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Capitolo 2. Il femminismo degli anni Settanta

2.2 Inchieste sulla condizione femminile

“ È nata zucchina”, 125 con questa affermazione la giornalista Gabriella Lapasini,

apre la sua inchiesta sul settimanale “Noi donne” del 10 Giugno 1973, in merito alla condizione delle donne di Altamura, cittadina situata a pochi chilometri da Bari:

tutti sanno che cosa significhi: semplicemente che è nata una bambina. Perchè le bambine, proprio come le zucchine, non valgono molto, non hanno molto sapore e, soprattutto, sono improduttive. Così per quanto la famiglia sia contenta lo stesso perchè una nascita in casa costituisce pur sempre un avvenimento, per quanto la madre pensi che sia una femmina – crescendo- le farà compagnia e darà una mano nei lavori domestici, tutto sommato non vale la pena sprecarsi in festeggiamenti. E la prima a non sprecarsi è proprio un'altra donna: è la suocera e nonna materna che se la prende con calma e non corre dalla puerpera portando il brodo caldo di vera carne e il regalino possibilmente d'oro, come invece farebbe se fosse nato maschio.126

Ad Altamura le “zucchine” giovanissime e meno giovani, costituivano la

124 Teresa Bertilotti e Anna Scattigno (a cura di), Il femminismo degli anni Settanta, cit., p. 101. 125 Gabriella Lapasini, Donna onorata mezza sposata, in “Noi donne “, 1973, 23, pp. 19-20. 126 Ivi.

maggioranza della popolazione: su 45 mila abitanti, le donne erano oltre 23 mila e gli uomini 22 mila circa; nonostante questo la presenza femminile nella località pugliese era quasi impercettebile, poiché la stragrande maggioranza di esse rimaneva chiusa in casa dedicandosi alle attività domestiche: .

le più giovani sono sedute lì, chine sul loro lavoro di cucito oppure dietro una macchina per maglieria che denota fatica e usura […] Dietro di loro, e la si intuisce, c'è una presenza costante: di chi vigila, di chi sa come va il mondo, di chi le custodisce e custodisce con loro un bene prezioso e decisivo per la vita futura di ognuna. Lo chiamano onore. Dire verginità sarebbe osare troppo. Sono ragazze, ma si fa per dire. Molte, moltissime, sono ancora bambine con movenze un poco goffe e corpo acerbo nonostante la consapevolezza dello sguardo. È istintivo pensare che quello non sia il loro posto. Che, alle dieci del mattino d'un giorno di maggio non festivo, dovrebbero essere sui banchi di scuola.”127

La prospettiva della maggior parte delle donne di Altamura, era quella di rimanere a casa, in quanto per loro la possibilità di un lavoro era del tutto inesistente e anche quelle che “lavoravano” sulle macchine da maglieria, o lavoravano in nero o si stavano semplicemente preparando il corredo per quando si sarebbero sposate:

Il corredo costa caro. Per farlo poco poco, da poverette, che poi la famiglia di lui ti tratta con degnazione, ci vuole almeno un dieci di tutto. Dieci lenzuola, dieci asciugamani, dieci sottovesti, dieci camicie da notte, dieci coperte, dieci vestiti. Insomma, si va sul milione.”128 Nel frattempo, le ragazze, senza osare mettere il naso fuori di casa, aspettavano di trovare marito ricordando costantemente che “donna onorata è mezza sposata”129.

Al resto ci pensavano i ragazzi, che quando decidevano che fosse arrivato il momento

127 Gabriella Lapasini, Donna onorata mezza sposata, in “Noi donne”, 1973, 23, p. 22. 128 Ivi.

giusto cominciavano a lavorare mettendo da parte i soldi per il matrimonio. Per risparmiare il necessario per un degno banchetto nunziale, occorevano circa quattro anni:

nell'arco di questo tempo i giovani cominciavano a “guardarsi intorno e a passar voce per trovare la brava-ragazza-tutta-famiglia-senza-grilli-per-la-testa [..] poi trovata la perla, il ragazzo se la studia di sottecchi, se la cova con gli occhi, ne soppesa (da lontano) grazie e virtù: e se tutto va bene ne parla alla madre. La propria. Che, futura suocera,svolge una tutta personale inchiesta sulla candidata. Qualora anche questo esame risulti positivo, se ne avverte la madre della sposa designata che, a sua volta, sottopone a esame il futuro genero e la di lui famiglia. Infine, se l'approvazione è unanime, si conclude il patto di nozze, ci si scambiano i regali, si stabilisce la data, e si organizzano i festeggiamenti.”130

