuabile mediante un criterio universale, né è particolare per ogni in-dividuo, allora corrisponde alla situazione in cui vi è una perfetta aderenza tra la contingente immagine del corpo e quella ideale ipostatizzata: quando

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cioè viene realizzato dall'individuo il modello culturale dell'efficienza delle tecniche corporali, proprie del gruppo a cui appartiene. Sentirsi malato invece significa percepire la discrepanza tra realtà e modello ideale, cioè percepire la deviazione del proprio stato corporeo dallo standard ideale e medio (di fatto realizzato nel gruppo) della immagine corporea della salute. Allora si comprende perché sfare bene può equivalere a non sentire nulla, non soltanto non avvertire alcun dolore ma in particolare non percepire il proprio corpo, cioè non sentire alcun conflitto tra reale ed ideale, realizzare (confondere) 1'« essere » nel « dover essere ». Mentre sentirsi male significa, innanzitutto, percepirsi, sentire la presenza di organi, avere una esperienza corporea frustrante (dolore fisico o psichico) che risulta indicatore di una mancata realizzazione dei modelli ideali di immagine del corpo, di una reale, immaginaria, potenziale inabilità alle tecniche corporali (ad es. produttive, sessuali, e relazionali in generale) richieste per la partecipazione alla vita sociale. Casi di malaria diffusa presso popolazioni primitive, non compor-tando forme evidenti e gravi di invalidità ai rapporti interpersonali, non venivano riconosciuti come manifestazioni patologiche.

Un esempio, a mio avviso chiarificante del rapporto fra modello culturale e criterio di consapevolezza/salute del corpo può essere dedotto da una

ricerca di Fisher e Cleveland,16 condotta su di un campione di studentesse

e studenti universitari americani. Nelle prime la consapevolezza di essere e / o di avere un corpo era correlata alla definizione dei propri confini cor-porei, mentre per i secondi era associata alle propriocezioni gastro-intestinali. Sviluppando questi risultati empirici, si possono trarre importanti considera-zioni di antropologia medica.

Localizzando in aree precise la consapevolezza del proprio corpo, è evidente che si proietta su queste ragioni maggiore attenzione ed ansia nel rilevare indicatori di stati di salute o malattia, che possono facilmente venire gene-ralizzati alla condizione globale di benessere o malessere dell'organismo. Per cui queste ragazze sarebbero più attente e sensibili a deformazioni epi-dermiche (dermatosi, cicatrici, amputazioni) e l'esperienza di una situazione di benessere e salute verrebbe associata piuttosto allo stato ottimale delle regioni esterne, mentre per gli uomini gli indicatori fondamentali verrebbero ricercati nel regolare o irregolare funzionamento dell'apparato gastro-inte-stinale. Sebbene il campione usato fosse molto piccolo, e quindi i risultati della ricerca non si possano considerare particolarmente significativi, tuttavia questi risultati suggeriscono alcune correlazioni interessanti. Gli stessi autori infatti rilevano come la differenza nell'immagine, percezione e consape-volezza del corpo tra i due sessi sia associabile al diverso status e ruolo sociale delle donne e degli uomini nella nostra società, a cui corrispondono

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modelli diversi di comportamento, e quindi diverse tecniche corporali, e dunque differenti immagini corporee da interiorizzare. La bellezza fisica (ri-levabile nelle aree esterne del corpo) e l'efficienza fisica (legata ai processi dell'alimentazione) sono requisiti attitudinali importanti per svolgere i ruoli assegnati a donne ed uomini nella società. Sarebbe interessante valutare rimentalmente i riflessi dei ruoli sessuali sulle esperienze del corpo, spe-cialmente inerenti la salute, in una prospettiva però comparativa

intercul-turale che inglobasse popoli, quali ad es. quelli descritti dalla Mead,17 dove

i modelli culturali prescritti ai sessi risultano alquanto diversi da quelli occi-dentali, e quindi documentasse se vi siano le stesse dinamiche nella esperienza e nella valutazione del corpo. A mio avviso, solo lo spostarsi in contesti rurali — pur rimanendo nell'universo culturale occidentale — può essere fonte di interessanti rilevamenti di atteggiamenti nei confronti del proprio corpo da parte dei due sessi, diversi da quelli urbani.

