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Il PCI e l'identità di genere(1973-1976): il femminismo e la legge 19 maggio 1975,n.151 ("Riforma del diritto di famiglia").

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Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere

Laurea magistrale in Storia e Civiltà

Il PCI e l'identità di genere (1973-1976): il femminismo e la legge 19 maggio 1975, n.151 (“Riforma del diritto di famiglia”)

Candidata: Relatore:

Mariagrazia Rizzo Prof. Alberto Mario Banti Correlatore:

Prof. Luca Baldissara

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Indice

Introduzione:

-Struttura della tesi e problema storiografico. 4

-Le fonti. 15

-Conclusioni. 19

Capitolo 1. L'assetto postbellico dell' Italia 1.1 La situazione politica, economica e sociale dell'Italia postbellica. 24

1.2 Le elezioni del 1953, la Democrazia cristiana, lo Stato e la società. 28

1.3 I partiti della sinistra: il Partito Socialista e il Partito Comunista. 36

1.4 Gli anni Sessanta: il '68 e la critica alla famiglia tradizionale. 51

1.5 Società civile e cultura di massa. 57

Capitolo 2. Il femminismo degli anni Settanta 2.1 Il ruolo delle donne nella società italiana. 65

2.2 Inchieste sulla condizione femminile. 72

2.3 Aborto clandestino: piaga sociale e problema politico. 85

2.4 Metodi anticoncezionali: la concezione femminile in merito al loro utilizzo. 95 2.5 Donne contro donne. 104

2.6 Verso una nuova presa di coscienza dell'identità di genere. 110

Capitolo 3. Il Referendum sul divorzio (1974) 3.1 Favorevoli e contrari: la posizione dei maggiori partiti italiani, della Chiesa cattolica e dell'opinione pubblica. 116

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3.3 La vittoria del “NO” : valutazioni politiche e sociali

e il contributo fondamentale del voto femminile. 168

Capitolo 4. La legge 19 Maggio 1975 4.1 Verso la riforma del diritto di famiglia. 176

4.2 La posizione del PCI sulla necessità di rinnovare il diritto di famiglia. 185

4.3 Le donne comuniste riflettono sulla storia sul diritto di famiglia. 199

4.4 La legge 19 maggio 1975 n. 151. 216

4.5 Le elezioni amministrative del 1975 e quelle politiche del 1976: una nuova prospettiva di forza per il PCI. 248

Capitolo 5. L'Identità di genere all'interno del nuovo diritto di famiglia 5.1 Equiparazione del ruolo dei coniugi all'interno del contratto matrimoniale. 257

5.2 La questione sul riconoscimento dei figli illegittimi. 268

5.3 Le riflessioni delle donne comuniste sulle battaglie che hanno portato verso una maggiore emancipazione della figura femminile. 280

Bibliografia 306

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Introduzione

Struttura della tesi e problema storiografico.

Il mio lavoro si articola in cinque capitoli e prende in esame il contributo fondamentale del Partito Comunista Italiano nella approvazione della legge 19 maggio 1975, n. 151 relativa alla riforma del diritto di famiglia che ha portato all'equiparazione del ruolo dei coniugi all'interno del contratto matrimoniale.

Per avere un quadro completo dei processi culturali e politici che hanno condotto all'esigenza di riformare il diritto di famiglia che fino al 1975 faceva riferimento al codice fascista del 1942, il quale a sua volta riprendeva lo statuto albetino del 1875, e penalizzava fortemente il ruolo della donna sia all'interno della famiglia che nella società, sono partita dall'analisi generale della situazione economica, sociale e politica dell'Italia dopo il secondo conflitto mondiale prendendo.

Nel primo capitolo ho presentato le maggiori vicende politiche dell'Italia postbellica, facendo sopratutto riferimento al libro dello storico Paul Ginsborg Storia d'Italia dal dopoguerra a oggi, e al testo dello storico Guido Crainz Il Paese mancato; descrivendo l'affermarsi nella società italiana dei due grandi partiti politici dell'epoca, la Democrazia cristiana guidata da Amintore Fanfani e il Partito Comunista Italiano guidato da Luigi Longo, al quale subentrò Enrico Berlinguer nel 1973.