L'unica strada percorribile per le donne di Altamura, quindi, era solo il matrimonio; non c'era scelta, a meno che per scelta non si intendesse la vita nella famiglia paterna, al servizio dei fratelli e nipoti. Ma anche per coloro (già promesse spose) che avessero perduto prematuramente “l'onore”, la strada era tutta in salita:

quella che ha perso la verginità magari un solo giorno prima del matrimonio, se vuole il matrimonio lo paga. In soldi, in contanti. Paga le spese di tutti i mobili di casa, tutte le spese del banchetto, le spese del vestito di lui, le spese dell'affitto della casa. Non per un anno: per quindici.”131

Anche la situazione delle donne siciliane, non differiva molto da quella appena descritta e viene presentata dalla giornalista Bruna Bellonzi che si era occupata dell'articolo pubblicato su Noi donne, specificando che la scelta del posto non era stata effettuata a caso sulla base di preconcetti che vedevano la Sicilia arretrata sia

130 Gabriella Lapasini, Donna onorata mezza sposata, in “Noi donne”, 1973, 23, p. 22. 131 Ivi.

economicamente che culturalmente, ma da una lettera giunta in redazione di una lettrice, che segnalava il problema della violenza sulle donne facendolo diventare un punto di partenza sul quale avviare una riflessione più ampia.132 Il rapporto del

maschio con la donna-oggetto non era un fenomeno circoscritto all'isola siciliana, ma era una tendenza che superava i confini regionali espandendosi su tutto il territorio nazionale. Tuttavia, secondo l'autrice di questa indagine, il fenomeno appariva con maggiore evidenza ovunque esistevano condizioni economiche e sociali di disgregazione, ovunque l'uomo si sentisse aggredito, represso, schiavizzato da una società che gli proponeva modelli di vita diversi e lontani dalla propria tradizione culturale senza dargli i mezzi per realizzarli: relegandolo anzi ai margini. E dove alle donne non si offrivano le condizioni per un'emancipazione fatta di possibilità e di lavoro, di una scelta indipendente da quella della soggezione e dalla passività forzata. Una società violenta e schiavizzante creava uomini schiavi e violenti che cercavano la propria affermazione personale e la propria rivalsa di individui frustrati sui più deboli, su quanti da loro dipendevano: in questo caso le donne.133

“Le guardo. Sono belle, e -sopratutto le più giovani hanno come un'aria vagamente di sfida, mentre all'ora della “passiata” (la passeggiata serotina, lungo la via principale della città: qualsiasi città, grande o piccola) consumano le suole ortopediche sull'asfalto del corso. Vestono minigonne o pantaloni attillati, non diversamente da tutte le altre ragazze di tutte le altre città di Italia [..] conoscenti si salutano e si fermano a parlare, gruppi di ragazzi si aggrumano, per ripartire insieme. A Catania e a Palermo (ma forse anche a Siracusa e a Messina) i gruppi sono talvolta misti, di ragazze e ragazzi. A Gela, a Partinico, a Vittoria ( e forse in tutti gli altri piccoli centri dell'isola) i gruppi sono sempre nettamente divisi: ragazze da un lato, ragazzi dall'altro. [..] Guardo per capire,

132 Bruna Bellonzi, Pane e botte, in “Noi donne”, 1973, 42, p.17. 133 Ibidem., p. 18.

per individuare fra i cento mille volti bruni il volto della ragazza che ci ha scritto per dire: “Se mi aiutaste scapperei. Mio padre mi picchia se mi vede parlare con un amico. Mio fratello mi ha fatto una chiassata perchè ero andata a fare una manifestazione. Me ne voglio venire via, per non finire come mia madre, come mia sorella più grande, che si sono sposate giovanissime all'età che ho io ora, e poi se ne devono stare chiuse in casa e se reclamano, sono botte.”