Concludendo, l'antropologia e la psicologia sottolineano la importanza di un attento esame delle esperienze del corpo, nei tre livelli che le caratteriz-zano, cioè della percezione (percezione e connotazione emotiva del corpo, recezione selettiva di stimoli esterni ed interni), della comunicazione (il corpo come strumento di comunicazione, in cui parti, posizioni assunte, distanze tra

i corpi,18 esprimono precisi messaggi nel codice culturale), della

azione-mani-polazione (il corpo come strumento culturale, modellato in funzione delle operazioni, culturalmente codificate ed apprese, prima fonte di energia, primo

strumento di manipolazione, di controllo, di adattamento all'ambiente).19

Qualsiasi iniziativa nell'ambito bio-medico, che prescinda o sottovaluti la conoscenza e l'attenta riflessione su questi tre livelli dell'esperienza del corpo, risulta irrimediabilmente compressa poiché non riconosce o non attribuisce il giusto valore al fatto che esistono sostanziali differenze nella umanità, che si esprimono non soltanto nella diversità delle idee, dei valori, dei compor-tamenti, dei manufatti, ma anche nella stessa « costituzione bio-psichica » de-gli individui, in quede-gli aspetti che più siamo convinti essere naturali, e comuni a tutti gli uomini. Così bisogna far necessario riferimento all'uso ed alla codificazione del corpo ed alle sue implicazioni e derivazioni sociali, psichiche e biologiche, se si vuole comprendere ad es. le difficoltà incontrate in molte donne occidentali nella ginnastica pre-parto; la rigidità del corpo, o la

ten-sione e la prontezza di riflessi, richiesti progressivamente nell'universo industriale, con la norma di essere costantemente « up to date », « svegli », in tensione, di contro alla maggiore facilità di rilassarsi degli orientali, di controllare, con tecniche opportune di respirazione, anche l'ansia, l'affatica-mento, l'attenzione.

Ulteriori esempi che sottolineano la necessità per l'operatore sanitario di conoscere particolari usi e significati emotivi associati al corpo ed ai suoi

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organi ci vengono efficacemente descritti da M. Mead in Cultural Patterns

and Technical Change:

Se è necessario trattare sia i piedi che la testa, sarebbe preferibile cominciare la cura a partire dalla zona del corpo meno preziosa. Se è necessario fare un trapianto di pelle, ed è perciò inevitabile prendere la pelle da zone-- del corpo considerate inferiori, chi esegue l'opera-zione dovrebbe almeno rendersi conto di questa differenza di valuta-zione. Il vantaggio che si può ottenere dai radere capelli o peli do-vrebbe essere considerato alla luce degli svantaggi che una tale prepa-razione può portare. In ospedale, le infermiere possono involontaria-mente scandalizzare un paziente usando lo stesso asciugamano per la faccia e per il pube; anzi, i Polacchi sono così meticolosi che usano tre asciugamani diversi, uno per la faccia, uno per i genitali e le gambe e piedi, e uno per il resto del corpo [a questo punto è curioso notare come anche una importante antropologa possa peccare di etno-centrismo, essendo la « pratica » dei due-tre asciugamani abbastanza diffusa in tutta Europa. N.d.A.]. È importante sapere che per molte persone il sangue non è tutto lo stesso; il sangue che viene dalle vene può essere curativo, dare salute, essere la fonte della vita e rappresentare la continuità fra l'ambiente naturale e quello umano, mentre il sangue mestruale e lochiale è pericoloso e distruttivo, spe-cialmente per gli uomini. Un paziente si può preoccupare molto di cosa succede del sangue versato; un altro paziente il cui cibo venga portato da un'infermiera che ha le mestruazioni, può sospettarla di volergli arrecare impotenza o morte. Là dove il sangue rappresenta la continuità della vita, il paziente può essere preoccupato di sapere l'origine del sangue che gli viene dato in trasfusione.20

Il significato culturale e psichico che assume il corpo può incidere non soltanto sulla percezione ed interpretazione del sintomo patologico ma anche

sulla sua stessa manifestazione e localizzazione.21

Inoltre, tale connotazione riesce ad influenzare il decorso della malattia e la riuscita della terapia, oltre che manifestarsi esplicitamente nelle conse-guenze sociali e psichiche derivate dall'esperienza di malattia. Pertanto, alla dimensione biosomatica-anatomica che usualmente prendiamo in considera-zione, è necessario congiungere la dimensione psichica e culturale che illu-mina la relazione che l'individuo, in quanto membro di un gruppo spazial-mente e storicaspazial-mente determinato, attua con il proprio corpo.

Un campo in cui le considerazioni che precedono sono particolarmente pertinenti è quello dell'educazione sessuale, che spesso viene fatta coinci-dere con l'impartire nozioni di anatomia o fisiologia. Raramente vengono messi in luce chiara gli aspetti psicologici del problema, e sempre ne

ven-gono esclusi quelli socioculturali.22 Eppure il collegamento con la realtà

socio economica, la precisa individuazione nel più ampio sistema culturale dei valori e modelli di socializzazione, responsabili per i pregiudizi, per

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le paure e le tensioni in questa sfera del comportamento, sono solo alcuni aspetti del fondamentale apporto delle scienze sociali, senza il cui coinvolgi-mento si conferma sostanzialmente lo status quo esistente.

La stessa prospettiva di attenta considerazione dei fattori socioculturali e psicoculturali inerenti alla esperienza del corpo, deve necessariamente gui-dare corsi di medicina e di educazione sanitaria, e specialmente iniziative di intervento nel campo dell'igiene e della prevenzione di malattie.