A partire dagli anni '50, nonostante i gravi colpi inferti dalla Seconda guerra mondiale, in Italia si ebbe una progressiva ripresa economica che viene generalmente chiamata “miracolo economico”. A livello sociale e politico, i cambiamenti furono molteplici, l'assetto di intere famiglie fu sconvolto da gravi perdite personali causate

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dal conflitto, la situazione economica dei nuclei familiari fu messa a dura prova dal protrarsi di anni di combattimenti, molte donne e ragazze delle città meridionali erano state spesso spinte sulla via della prostituzione per cercare di sopravvivere economicamente in una società ormai colpita da una grave crisi economica. In questo contesto di grave disagio, il partito della Democrazia cristiana, appoggiato dalla Chiesa cattolica e dalla sua organizzazione fiancheggiatrice, l'Azione cattolica, pose un grande impegno nell'assistere le persone provate dai traumi della guerra; le organizzazioni cattoliche, infatti, offrivano aiuti economici concreti e assistenza a donne e bambini. Questo partito, però, si rivolse anche ai ceti medi e alla classe imprenditoriale, riaffermando l'importanza della morale cattolica, già ampiamente affermatasi durante gli anni del fascismo, e promettendo di salvaguardare la proprietà, limitare il potere dei grandi monopoli e di proteggere consumatori e produttori. Queste, infatti, furono le basi, su cui la Dc riuscì a crearsi nella società italiana una vasta area di consenso, vincendo le elezioni del 1953, puntando soprattutto sulla sacralità della famiglia e della figura femminile che veniva inquadrata in un contesto prettamente domestico e di totale subordinazione all'autorità maschile.

Su posizioni completamente opposte era il Partito Comunista Italiano. Se sul piano prettamente politico, gli anni Cinquanta furono un periodo difficile, per quanto riguarda le “riflessioni interne”, questo fu un periodo fecondo. Come per la Democrazia cristiana, anche il PCI si appoggiava a organizzazioni collaterali una delle quali era l'UDI (Unione donne italiane), la cui attività era legata alla discussione su questioni che riguardavano le tematiche di genere.

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La prima contrapposizione che si nota tra i due partiti presi in esame, è la concezione del ruolo della donna all'interno della società italiana. Nella concezione della Democrazia cristiana il nucleo familiare era dominato dal modello patriarcale nel quale le decisioni venivano prese dal marito e la donna aveva come unico scopo della sua vita quello di sposarsi e dedicarsi interamente alle attività domestiche e alla famiglia, il Partito Comunista, invece, idealizzava un tipo di famiglia e di società diversi, dove le donne potevano emanciparsi attraverso il lavoro e l'impegno politico poiché, secondo l'immaginario comunista, la vita di una donna non poteva esaurirsi solo nel matrimonio e nella attività casalinghe. Proprio per questo aspetto i comunisti venivano descritti come i fautori della scristianizzazione della famiglia in quanto propugnavano, secondo la propaganda anticomunista concetti come la libertà sessuale e l'emancipazione femminile.

Il modello della famiglia tradizionale, infatti, entrò progressivamente in crisi durante gli anni Sessanta, grazie soprattutto alla rivolta studentesca del “Sessantotto”, nel quale vennero messi in discussione i valori dominanti della società di quel tempo come l'individualismo, la sfrenata corsa ai consumi, il modello scolastico reputato pedante e arcaico e l'esaltazione della famiglia. La rivolta, inoltre, rivendicava anche un nuovo tipo di libertà: la libertà sessuale. Questo fu un elemento di vera e propria rottura in una società che considerava ancora la convivenza e i rapporti prematrimoniali come qualcosa di cui era doveroso vergognarsi.

Il movimento del '68, fu in particolar modo per le donne, il punto di partenza dal quale riflettere sulla propria condizione di oppressione sia all'interno delle relazioni familiari, che nella società; infatti già a partire dai primi anni Settanta anche in Italia,

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sulla base del modello americano, si sviluppò un intenso movimento femminista. Nel secondo capitolo, infatti, ho affrontato la tematica del femminismo italiano degli anni Settanta, degli scontri avuti a livello politico con il PCI e il problema degli aborti clandestini che riguardavano migliaia di donne.

Attraverso le varie inchieste del settimanale “Noi donne” e “Giorni-vie nuove” che ho presentato, si evince che il ruolo della donna nella società italiana, durante gli anni Settanta, era ancora marginale. Da un'intervista fatta a 4604 donne per richiesta dell'Istituto Doxa nel 1973 su temi di attualità come lavoro, famiglia, divorzio, sesso, pillola, aborto e politica, la maggior parte delle intervistate dichiarò che secondo il loro punto di vista una più ampia partecipazione femminile al potere politico non avrebbe migliorato la società: questo probabilmente era indice di un orientamento generale di disimpegno e di scarsa fiducia nei propri mezzi.