Mi sono detta, ci siamo dette, che quello della nostra anonima corrispondente è un caso limite. Ma un primo, cauto sondaggio, ha dato risultati inattesi: la severità, l'autorità in famiglia sono tutt'ora mantenuti a suon di schiaffi. Così abbiamo pensato di venire a vedere.

La ragazza che ci ha scritto ha ragione. Da Catania, a Gela, a Riesi, a Caltanissetta, a Siracusa, a Trapani, a Palermo, abbiamo raccolto mille racconti. La storia con eterne variazioni è sempre la stessa: un matrimonio, per lo più in giovanissima età, fra due ragazzi che si sono talvolta scambiati non più di una occhiata o un bacio furtivo. Anche quando c'è stata la “fuitina”, la fuga- per mettere le famiglie di fronte al fatto compiuto- i due sono poco più che estranei fra loro: un abbraccio strappato a forza, ventiquattr'ore di latitanza fatte più di paure che di parole, poi le nozze affrettate. Su questi ménages nati con basi tanto fragili, si abbatte presto il peso schiacciante della miseria e dei figli. L'oppressione è tale, in una società caratterizzata da fortissimi dislivelli economici e sociali, che i sentimenti ne sono triturati. Sull'uomo, contadino, operaio, emigrante, quando non disoccupato, grava la necessità d'un lavoro duro, massacrante, mai giustamente remunerato. Sulla donna il peso dei figli, uno dietro l'altro, della famiglia da tirare avanti coi quattro soldi di cui dispone.

La vita è una tensione continua. A cui, sempre più spesso col passare del tempo, l'uomo cerca sfogo esercitando in casa violenza che altri esercitano su di lui, riaffermando in casa la sua qualità di uomo (continuamente smentita e offesa dalle prepotenze dei potenti) su chi non può discuterla: la moglie e i figli. È un meccanismo infame, ma non

per questo meno vero. E da secoli consolidato. La donna è un oggetto, è una proprietà dell'uomo. Abituata ad accettare questa condizione. Ci diceva una signora palermitana: “ Le nostre donne non hanno addirittura più bisogno che il marito proibisca loro qualcosa. Sono così abituate a sottostare a divieti di ogni tipo, che quasi non avvertono l'imposizione maritale. L'hanno interiorizzata, si autolimitano ed autocensurano spontaneamente.”

Una donna di Gela raccontava: “Mio marito non vuole che esca. Per quale ragione? Non vuole e basta. Una volta sono uscita, con tutti i figli appresso, per comprargli una camicia che era senza. Quando si è ritirato la sera mi ha dato delle legnate. Poi si è messo la camicia come niente fosse. Dice: tu me lo dovevi prevenire che intenzioni avevi. Ma se io ce lo dicevo, avrebbe fatto lo stesso”.

L'obbedienza cieca alla volontà del marito, come del padre, è la base dell'autorità. La gelosia c'entra? Un appuntato dei carabinieri commentava: “Ma quale gelosia? Queste povere donne a forza di fare figli e di lavorare come bestie, sono vecchie a trent'anni e anche prima. Chi le guarda? E loro, davvero, coi pensieri che hanno penserebbero a tradire il marito?”. 134

La gelosia sarebbe stata, quindi, una finzione. Farebbe parte del rito sociale che testimoniava l'appartenenza della donna ad un solo uomo. La società siciliana era una società autoritaria e anche nel piccolo cosmo familare la struttura ripeteva quella sociale: il superiore gerarchico era l'uomo, marito, padre o fratello.

Una domanda che la Bellonzi si pone, è com'era possibile che donne, come quelle che aveva conosciuto in certe fabbriche palermitane; ragazze, che avevano combatutto contro la smobilitazione delle fabbriche nelle quali lavoravano, accettassero senza protestare un predominio esercitato in modo tanto brutale. Le risposte date da alcune ragazze intervistate furono che in teoria avrebbero combattuto e si sarebbero

ribellate a una schema sociale così opprimente. Sostenevano tutte che un marito manesco non lo avrebbero sopportato e anche se era di difficile realizzazione, erano decise almeno a provare di poter cambiare i loro destino, identificando nel lavoro e nell'istruzione la valvola fondamentale per mutare i rapporti con il genere maschile.135