Di fronte alle mutate condizioni di organizzazione del lavoro e di vita in generale si vanno affermando usi e codificazioni del corpo differenti da quelli che da secoli estrinsechiamo, il cui riflesso sulla salute è immediato e se non controllato può risultare pericoloso. Vi è chi ha ritenuto di denominare la nostra cultura occidentale odierna come la civiltà dell'uomo seduto per

l'ec-cesso di sedentarietà presente nelle attività intraprese quotidianamente.23

Seppure tale caratterizzazione ci sembri esagerata è pur vera la notevole dif-fusione di tali posture non accompagnate — ed è qui il pericolo — da

sen-sazioni di rilassamento. Oltre all'aumento di tipici disturbi della sedentarietà42

sembrano pericolosamente venir meno le tradizionali tecniche di riposo e di distensione, senza che ne vengano suggerite altre di altrettanto semplice attuazione. Cambia la nozione stessa di fatica, ben poco riconducibile al prolungato sforzo fisico, più riferibile alla tensione emotiva, alla concentra-zione intellettuale, allo stress.

Permane comunque la dicotomia idealistica tra spirito/materia, tra anima (ora mente)/corpo, i cui poli opposti sono esaltati (i primi) e denigrati (i secondi). Connotazioni negative rimangono attribuite alla corporeità e suscita immediati sensi di colpa toccarsi, specialmente all'interno delle cavità natu-rali del corpo, guardarsi nudi allo specchio, osservare il corpo spogliato di altri. Si considerano volgarità e destano repulsione le secrezioni del corpo, anche proprie (sudore, orina, feci, grasso cutaneo, forfora) che vengono im-mediatamente negate, nascoste.

La progressiva diminuzione dell'espressività gestuale è un altro indice del profondo solco che si sta aprendo nella nostra società tra noi ed il nostro corpo, sempre più vissuto come estraneo, rifiutato, da alterare necessaria-mente (belletto, profumi, scarpe alte, ecc.) e da mostrare in singole parti feticisticamente.

Le esperienze del corpo conseguenti gli attuali mutamenti in corso, è un campo — come si può notare — tutto ancora da esplorare in indagini inter-disciplinari ed i cui risultati potranno essere di notevole interesse per la

medicina.25

È necessario dunque sempre ricordare che la lenta ma progressiva opera di trasformazione della natura in cultura, intrapresa dall'uomo, coinvolge nel cambiamento la stessa natura umana. Così l'uomo — come scrisse C. Geertz

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dopo aver accuratamente documentato l'influenza che l'uso e la fabbricazione dei primi strumenti culturali inventati casualmente apportò allo sviluppo del sistema cerebrale — è « non solo produttore di cultura ma, in un senso

speci-ficatamente biologico, il suo prodotto ».26

Credenze e valori culturali nell'ambito della medicina in Italia

Nel sottolineare i contenuti ed i processi della formazione delle esperienze del corpo, abbiamo ribadito la matrice socioculturale delle categorie di « sa-lute » e di « malattia », dunque la storicizzazione sia dei fenomeni morbosi che delle loro interpretazioni; categorie che trovano in ogni gruppo umano teorie e risposte empiriche diverse, e che ovunque sono da considerarsi tratti fondamentali, connessi strettamente con il sistema culturale e più in generale con i rapporti sociali e con la strategia tecnico-economica di adat-tamento e manipolazione dell'ambiente.

È quindi indispensabile, nell'introdurci, da un punto di vista antropolo-gico, alla problematica della salute in Italia, rilevare valori e atteggiamenti, propri della cultura italiana, evidenziando però la presenza delle diversità esistenti al suo interno, dunque di molteplici disuguaglianze sociali. Far riferimento ad una presunta omogeneità culturale, ad un unico « carattere nazionale », sarebbe non solo una gratuita astrazione ma una falsificazione e mistificazione dei termini del problema sanitario, che, nella sua gravità, presenta differenze notevoli a seconda delle classi sociali e della dislocazione regionale; differenze inerenti alla distribuzione delle malattie, al modo di rispondere ad esse, ai servizi assistenziali sanitari predisposti e fruibili. Dato il nostro interesse prevalentemente socio-antropologico, più che approfondire le specifiche forme patologiche che colpiscono le diverse classi sociali, si ten-terà di rilevare alcune modalità culturali di vivere e reagire alle infermità, alle alterazioni della salute, sottintendendo sovente come implicito il rife-rimento alle condizioni materiali e sociali che stanno alla base di tali atteg-giamenti.