Durante gli anni Settanta, comunque, il movimento femminista italiano acquistò grande rilievo, in conseguenza sia ad un forte livello di inflazione e stagnazione economica che mise sempre più in difficoltà le casalinghe italiane nel far quadrare i bilanci e che produsse una presa di coscienza collettiva, sia come conseguenza della crescita dei gruppi femministi che si svilupparono nelle grandi città da donne della classe media, sull'esempio del femminismo americano, che poneva l'enfasi sul separatismo e la libertà di coscienza. Gli anni compresi tra la fine del 1969 e il 1973 videro la nascita di vari gruppi femministi tra i quali: Lotta Femminista, il Movimento di Liberazione delle donne (Mld), nato per iniziativa di un gruppo proveniente dal Partito Radicale e il gruppo Rivolta fondato da Carla Lonzi, uno dei primi a praticare l'esperienza dell' “autocoscienza”, parola indicativa del passaggio

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dalla “presa di coscienza” ad un processo di rielaborazione a tutto campo del soggetto femminile. Il movimento femminista in Italia, non aprì soltanto la via a nuovi percorsi di costruzione biografica, ma sovvertì alla base l'ordine tradizionale, innescando profondi processi di mutamento sociale, culturale e anche giuridico. Un esempio pratico è l'impegno e la lotta dei gruppi femministi contro gli aborti clandestini e i processi per aborto. Nel 1970 in Italia l'aborto era ancora illegale e punibile con il carcere fino a cinque anni secondo l'articolo 545 del codice fascista che condannava l'interruzione di gravidanza come “delitto contro la integrità e la sanità della stirpe”. Per questa ragione molte donne ricorrevano all'aiuto di praticoni e mammane per abortire mettendo a rischio la propria vita. Tra i vari articoli presentati, la vicenda di Gigliola Pierobon, fece molto clamore nell'opinione pubblica italiana, poiché a sette anni di distanza dall'interruzione di gravidanza, la protagonista della vicenda, fu costretta a presentarsi davanti al tribunale di Padova per il reato di aborto. Il processo si concluse con il perdono giudiziale, ovvero con l'estinzione della pena, ma le vere novità furono le implicazioni politiche e sociali del processo e la presenza a Padova di un folto gruppo di aderenti al Movimento Femminista che invase la città con cortei e cartelli a sostegno di Gigliola. Questo, infatti, fu un processo per aborto che aveva portato di fronte all'opinione pubblica il problema in tutta la sua crudezza. Anche a livello politico si cominciò a riflettere sulla necessità di intervenire per cercare di arginare il problema. Nella relazione introduttiva al progetto di legge del Partito Comunista per il controllo delle nascite, la dirigente Carmen Zanti, prima firmataria del progetto, dopo aver riconosciuto la necessità di intervenire sul piano legislativo per una riforma degli articoli del codice penale che regolavano l'aborto,

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vedeva l'urgenza di una riforma sanitaria che avesse come obiettivo principale la prevenzione per poter garantire a tutte le donne il diritto di poter accedere all'utilizzo degli anticoncezionali dato che l'Italia era agli ultimi posti della classifica mondiale nell'utilizzo di contraccettivi. Anche altre forze politiche proposero progetti di legge in materia di aborto: il Partito Repubblicano ripropose il problema del controllo delle nascite, in quanto più che abortire, la donna, aveva il diritto di regolare la maternità; da parte socialista la proposta di Loris Fortuna, nel 1973, prevedeva di legalizzare e regolamentare l'interruzione di gravidanza. Dal lato opposto, invece, la Democrazia cristiana pur ponendo l'attenzione ad una giusta educazione sessuale prematrimoniale, era ovviamente contraria a legalizzare l'aborto; la proposta presentata dalla deputata Dc Maria Luisa Cassanmagnago prevedeva invece una politica di “protezione della maternità” con provvidenze a carattere economico e sociale e morale anche nel caso di palese inaccettazione della prole.

Gli anni Settanta, inoltre, furono il periodo di massima visibilità per il femminismo italiano e inevitabilmente anche gli anni delle prime crisi dei gruppi di autocoscienza, dell'emergere di conflitti e tensioni tra le femministe e alcune donne impegnate in politica. L'acquisizione di tematiche femministe da parte delle organizzazioni politiche portarono a una vera e propria crisi dei rapporti con i partiti della sinistra e sopratutto con quello Comunista, predominato secondo la visione delle femministe, dall'autorità maschile. La dirigente comunista Adriana Seroni, succeduta nel 1968 a Nilde Iotti come responsabile della sezione centrale femminile del PCI, aveva polemizzato spesso attraverso le pagine del quotidiano “L'Unità” e del settimanale “Rinascita” contro il movimento femminista, incapace secondo lei, di dare delle

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risposte concrete in merito alla condizione della donna nella società moderna. Secondo la Seroni, infatti, le masse femminili col passare degli anni, stavano prendendo sempre più consapevolezza di loro stesse, delle proprie potenzialità e dei propri diritti e non erano più disposte ad accettare il ruolo subalterno che da sempre la società creata dagli uomini le riservava. Il Partito Comunista e le forze democratiche in generale, dovevano rendersi conto di quanto la donna italiana fosse in realtà cambiata e che quindi occoreva dare delle risposte concrete in termini di leggi che riguardavano diritti civili. Da questo presupposto si apre il terzo capitolo della tesi, che ha come oggetto il referendum sul divorzio del 1974.