Un'altra dimostrazione ulteriore di come la società considerava la donna alla stregua di un cittadino di seconda classe e le assegnava il ruolo di angelo del focolare e costude della famiglia e perciò lontana dal settore produttivo, viene fornita nuovamente da “Noi donne” in un'inchiesta sul ritratto delle casalinghe in un quartiere del ceto medio romano:

Anzitutto la signora non ha tempo. La signora deve portare il bambino all'asilo, deve andare a fare la spesa, ha la casa in disordine: e in una casa in disordine, caschi il mondo non si entra. E poi, alla signora non piace parlare con gli estranei. Chiunque suoni alla porta-che non sia il marito che, ovviamente, non suona perchè ha le chiavi- è un seccatore, un ficcanaso. [..] In buona parte dei casi, la casalinga in questione ha gli occhi freddi come il sorriso, quando c'è, e sbrigativamente ti sbatte la porta in faccia. Era di progresso e di conquiste sociali, o no, lei deve portare il bambino all'asilo, fare la spesa, o ha la casa in disordine. Alle dieci del mattino come alle quattro del pomeriggio. Non parliamo poi delle undici o delle sei della sera: perchè allora c'è il pranzo da cucinare e sul pranzo non si transige.[..] Questo è solo un ritratto e non vogliamo dire che corrisponda appieno a tutte le casalinghe italiane: corrisponde però alle casalinghe incontrate a Roma nel corso della nostra inchiesta. 136

Le tematiche presentate alle donne intervistate sono molteplici, dagli interessi personali come le letture nel tempo libero, la posizione in merito alla questione sul

135 Bruna Bellonzi, Pane e botte, in “Noi donne” , 1973, 42, p. 20. 136 Ivi.

divorzo, l'istruzione dei propri figli. Ciò che trapela da questa lunga intervista è un ritratto quasi apatico e sonnolento delle signore intervistate.137 Il caso della signora

Romei può essere preso ad esempio:

La signora Romei ha circa 34 anni, un marito rappresentante di commercio, due bambine. Debora di 4, Sabrina di 7. L'appartamento è in una palazzina dai terrazzi fioriti, di costruzione abbastanza recente e custodita da un portiere scorbutico anzi che no. Dice la signora Romei:

-Sono una donna di casa. Del resto, fare la donna di casa è l'unica vera soluzione. Certo, ci sono delle ragazze che dicono di voler lavorare, di volere un'indipendenza. Lo dicevano anche ai miei tempi. Ma sono soltanto parole: quando una ragazza incontra un giovanotto per bene, che abbia voglia di lavorare e amore per la famiglia, non ci pensa su due volte e se lo sposa. Contenta e beata, anche. Poi vengono i figli, crescono. È la vita.

-Com'è la sua giornata?

-Come quella di tutte le donne di casa. Mi alzo, ci sono le bambine da vestire. Mio marito mi aiuta, è un buon marito. Accompagna lui a scuola Sabrina. Poi metto in ordine la casa, faccio la spesa, cucino.[..]

-Non pensa che la vita della casalinga sia una vita un po' solitaria, monotona. Non ritiene che una diversa organizzazione della società potrebbe incidere anche sull'organizzazione della famiglia in modo positivo, rendendo ogni suo membro più partecipe di una vita collettiva?[..]

No, per carità!

L'inchiesta di Novembre sulla condizione delle casalinghe del quartiere romano, prosegue con l'intervista alla Signora Silvestri, che abitava nello stesso pianerottolo della signora precedente; la signora Silvestri aveva circa 65 anni, vedova e viveva con la figlia sposata, il marito di lei e tre nipoti di età compresa tra i cinque e i dieci

anni:

Mia figlia e mio genero lavorano, così si può dire che in casa comando io. Loro se ne escono la mattina, e quando tornano trovano tutto pronto. Certo, lavorare per le donne sposate va bene: ma devono essere nella condizione di mia figlia. Avere qualcuno che badi alla casa, come me. Altrimenti... Lavorare e trascurare la casa, significa mandare tutto a catafascio. Mia figlia e mio genero si trovano bene con me. Mi mantengo giovane, sto sempre sul moderno. Ascolto la radio, guardo la televisione...

–Le piace qualcosa in particolare degli spettacoli Tv e delle trasmissioni radiofoniche? –La musica leggera, sì; quella pop, proprio no.