La collettività subalterna tradizionale

Prendendo in esame le classi subalterne meridionali, ed in particolare quelle localizzate negli spazi del Mezzogiorno interno, alcune ricerche hanno indi-viduato un insieme di orientamenti normativi, portanti dell'intera concezione tradizionale della vita, strutturanti livelli diversi del sociale. Questi tratti vanno tutti ricondotti direttamente al lavoro agricolo, alle condizioni pre-carie di esistenza materiale e alla collocazione subalterna ed emarginata non modificata sostanzialmente in secoli di vicissitudini storiche. Infatti, quella

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crisi di presenza del contadino che nell'analisi di E. De Martino diveniva matrice di operazioni magiche volte al possibile controllo delle dinamiche interpersonali, non permette di comprendere soltanto sindromi psicosoma-tiche, quali ad esempio la fattura, ma getta luce su altri valori compresenti, di notevole rilievo per chiarire il rapporto dell'individuo con la medicina. È chiaro il riferimento al vissuto tragico della vita, e quindi ai conseguenti atteggiamenti, solo apparentemente contraddittori, di consapevolezza sia del-l'indispensabilità di cimentarsi con coraggio e fatica contro immanenti forze ostili, sia della impossibilità di una vittoria definitiva su di esse; pertanto l'abitudine ad accontentarsi o rassegnarsi fatalmente al destino. Inoltre, sem pre presenti in tale mondo subalterno emarginato, risultano la estraneità dello Stato, della cosa pubblica di contro alla consistenza di modalità relazionali tradizionali dettate dai ruoli familistici e parentali, dai vincoli clientelari e di vicinato.

Vediamo in breve quali implicazioni hanno sullo specifico sanitario questi elementi culturali. La fascinazione attesta l'insorgenza dell'invidia provocata da una non egualitaria, né proporzionata ai bisogni, ripartizione nella collet-tività delle gratificazioni connesse con il benessere economico e tutto ciò che da esso deriva, con la bellezza nel senso popolare di salute, robustezza, oltre che appetibilità sessuale. È uno strumento, la magia, elaborato in un con-testo precapitalistico, di rapporti fortemente personalizzati, per « svilire » o annullare (es. malattia) l'oggetto stesso dell'invidia o colpire il portatore di una manifesta disuguaglianza. Si dà il caso che costui, consapevole di essere privilegiato, desiderato, invidiato, dunque possibile oggetto di « fascina-zione », talvolta risponda, a questo invisibile ma percepibile controllo dal basso (dello svantaggio), assumendosi inconsciamente la colpa della propria diversità e somatizzandola in disturbi di vario genere, riconducibili,

nell'in-terpretazione popolare, al malocchio, e se più gravi, alla fattura.27

La rilevanza di quanto ora ipotizzato è costituita dalla fondamentale esat-tezza delle direttive interpretative della medicina popolare che fanno risalire le cause di numerosi disturbi psicosomatici alle dinamiche sociali. Che, a dif-ferenza di quanto vorrebbero pregiudizi positivistici, in tale universo subal-terno si faccia un uso tutto sommato consapevole, razionale e prudente degli operatori magici a fini terapeutici, è facilmente deducibile dalla precisa distin-zione, sempre operata, tra « malattie per le quali hanno più efficacia le me-dicine del dottore e malattie per le quali queste meme-dicine non hanno efficacia.

E tra queste vi sono molte psicosi e nevrosi ».2 8

Altrettanto diretta della connessione operazioni magiche e medicina, è il rapporto tra quest'ultima e la visione del mondo, cioè i valori e gli atteg-giamenti nei confronti della realtà. I connotati tragici che assume la vita, impongono al contadino meridionale da una parte un senso generale di

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fata-lismo, quale risposta adattiva dell'individuo ad una condizione di privazione, di sofferenza percepita come « naturale », a cui non si intravvede, cioè, cultu-ralmente una via di uscita; dall'altra parte, all'interno del generale soggiacere rassegnato dell'individuo alle leggi incontrollabili della natura, si situa un margine di conquista, uno spazio in cui dover mostrare coraggio, volontà, risolutezza, per non perdere, per almeno riprodurre quelle minime e pre-carie condizioni di esistenza. Tale visione del mondo sorge nelle masse agri-cole dominate, dove il rapporto diretto con le forze della natura, ove queste non siano generose, e la ormai pietrificata stratificazione sociale, stimola l'individuo a lottare nel quotidiano, più nella consapevolezza di non privarsi del già posseduto che nella speranza di mutamenti nel futuro.

Il riflesso di tali atteggiamenti sul rapporto dell'individuo con la ma-lattia è evidente. Si pensi ad esempio al significato che può assumere il per-cepirsi malato; le resistenze a riconoscersi tale, vanno dal desiderio di non gravare sul gruppo primario, di cui si conosce la fragilità economica, dal continuo impegno lavorativo che non permette soste in particolari periodi, alla necessità, data la consistenza del controllo sociale, di sopportare con coraggio, fino al punto di ignorarli, dolori e sofferenze; del resto sono questi caratteri così abituali, così consueti al suo universo esperienziale da essere connotati come normali e non patologici. Così patologie sociali, direttamente collegate al tipo di vita e di lavoro condotti (es. artrosi, un tempo la ma-laria), e specialmente disturbi conseguenti l'età avanzata, vengono prevalen-temente accettati, senza ricorrere a cure particolari. La presenza di individui subnormali (es. mongolismo, emiplegia), può essere vissuta come segno puni-tivo del destino, come croce cui farsi carico con rassegnazione, sopravvalu-tando notevolmente l'handicap nei suoi effetti sulle capacità cognitive ed affettive, e non stimolando iniziative terapeutiche adeguate. Le stesse prescri-zioni mediche risentono del clima di fatalismo, talvolta assorbito dal medico condotto di campagna, per cui il caso e le opzioni individuali dirigono note-volmente l'andamento della cura. La convinzione della rilevanza della sorte sulla genesi di eventi patologici, viene costantemente rafforzata in tali con-testi dall'ormai tradizionale indisponibilità di strutture sanitarie.