La legislazione in materia divorzista in Italia, era ferma al codice fascista del 1942 che prevedeva il reato di adulterio commesso dalla donna con la relativa detenzione in carcere, e la “separazione per colpa” che penalizzava la parte femminile non garantendo diritti basilari come il mantenimento e la potestà sui figli. Inoltre due persone separate che decidevano di rifarsi una vita con altri compagni e decidevano di avere un figlio fuori dal matrimonio, non potevano riconoscere legalmente i propri figli, poiché risultavano essere ancora sposati con il compagno precedente. L'unico modo per poter ottenere il divorzio era quella di recarsi in uno stato estero come il Messico o la Repubblica di San Marino, con costi talmente elevati, che questo sistema poteva essere usato solo dalle persone abbienti.

Nel 1965, in concomitanza con la presentazione alla Camera dei deputati di un progetto di legge per il divorzio da parte del deputato socialista Loris Fortuna, iniziò la mobilitazione del Partito Radicale per sensibilizzare l'opinione pubblica sul tema del divorzio in Italia. Soprattutto dopo il 1969, insieme alla Lega italiana per

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l'istituzione del divorzio (LID), il partito si mobilitò con grandi manifestazioni di massa e una continua azione di pressione sui parlamentari laici e comunisti ancora incerti. Il 1° dicembre 1970 il divorzio venne introdotto nell'ordinamento giuridico italiano; nonostante l'opposizione della Democrazia cristiana, del Movimento sociale italiano e dei monarchici del Partito Democratico Italiano di Unità Monarchica e con i voti favorevoli del Partito Socialista Italiano, del Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria, del Partito Comunista Italiano, del Partito Socialista Democratico Italiano, del Partito Repubblicano Italiano, del Partito Liberale Italiano. Venne così approvata la legge 1° dicembre 1970 n.898 che disciplinava i casi di scioglimento del matrimonio e che era risultato della combinazione del progetto di legge del socialista Loris Fortuna che si era fusa con la proposta del liberale Antonio Baslini. Prima della legge del 1970, lo scioglimento del matrimonio era ammesso solo in caso di morte del coniuge; con la legge n.898 invece, il matrimonio poteva cessare anche per il venir meno della comunione spirituale e materiale dei coniugi, purchè, la coppia fosse separata legalmente da almeno tre anni.

L'iniziativa di una raccolta firme per chiedere un referendum abrogativo della legge sul divorzio fu approvata nel Parlamento italiano nel 1970 e partì dalla destra clericale di Gabrio Lombardi, Gedda e monsignor Fiordelli, che vedevano nelle norme sul divorzio un pericolo per l'unità della famiglia italiana.

I due partiti che si impegnarono per l'abrograzione della legge furono il Msi di Giorgio Almirante e la Democrazia cristiana di Amintore Fanfani appoggiati dal comitato antidivorzista di Gabrio Lombardi e da una parte del mondo cattolico. A difesa del divorzio si schierarono, invece, i maggiori partiti della sinistra come il PCI,

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il PSI e il PRI, le testate del laicismo più rigoroso e anche una significativa parte del mondo cattolico che fu uno dei motivi che portarono alla disfatta della Dc.

Prima di arrivare a fissare la data del referendum, ci furono delle trattative per evitare lo scontro elettorale diretto fra i due grandi partiti di maggioranza dell'epoca: la Dc e il PCI. Da parte comunista si rifletteva sul fatto che andare alle urne avrebbe probabilmente significato creare una spaccatura ancora più profonda nell'elettorato italiano che era diviso tra il blocco cattolico e il blocco laico. Inoltre la propaganda antidivorzista e la Dc avevano additato il PCI come colpevole di voler distruggere la sacralità della famiglia concendendo la possibilità di un “divorzio facile”. I comunisti rispondevano a queste accuse specificando che in realtà la legge sul divorzio era una legge civile, in quanto poneva fine a migliaia di matrimoni ormai naufragati e la possibilità per migliaia di persone di poter rifarsi una vita, e che comunque, per ottenere il divorzio dovevano essere rispettate determinate regole, la prima fra tutte, come già ripetuto in precedenza, era che la coppia fosse separata legalmente da almeno tre anni. L'accordo per evitare il referendum non fu trovato, e la data delle elezioni fu fissata per il 12 Maggio 1974. Fin dai giorni immediatamente successivi la campagna elettorale entrò nel vivo con la contrapposizione netta della Dc, del Msi e del comitato antidivorzista al fronte laico capeggiato dal PCI e dalle forze democratiche.