–Signora lei legge?

Leggo Il Tempo, Oggi, Gente, Eva. Mi interessano gli argomenti di queste attrici che si sposano, si lasciano... Insomma, le cose di donne.138

La signora Pindemonte è l'ultima casalinga che viene intervistata:

–Ho pochi minuti, dice. Mio marito rientra presto e devo preparare la cena. –Ma sono le quattro del pomeriggio...

–Sa com'è... E che cosa vuol sapere della casalinga? È la solita vita. Mi alzo, riordino, preparo le bambine -ne ho due, io- faccio la spesa, preparo il pranzo.. Tutti i giorni la stessa cosa.

–Ma non si concede mai una distrazione, va a vedere un film, non incontra le amiche?

–Quando si è sposati e si ha una famiglia, non si ha più la libertà di fare quello che si vuole. Le amicizie si devono lasciare perdere... E poi, cosa c'è più da dire? Ognuno ha i suoi problemi [..] –Lei ha due figlie. Che cosa si augura per il loro futuro: non pensa che un lavoro, l'indipendenza economica potrebbero rappresentare un fatto positivo per la loro stessa vita di donne?

–Certo. Se vorranno studiare... L'indipendenza è una bella cosa, ma se le mie figliole a diciotto anni incontrassero un buon marito... Mi creda, si può dire quello che si vuole, ma il matrimonio è l'unica strada sicura. Ne ho viste tante che la pensavano diversamente, ma alla fine l'hanno capito. Se no, si

è delle sbandate.

–Signora Pindemonte, lei è contraria o favorevole al divorzio? –Contraria, naturalmente. Sfasciare una famiglia non è bello. –Signora Pindemonte, lei è favorevole o contraria alla pillola?

–Contraria, naturalmente. I figli sono i figli. Si comincia dalla pillola e non si sa dove si andrà a finire. 139

Nella maggior parte della giornata che le casalighe trascorrevano in solitudine, la radio o la televisione, erano gli unici elementi di svago che riuscivano a influire sulla vita quotidiana di queste donne per “tentarle, blandirle, addormetarle il cervello.”140

Le voci della pubblicità riempivano la casa, ormai vuota dopo che mariti e figli erano rispettivamente andati a lavoro e a scuola. Quelle voci consuete, che ormai la casalinga conosceva a memoria, le facevano compagnia, quattro, cinque sei ore da passare chiusa in casa non erano poche ed una voce estranea poteva aiutare, anche se in realtà gli annunci erano sempre gli stessi, ripetuti varie volte nel corso della giornata, e giorno dopo giorno per settimane e mesi, e spesso anni, in un certo senso si configuravano come prevedibili riconferme che avevano un certo esito rassicurante, garantivano che la vita sarebbe stata sempre la stessa e che presumibilmente essa non sarebbe mai cambiata.141

Il IX congresso dell' Udi che si svolse a Roma dal 1° al 3 Novembre1973, discusse su quali fossero i significati e i valori dell'essere donna e sulla condizione femminile. Secondo l'analisi della giornalista Giuliana Dal Pozzo, si evince che la condizione femminile era vittima di un pesante attacco da parte della società, che minacciava

139 Gabriella Lapasini, La signora non sente, non legge, non vede, in “Noi donne”1973, 43, p. 21. 140 Ibidem., p. 22.

pesantemente le stesse conquiste delle donne come il diritto al lavoro, la partecipazione politica; rilanciando constantemente il ruolo domestico della donna, la sua esaltazione di madre e quindi di educatrice dei figli. La donna pur avendo preso parte alla lotta di liberazione sperando di conquistare con la libertà la creazione di una società democratica e anche la cancellazione del suo status di cittadino di seconda categoria, rischiava di venir considerata semplicemente una A.C.142 Questa

sigla voleva dire atta a casa in linguaggio burocratico e relegava in un determinato stereotipo la condizione della donna, in una dimensione riservata esclusivamente alla vita familiare. Questa dimensione ridotta che le sarebbe stata stata assegnata dalla natura, le era invece assegnata da uomini ben individuabili, con il rischio che la donna potesse diventare semplicemente “una serie di gesti ripetuti, di frasi fatte, di