L'incidenza dei vincoli tradizionali di ordine familistico, clientelare, di vicinato nell'ambito medico, va ascritta essenzialmente alla duplice funzione di mutuo soccorso e di controllo sociale che essi assumono nel sistema comu-nitario. Molteplici forme di assistenza, previste come reciproci scambi tra parenti, tra amici, tra vicini, scandiscono i momenti più tragici e più lieti dell'esistenza; liberano l'individuo dall'eccessivo carico di responsabilità, socia-lizzando sia le gioie che le sofferenze. Così nelle nascite, come nelle morti e nelle malattie, la presenza della collettività, facendo corona intorno agli attori con varie e particolari attenzioni, assumendosi compiti di ogni genere,

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permette loro un confronto diretto con l'evento, sicuri della solidarietà su altri fronti. Ad esempio, la consuetudine di preparare il cibo per tre, quattro giorni dopo il decesso alla famiglia del defunto, facilita quella elaborazione personale del lutto, quella espressiva, intensa drammatizzazione del dolore, necessaria per condensare nel più breve periodo profondi sentimenti, spesso ambivalenti, ansie per il futuro, ecc. Riducendo al minimo il peso della quotidianità, sopportata solidariamene dal gruppo, si sottolinea come stra-ordinario, dunque occasionale, unico, l'evento accaduto, in cui si può con-centrare allora tutto l'impegno individuale volto al suo superamento.

La responsabilizzazione collettiva della malattia, permea l'intera conce-zione della medicina popolare, non limitandosi a livello eziologico, nel distri-care dai ruoli e dalle dinamiche interpersonali possibili fattori scatenanti, ad esempio, operazioni magiche, ma coinvolgendo il gruppo nel momento tera-peutico, richiedendo cioè assidue cure, specifici rituali (tabù, voti, preghiere, eccetera) e, come afferma Hughes, per le popolazioni « dette primitive », « la violazione di tali restrizioni da parte di ciascuno di questa gente insidierà

la salute del malato ».2 9 Avvolto da un alone di solidarietà, inserito in un

processo collettivo finalizzato alla sua guarigione, il malato trae, dalla stretta maglia protettiva dei rapporti sociali, le forze fisiche e specialmente quelle

psichiche per superare il suo stato.30 Del resto, se si attribuisce al sociale

la causa del fenomeno morboso, sarà necessariamente il sociale, quella parte amica e salvatrice di esso, a permetterne la guarigione. Il delicato equilibrio rotto all'insorgenza della malattia, anche se localizzato nel singolo, non è individuale ma relazionale, e quindi va recuperato a livello sociale, mobili-tando tutte le forze positive (vicine all'individuo) che si contrappongono a quelle generatrici del male. Da qui una esplicita funzione sociale coesiva,

reintegrativa dell'intera collettività presente nel rituale curativo.31 L'evidente

potenzialità terapeutica, oltre che socializzante, insita nella pratica di tale atteggiamento, permette di comprendere i buoni risultati ottenuti dalla me-dicina popolare in generale, ed in particolare per le malattie mentali e psico-somatiche dove più specificatamente relazionale si presenta il disturbo.

Nel consiglio, nell'aiuto offerto dal parente o dall'amico in modo disinte-ressato, vi è comunque congiunta strettamente all'espressione di solidarietà la curiosità per la condizione altrui, il desiderio di suggerire o imporre com-portamenti e atteggiamenti adeguati alla situazione, il verificare la loro attua-zione. Vi è cioè un'attenta opera di controllo sociale informale che nell'am-bito sanitario si estrinseca più che mai capillarmente ed in profondità.

Ad esempio, a differenza di quanto avviene in città, si può notare come il medico sia interpellato meno frequentemente: soltanto nei casi di indub-bia gravità che comportano forme di invalidità alle tecniche corporali di lavoro e sempre nella consapevolezza che tale intervento della medicina,

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in-formando l'attenta collettività dell'esistenza di una patologia in corso, possa pregiudicare il futuro sociale dell'individuo. Esaminando le resistenze alla medicina in ambiente rurale-meridionale, T. Tentori rileva come

ogni famiglia tende a sottrarre informazioni non buone sulle proprie « giovani da marito » ai membri del vicinato, i quali potrebbero essere non solo degli informatori, ma anche dei nemici in rapporto alla politica matrimoniale, in quanto potrebbero avere interesse, per favo-rire proprie parenti, a porre in cattiva luce le altre ragazze. Cosi, quando una ragazza si ammala, per impedire che sia giudicata di cattiva salute, si evita di chiamare il medico, oppure si dice ai vicini che il medico è venuto per qualche altro parente. Su questo compor-tamento incide anche l'idea che il « dottore » possa, durante la visita, approfittare della ragazza.32