Una presa di posizioni discordanti si ebbe anche nel cosidetto “mondo cattolico”. Il pontefice Paolo VI ovviamente era contrario al divorzio, in quanto riteneva il vincolo matrimoniale come sacro e indissolubile, ma decise di rimanere in disparte per il desiderio di mantenere la “pace religiosa”. La Conferenza episcopale, scelse la strada

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più dura difendendo strenuamente le posizioni antidivorziste. Non mancarono comunque, vescovi e parroci che si affrettarono ad aggiungere che per loro la scelta era un problema di coscienza individuale ed alcuni di essi si dichiararono favorevoli al divorzio. Il risultato del referendum fu soprendente e inaspettato anche per lo stesso segretario del Pci Enrico Berlinguer: gli italiani votarono “No” contro l'abrograzione della legge Fortuna-Baslini con una percentuale del 60%.

La legge Fortuna-Baslini introdusse principi innovativi a sostegno della donna e per la tutela dei minori. In primo luogo cessava di esistere la “separazione per colpa” che penalizzava maggiormente le donne; fu sancito l'obbligo di somministrare a favore dell'altro coniuge un assegno che veniva disposto dal tribunale con la sentenza di divorzio e soprattutto ciascun genitore esercitava la potestà sui figli. La legge sul divorzio fu il trampolino di lancio per i comunisti per rilanciare l'esigenza di riformare un'altra legge importantissima in termini di uguaglianza di diritti civili, ovvero quella relativa al diritto di famiglia.

Il quarto e il quinto capitolo di questo lavoro, analizzano nello specifico le fasi e il contributo del Partito Comunista, in particolare l'impegno delle proprie dirigenti, nel riformare la legislazione sul diritto di famiglia con la legge 19 maggio 1975, n. 151. Per comprendere al meglio tutti i passaggi che hanno portato all'approvazione definitiva del progetto di legge, sono partita dal libro dello storico Paolo Ungari, Storia del diritto di famiglia in Italia, facendo una piccola panoramica storica del periodo compreso tra il 1943 e il 1947, nel quale il legislatore pose le basi di quella che fu la revisione radicale di un impianto normativo fondato sul modello patriarcale della famiglia. La Costituzione italiana, a differenza dello Stauto albertino basato sul

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modello patriarcale, su cui poggiava la legislazione familiare italiana fino al 1975, conteneva molti articoli espressamente dedicati alla famiglia e in particolare l'articolo 3 sanciva l'uguaglianza di ogni cittadino, senza distinzione di sesso, di razza, religione, lingua, opinioni politiche e condizioni personali. Per redigere il nuovo testo sul diritto di famiglia, il legislatore non dovette far altro che riprendere i principi già sanciti dalla Costituzione, ma che a causa dell'ostruzionismo di una parte del mondo politico erano rimasti inattutati per quasi vent'anni.

Il testo della riforma del diritto di famiglia, era approdato alla Camera già nel 1972, ma a causa dell'ostruzionismo del MSI e della Dc il testo non riuscì ad essere approvato e ad essere trasmesso in sede finale al Senato fino al 1975.

L'impegno del PCI per far approvare il nuovo diritto di famiglia, fu anche in questo caso, fondamentale. I deputati comunisti Nilde Iotti, Giglia Tedesco, Adriana Seroni, Ugo Spagnoli, si batterono in Parlamento facendo pressioni anche sulle altre forze parlamentari democratiche e sui rappresentanti delle masse femminili per far approvare una legge che in un paese democratico come l'Italia non poteva non trovare applicazione. La legge infatti, dopo dure discussioni nelle aule parlamentari, diventò legge di Stato nel Maggio del 1975. Il Partito comunista si fece portavoce della necessità ormai maturata nel Paese, di un rinnovamento sociale che non poteva essere più rinviabile da quelle forze conservatrici che considerevano ancora la donna come subalterna all'uomo. La nuova legge infatti, apportava principi innovatori mai avuti prima: in primo luogo equiparava la condizione di entrambi i coniugi all'intero del contratto matrimoniale, la donna quindi non era più proprietà del marito come invece sanciva la precedente legislazione, ma entrambi i coniugi avevano gli stessi diritti e

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gli stessi doveri anche nei confronti dei figli; introduceva la comunione dei beni come regime normale e carattere opzionale della divisione dei beni, veniva abolita la clausola della dote. Uno degli aspetti fondamentali della legge 19 Maggio 1975 era quella del riconoscimento dei figli illegittimi nati fuori dal matrimonio e l'attribuzione della paternità anche alla madre del figlio. La donna inoltre, partecipava attivamente al bilancio familiare e le venivano riconosciute per legge le proprietà e le risorse economiche che condivideva con il marito grazie proprio allo specifico articolo riguardante la comunione dei beni.

Questi furono alcuni dei 240 articoli che componevano la legge sulla riforma del diritto di famiglia, su cui il Partito Comunista incentrò la propria battaglia per i diritti civili di migliaia di donne e di bambini che fino al 1975 erano stati pesantemente discriminati dalla legislazione che faceva riferimento alle norme dello Statuto albertino.

Le fonti.

Per poter analizzare nello specifico i processi culturali e sociali che hanno portato alla revisione della legge sul diritto di famiglia, ho dovuto prima fare un'analisi del periodo storico che ho preso in esame. A questo proposito per avere una panoramica completa del contesto storico, sociale, politico ed economico mi sono avvalsa dell'aiuto di alcuni testi fondamentali. Per quanto riguarda la prima parte dell'analisi delle condizioni dell'Italia postbellica sia a livello economico che sociale ho usato i testi dello storico Paul Ginsborg Storia d'Italia dal dopoguerra a oggi, dello storico Barry Eichengreen con il volume Storia della nascita dell'economia europea, e il

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libro di Guido Crainz, Il Paese mancato. Nella parte finale del primo capitolo, ho cominciato ad affrontare anche la tematica di genere sulla condizione femminile in Italia a partire dagli anni Sessanta, mostrando le contraddizioni anche all'interno della concezione comunista della donna intesa sia come militante politica che come moglie e madre, e in questo caso il contributo della storica Anna Tonelli con il suo volume Poltica e amore è stato fondamentale.

Proseguendo nel mio lavoro, per affrontare il tema sulla nascita del femminismo negli anni Settanta, la raccolta di saggi curata da Teresa Bertilotti e Anna Scattigno intitolata Il femminismo degli anni Settanta, mi ha fornito nello specifico le tematiche affrontate dai primi gruppi femministi italiani e di come questi si siano progressivamente sviluppati nella società italiana. Nel secondo capitolo, in particolare, ho trattato anche della questione degli aborti clandestini. Le fonti che mi hanno aiutato maggiormente a comprendere e a presentare fatti di cronaca realmente accaduti di donne che si avvalevano dell'aiuto di praticoni e mammane per interrompere una gravidanza in modo del tutto illegale e rischioso per la propria vita, sono state le rivista dell'UDI “Noi donne” fondata a Parigi nel 1937 come espressione dell'associazione delle donne antifasciste emigrate in Francia e diventata rivista ufficiale dell'UDI dal 1945 e il settimanale “Giorni-Vie nuove” fondato nel 1946 dal dirigente comunista Luigi Longo.

Anche per quanto riguarda il terzo capitolo, nel quale ho affrontato la questione del referendum sul divorzio, le riviste su cui ho trovato maggior numero di articoli e di inchieste sono stati “Noi donne” e “Giorni-Vie Nuove”, quest'ultima rivista mi è stata particolarmente utile per sviluppare l'intenso dibattito politico tra la Democrazia

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cristiana, il Partito comunista e il cosidetto “mondo cattolico”.

Per quanto riguarda invece il quotidiano “L'Unità”, organo ufficiale del PCI dal 1924 al 1991 e fondato il 12 febbraio del 1924 da Antonio Gramsci, e il settimanale politico-culturale “Rinascita” fondato dal leader comunista Palmiro Togliatti nel 1944, pur avendo trovato lunghi interventi dei dirigenti del partito Comunista ,sia per quanto riguardava la condizione femminile in generale e la tematica del referendum sul divorzio del 1974, sono stati particolarmente utili per sviluppare l'argomento centrale della tesi, vale a dire il contributo fondamentale del PCI all'interno della riforma del diritto di famiglia. Sopratutto attraverso i lunghi interventi riportati da questi due giornali, dei dirigenti del Partito comunista e in particolar modo delle deputate comuniste che si impegnarono in Parlamento per far approvare la nuova legge, ho trovato elementi che testimoniano il grande sforzo e la grande battaglia che il PCI ha combatutto per i diritti civili in Italia.

Per un esame più approfondito di alcuni articoli della legge n.151, mi sono servita di altri due testi molto importanti. Il primo è il libro dello storico Paolo Ungari, Storia del diritto di famiglia in Italia, nel quale l'autore fa una panoramica storica delle legislazioni familiari in Italia dal 1876 al 1975; mentre il secondo libro è il Manuale di diritto civile scritto da Gabriella Vignola e Maria Teresa Iacopino, nel quale si affrontano in maniera approfondita gli articoli della legislazione familiare che regolavano il codice civile italiano.

Analizzando e leggendo le fonti, soprattutto le riviste che ho menzionato, essendo tutte testate giornalistiche vicine al Partito Comunista, si evince una chiaro intento pedagogico da parte del PCI verso le masse femminili sempre più ricettive ai