Pertanto sono frequenti casi di giovani, prevalentemente però di classe media e di sesso femminile, che la famiglia, nel tentativo di nascondere la malattia stigmatizzatrice, da prima relega in casa inibendo rapporti sociali ed, eventualmente, in seguito, con l'aggravarsi del male, fa ricoverare in ospedali di altre province o regioni, lontani dagli sguardi indiscreti delle comunica-zioni interpersonali, sempre per non compromettere la possibilità di un

« buon matrimonio », e di un « buon lavoro ».33 Così può capitare, come

mi è stato dato di osservare di recente, che una ragazza ricoverata

all'Ospe-dale Forlanini di Roma,34 pur lontana dal suo paese, senta, sebbene guarita,

di non essere più nelle condizioni di farsi accettare dalla « collettività origi-naria » e riassumendo la sua esperienza con la frase « sono definitivamente bruciata » viene ormai a percepirsi a tal punto come una deviante, come una emarginata, da risultare attratta dalla prostituzione.

In questo caso si intravede realizzato l'effetto discriminatorio prodotto dal-l'azione combinata di controllo sociale di due istituzioni — i gruppi primari e le strutture sanitarie — entrambe tese a sancire la devianza, a decretare l'esclusione della donna quando questa si allontana dagli standards

tradizio-nali di comportamento per lei tracciati.35 È alla specifica funzione di

con-trollo sociale ed al marginale interesse conoscitivo per la salute femminile che deve principalmente imputarsi l'estraneità della donna occidentale rispetto alla medicina; estraneità rilevabile sia nella scarsa assiduità delle visite e delle cure mediche, sia nella subalternità dei ruoli da lei occupati nelle isti-tuzioni sanitarie.

Il difficile e particolare rapporto della donna con la medicina in cui con-vergono radicati modelli di comportamento, più o meno in trasformazione, aspettative per il futuro, meccanismi informali di controllo sociale, tradizio-nali conflitti interfamiliari e intergeneraziotradizio-nali, ecc., può risultare più chiaro in questo ulteriore emblematico atteggiamento, rilevato in ambiente rurale in transizione ma che in seguito si è appurato essere diffuso anche in aree

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urbane. Si tratta di una giovane contadina che interrogata sulla sua scelta di partorire in ospedale, rispondeva che ciò era dovuto alla presenza di individui (il personale sanitario), che avrebbe visto solo in quella occasione e poi non avrebbe più incontrato. Cosa sorregge questa strana motivazione ? Quali contraddizioni impongono alla donna di vivere, per date situazioni, come ostile il proprio ambiente, così da allontanarsene proprio nel momento di maggior bisogno ?

Un tempo, come era costume in molte zone del sud, la presenza di parenti e vicine, a fianco della partoriente, aveva una funzione prevalentemente di solidarietà e rassicurazione. Oltre all'esperienza e all'aiuto materiale indispen-sabili allora, queste scandivano ogni sofferenza con un coro di suppliche e di preghiere, tanto da coprire anche i lamenti più acuti inserendoli in un mo-dulo ritmico iterativo tradizionale di sicuro effetto narcotizzante (rassicu-rante, calmante). Rotto l'equilibrio del consenso a modelli culturali arcaici (tradizionali), oggi la presenza delle donne vicino alla partoriente non più coinvolte nel rituale di conforto, può accentuare quel carattere di controllo sociale che già precedentemente era in luce. Inoltre sempre più la donna, sebbene ritenuta e abituata a considerarsi debole ed emotiva, deve, in tali occasioni come in altre comportanti pari sofferenza, mostrarsi, come l'uomo, coraggiosa e capace di tenere a freno le proprie emozioni senza « far pia-gnistei », ecc. Controlleranno se tali comportamenti verranno attuati coloro che seppure a lei vicini le sono meno affettivamente legati. In questo caso specialmente suocera e cognate che, insieme alla madre, assistono tradizional-mente la partoriente, giudicando la sua adeguatezza di moglie e di madre. Partorire lontano, in ospedale, vuol dire in parte sottrarsi a questi controlli e poter esplicitare più liberamente la drammaticità ed i molteplici sentimenti connessi con l'importante evento. Inoltre è una scelta di « modernità » che dimostra l'acquisizione di messaggi acculturativi borghesi, poiché tende a ren-dere privato un episodio un tempo di ridondante rituale collettivo.

Nell'atteggiamento rilevato nel caso in esame sembra esprimersi un'ulte-riore contraddizione ancor più inerente la donna e lo specifico ambito me-dico. Forti sensi di pudore e di vergogna inculcati con rigore durante la socializzazione della donna, si scontrano con la necessità di sottoporsi a visite ed esplorazioni mediche, che implicano il fatto di doversi svestire con

disin-voltura, di mostrare parti nude del proprio corpo.36 Tale contraddizione,

e la frizione psichica che ne consegue, la cui diffusione coinvolge l'intera popolazione femminile, anche se si presenta in modo più marcato nella fascia di età adulta-anziana e nelle classi medie e subalterne, si risolve, il più delle volte, evitando o riducendo al minimo il contatto con la medicina, utilizzando al massimo consigli famigliari e amicali, o rivolgendosi a mammane, o a sani-tari in ogni caso estranei al proprio ambiente, sia perché emarginati, sia

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per-ché invece privilegiati. Tanto più ci si allontana dal quotidiano microcosmo del gruppo primario, tanto più si allentano opprimenti meccanismi di con-trollo sociale e freni inibitori connessi specialmente con la morale sessuale. Il disagio di uscire fuori dal proprio ambiente è ricompensato dal diminuire della tensione psicologica di allerta contro possibili autocensure e sanzioni derivanti da rilevazioni di devianza. Se prima si poteva riconoscere una scelta nel segno della « modernità », ora va colto nell'atteggiamento in esame un vincolamento al « tradizionale », nella costante preoccupazione di non violare i modelli culturali del gruppo là dove sono operanti.

Ambivalente risposta, dunque, ad una realtà intensamente contraddittoria, sia a livello strutturale che sovrastrutturale, cioè gravi carenze dei servizi, uso discriminatorio della medicina, estraneità del proprio corpo, pregiudizi ed inadeguatezze nel rapporto medico-malato, ecc. Se dunque ci limitassimo al semplice atteggiamento (scegliere di partorire in un ospedale) senza filtrarlo attraverso una riflessione socio-antropologica, esso sembrerebbe implicitamente denotare l'assunzione di un modello di comportamento avanzato che alla casa (le cliniche private nel « mezzogiorno interno » non ci sono per ovvii motivi) preferisce l'ospedale per le attrezzature, per la qualificata assistenza in esso fruibile. Invece altri motivi, di ordine psicoculturale e socioculturale, impongono all'individuo tali opzioni, e il non tenerne conto significa in ogni caso pregiudicarsi una produttiva utilizzazione di queste pur limitate strutture sanitarie.

Persistenza di atteggiamenti tradizionali

Per chi ritenesse quanto sopra descritto sopravvivenze arcaiche, situate nel limbo del « presente etnografico », patrimonio culturale di minoranze ormai in estinzione, vale precisare che persistendo forti diseguaglianze sociali e risultando ampi strati di popolazione caratterizzati da precarietà materiale, rimangono consolidati questi atteggiamenti tradizionali specialmente nell'am-bito sanitario dove le carenze assistenziali per i meno abbienti sono marcate, ed i mutamenti intercorsi non hanno sostanzialmente alterato un rapporto inadeguato con la medicina. Si aggiunga che una grande parte degli abitanti delle città ha una provenienza rurale, per lo più di aree depresse, e si avrà notevolmente accentuata la vischiosità del condizionamento culturale.

È dato a tutti di osservare, anche in ambiente urbano, la notevole mobi-litazione dei familiari in seguito alla malattia di un congiunto, la ricomposi-zione della « famiglia estesa » per le nascite e i primi mesi di svezzamento; mobilitazione che comporta dedizione e cure particolarmente gravose in tali contesti (dato il tipo di lavoro prevalente, scarsamente elastico) e che si esprime anche nell'appellarsi alla protezione del Santo Taumaturgico, con-temporaneamente all'attuazione di un voto, da parte di membri del nucleo

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familiare, inibente spesso attività di svago e divertimento (come ad esempio non vedere la Tv o il cinema per alcuni mesi). Viene dunque ancora in parte percepita, almeno a livello familiare, la responsabilizzazione collettiva della

malattia.

Il recupero della magia, poi, è un fenomeno abbastanza esteso nella no-stra società e tendenzialmente in espansione nella fascia giovanile agiata, dove

però presenta peculiarità specifiche differenti dalla originaria matrice rurale.37

Quest'ultima viene recuperata ancora in modo prevalentemente organico nel particolare rapporto che gli emigranti hanno con la medicina. Come ho scritto altrove

...prestazioni sono principalmente richieste come protezione e purifica-zione magica, per ridare, cioè, nuove energie, tramite un'immersione ristoratrice nei rituali tradizionali di controllo e di cura della salute, all'emigrante affaticato dal continuo contrastare un meccanismo reifi-cante, emarginante, che lo vuole strumentalmente estraneo, forza-lavoro pura, sradicata da ogni identità culturale, mobile per essere prontamente impiegata in ogni nuovo o diverso settore produttivo. Che gli opera-tori magici trovino dei fiduciosi e affezionati clienti negli emigranti emerge chiaramente in alcune lettere, riportate in un recente testo di L. Lombardi Satriani.