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cambiamenti in atto nella società del tempo. Sopratutto attraverso i lunghi commenti riportati sia da “L'Unità”, “Noi donne” e “Rinascita” delle dirigenti comuniste come Adriana Seroni, Giglia Tedesco e Nilde Iotti, sulle conferenze dell'Udi o sulle conferenze delle donne comuniste che si sono svolte durante gli anni Settanta, si trovano esortazioni da parte delle militanti verso le lettrici di prendere coscienza di sé e dei propri diritti per far sì che questi venissero rispettati e che quindi nella società si delineasse un tipo nuovo di donna che rompeva nettamente con lo schema precedente, propagandato soprattutto dalla Dc e dalla parte cattolica, che vedeva il ruolo femminile protagonista solo dell'ambito domestico senza prospettiva di miglioramento e di realizzazione personale. Ritengo che in questo senso, la fonte che più ha assolto questo compito educativo, sia stata senza dubbio la rivista “Noi donne”, il giornale ufficiale dell'UDI, che non si limitò a presentare i dibattiti politici tra le varie fazioni, ma attraverso le inchieste, i casi di cronaca, le testimonianze dirette sia sotto forma di interviste che di lettere inviate alla redazione, mise al corrente migliaia di donne dei cambiamenti che stavano avvenendo nella società e dei diritti sanciti per legge che le donne potevano e dovevano rivendicare, sia per quanto riguardava l'applicazione della legge Fortuna-Baslini sia per quanto concerneva l'attuazione del nuovo diritto di famiglia, la redazione cercò di dare risposte concrete ai vari casi che venivano presi in esame, grazie anche all'aiuto di avvocati, intellettuali, dottori, notai, professori universitari ed esperti giuridici che rispondevano nel dettaglio a richieste specifiche. Questo aspetto, poteva essere, appunto, un incentivo per le lettrici per appoggiare il Partito Comunista Italiano impegnato nella battaglia per garantire i diritti civili ad ogni donna.

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Conclusioni

Attraverso la lettura delle fonti che ho analizzato posso affermare che il Partito comunista ha avuto un ruolo cruciale nelle fasi politiche e storiche che hanno portato alla riforma del diritto di famiglia del 1975. Questo non vuol dire, però, che non ci siano state delle contraddizioni anche all'interno del PCI stesso.

Già a partire dagli anni '50 e '60 si era sviluppata all'interno del PCI, come detto in precedenza, una concezione del ruolo della donna all'interno della società che differiva totalmente dalla morale cattolica e dai valori sacrali della famiglia che invece la Democrazia cristiana portava avanti. Il fatto che per i comunisti la donna potesse lavorare e impegnarsi politicamente, molto spesso entrava in contraddizione con la concezione che gli stessi comunisti avevano della famiglia, basata anche per loro su un rigido rapporto di monogamia e improntata sul modello sovietico. Il partito doveva venire prima di tutto. Molto spesso le donne, impegnate politicamente mal conciliavano la “doppia militanza” e non potendo rifiutare le direttive del partito si trovavano sovente a dover lasciar indietro famiglia ed eventuali figli. La volontà del Pci, però, fu era quella di costruire un partito nuovo capace di radicarsi all'interno del tessuto sociale attraverso un sistema di valori sui quali i cittadini, prima che i militanti, avrebbero saputo riconoscersi. Fu anche per questo motivo che il Partito Comunista riservò un' attenzione particolare all'educazione ai sentimenti, in particolar modo a quelli femminili; rispetto ai modelli tradizionali più diffusi nella società italiana del dopoguerra, la rappresentazione comunista dei ruoli femminili insisteva sulla necessità che le donne partecipassero in prima persona alla vita sociale, politica

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ed economica del Paese. Questo avrebbe garantito, quindi, anche un nuovo vasto bacino di consensi, che avrebbe posto negli anni a venire il PCI in una condizione di supremazia.

Questa prima dimostrazione fu palese al primo referendum dell'Italia repubblicana del 1974, quando gli italiani furono chiamati ad esprimersi sulla possibilità di abrogare la legge sul divorzio approvata nel 1970. Le proporzioni della vittoria furono assai corpose, il 60% degli italiani si era espresso favorevolmente al mantenimento della legge sul divorzio. Si può affermare che il successo del “NO” sia stato un insieme di molteplici fattori. In primo luogo ci fu uno spostamento di una parte cospicua degli elettori democristiani o missini che non avevano accettato l'incapsulamento negli schemi reazionari o moderati in cui volevano costringerli Fanfani e Almirante con i loro plateali comizi elettorali. Altro fattore di debolezza della offensiva antidivorzista fu la condotta incapace da parte di Amintore Fanfani del partito nella “crociata antidivorzista” ; alcuni esponenti del partito stesso accusarono il segretario di non aver promosso un dialogo interno, che doveva tener conto delle diverse posizioni all'interno della Dc per evitare il referendum e portare inevitabilmente il partito alla disfatta più totale. Un esempio in proposito fu la dichiarazione della deputata DC Maria Eletta Martini che asserì pubblicamente che in assenza di precise direttive del partito lei avrebbe votato “NO” contro l'abrograzione della legge sul divorzio. Ultima e non meno importante causa di sconfitta, fu la spaccatura che si creò all'interno del mondo cattolico. Paolo VI, come già ripetuto, pur essendo nettamente contrario alla legge, invocò la “pace religiosa” e lasciò a Fanfani il compito di continuare la campagna elettorale; la prima organizzazione