...È questa àncora magica, collegata alla propria cultura originaria, a cui ci si aggrappa quando sono risultati vani, perché acquisiti super-ficialmente, i modelli di interpretazione e manipolazione dell'ambiente, offerti cosi avaramente dalla cultura urbana dominante: attraverso lo strumento magico, si tenta di superare i momenti di maggiore sban-damento (es. malattie fisiche, psicosomatiche, mentali, disturbi della sfera sessuale, ecc.)...38

Anche per malattie per le quali si va precisando l'incidenza di fattori orga-nici e psichici, persistono forti e radicate valutazioni tradizionali. Ad esem-pio l'epilessia, disturbo cerebrale che, se adeguatamente curato e non con-giunto ad altra più grave sintomatologia, non comporta necessariamente gravi restrizioni alla normale attività quotidiana, è tuttora connotato emoti-vamente con diffusi pregiudizi. Afferma P. Benedetti:

La crisi convulsiva è vista come un atto inconsulto, non dominabile, con aspetti di « realtà magica ». In alcuni tipi di crisi epilettica emer-gono tabù comuni a tutta la civiltà occidentale, connessi all'idea che, nella crisi stessa, venga mimato l'atto sessuale. Un altro pregiudizio è che l'epilettico sia portato a caratterizzarsi come un individuo amo-rale o asociale. O, ancora, che l'epilessia sia ereditaria. Tre anni fa, ho attuato un'indagine campione, a Roma e in Sardegna, su 1500 persone di ogni classe sociale, ambiente, formazione culturale. Ebbene, è risultato che i pregiudizi sono diffusi in modo uniforme, senza differenze. Cosi, oggi, un epilettico non può essere ordinato sacerdote; chi ha epilettici in famiglia, non può fare il carabiniere; molti avvocati, in casi gravi, cercano di far passare i clienti per epilettici, come se si trattasse di incapaci di intendere e di volere. Abbiamo, purtroppo,

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molte scuole che rifiutano gli epilettici, ritenendoli soggetti pericolosi per sé e per gli altri. Per evitare l'esclusione qualcuno tenta di curarsi di nascosto. E quindi si cura male. Sono i casi in cui si assiste a crisi frequenti.39

Il permanere della consistenza dei vincoli clientelari e amicali nell'ambito della medicina, si spiega con la necessità di essere sicuri, anzi rassicurati, della qualità delle prestazioni da ricevere nell'incertezza e nel caos del sistema sanitario italiano. Per cui l'amico, il vicino, consiglia quel medico, quella clinica o ospedale, ed è noto che, se non si abbiano delle buone conoscenze non si entra, in tempi brevi, nei nostri sopraflollati ospedali. Infatti, talvolta raggruppati in alcune cliniche o in corsie, è facile trovare compaesani, corre-gionali o aderenti allo stesso partito, accomunati in questa condizione anche dal primario (non sono così rari solidarietà e conflitti etnici negli ospedali). Alla mancanza di una capillare ed efficiente rete di servizi, alla fragilità, episodicità, strumentalità delle gelide relazioni con il personale sanitario, il malato reagisce con solide, anche se regressive, modalità, rispolverando arcaici modelli clientelari e parentali al fine di ampliare la personalizzazione dei rapporti, rassicurato dalla speranza di essere meglio individuato e trattato nella sua condizione di paziente. Di fronte al « male » la risposta non potendo essere individuale, né essendo ancora responsabilmente assunta dalla collettività pubblica, è dunque clientelare, cioè usufruisce di canali informali e privati di reciprocità, di informazione che dirigono sovente verso precise aree di sfruttamento le sofferenze dei malati. Essendo queste le vie del reclutamento, non ci si può meravigliare del facile successo che riscuotono costose cliniche private nei confronti dell'estraneità tutt'ora avvertita nei confronti delle strutture pubbliche, dei pregiudizi, non sempre appropriati, nei confronti degli ospedali, inadeguati, anche se non meno della maggior parte delle cliniche private, a soddisfare le necessità di diverso ordine dei pazienti.

In tale clima di incertezza permangono tracce evidenti del fatalismo e

dello stoicismo nei confronti della malattia, precedentemente rilevati. Ma non possono essere formulate delle semplicistiche omologazioni. Infatti l'at-teggiamento rassegnato di molti anziani circa la loro condizione esistenziale, da prodotto della loro prevalente matrice contadina, si è rafforzato essendo imposto dal ruolo di progressivi emarginati a cui il mercato capitalistico del lavoro li ha relegati. Segni di stoicismo sono rintracciabili nella esortazione che invita paternalisticamente a « non fare commedie », a soffocare, cioè, l'espressione emotiva del dolore, che è poi consuetudine nelle corsie e negli ambulatori, congiunta con una costante opera di sottovalutazione della soffe-renza del malato nei suoi riflessi psichici (che porta ad un uso non sempre adeguato e sufficiente di analgesici e di anestetici). Vi è qui l'invadente

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