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fiancheggiatrice della Dc, ovvero l'Azione cattolica, non seguì le direttive del partito al quale faceva riferimento, ma asseriva che la decisione del voto finale spettava alla responsabilità e alla libertà di coscienza individuale. La Conferenza Episcopale Italiana (CEI) pur sottolineando il fatto che il matrimonio era indissolubile, non negò comunque la libertà di coscienza individuale; infatti l'arcivescovo di Trento Alessandro Gottardi dichiarò pubblicamente che anche per lui più valeva il principio della libertà di coscienza e che si sarebbe schierato contro il divorzio e addirittura il quotidiano “L'Unità” riportava un documento firmato da 44 parroci Veneti intenzionati a votare contro l'abrogazione della legge. A fronte di tutti questi elementi, si può affermare che la causa primaria della sconfitta referendaria del 1974 della Dc, sia stata indubbiamente la mancanza di unità sia a livello di partito sia nella parte della società civile che doveva sostenerla, poiché anche nel fronte cattolico sorsero in tutta Italia migliaia di comitati per il “NO” contro l'abrogazione della legge.

L'unità e la compattezza, furono, al contrario gli elementi di forza della vittoria del PCI. Il partito era guidato dal 1973 da Enrico Berlinguer, uomo dal grande carisma che guidò in modo autorevole i propri militanti. Inizialmente la proposta di Berlinguer fu quella di evitare il referendum per due motivi: il primo era che il segretario non voleva creare un ulteriore divario tra lui e la Dc sopratutto in vista del “compromesso storico” che consisteva in una grande coalizione governativa di alleanza formata da Dc, PCI e PSI; e secondo perchè c'era il timore non infondato che l'opinione pubblica additasse il PCI come colpevole di voler distruggere il tradizionale concetto di famiglia che secondo la propaganda della DC, con il

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mantenimeto della legge sul divorzio si sarebbe sicuramete sfaldata. Al contrario della Democrazia cristiana, nel Partito Comunista fu promosso un dialogo ai vertici che vide impegnate Nilde Iotti e Adriana Seroni in polemica contro alcuni dirigenti maschi come Macaluso che non volevano assolutamente arrivare allo scontro elettorale. Per le dirigenti comuniste il referendum sul divorzio si poneva allo stesso livello delle grandi battaglie politiche democratiche ed era giusto che il popolo si esprimesse in merito. Quando la data del referendum venne fissata al 12 maggio 1974, tutto il Partito, nonostante le prime divergenze iniziali, condusse la campagna elettorale in modo unito e sopratutto senza contrasti interni. Questo indubbiamente fu l'elemento fondamentale che lo portò alla vittoria. Altro fattore da non sottovalutare, furono i voti della masse femminili che reduci dai cambiamenti sociali che si stavano affermando nella società italiana iniziati dal Sessantotto, ebbero finalmente l'occasione di poter contribuire ad una legge che le avrebbe favorite a sanare situazioni ormai divenute insostenibili.

Il referendum sul divorzio fu sicuramente il trampolino di lancio per il Partito Comunista per avviare anche la riforma del diritto di famiglia che faceva riferimento al codice del 1875. La vittoria del 1974 dette un forte impulso al PCI per portare avanti l'approvazione del progetto di legge fermo alla Camera dal 1972 a causa dell'ostruzionismo della Dc e del MSI.

Dopo l'iter parlamentare di Camera e Senato, finalmente la legge n.151 sul diritto di famiglia diventò operante a tutti gli effetti dal 20 settembre 1975.

La forza del Partito comunista che anche per la riforma del diritto di famiglia giocò un ruolo cruciale, si dovette senz'altro alla capacità di aver compreso prima di altri

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l'evoluzione della società e le congiunture politiche nelle quali si trovava ad operare. Si può affermare, come intitolava un articolo del quotidiano “L'Unità”, che la legge sul diritto di famiglia era stata “voluta dalla donne per le donne”, poiché i contributi maggiori nei dibattiti parlamentari sono da attribuire a Nilde Iotti e Giglia Tedesco. L'impegno costante per quanto riguardava le tematiche di genere, e il suo saper dialogare anche con forze di opposizione e con il movimento femminista con il quale i rapporti non furono sempre pacifici, fecero sì che il Partito Comunista Italiano aumentasse progressivamente i propri consensi nella società civile, e soprattutto che l'opinione pubblica non considerassse più il partito fondato da Palmiro Togliatti come colpevole di aver sovvertito i valori sociali predominanti, ma che anzi, si fosse fatto promotore e garante dell'attuazione dei diritti fondamentali di ciascun cittadino e questo gli permise già dalle elezioni amministrative del 1975 e quelle politiche del 1976, di migliorare ulteriormente rispetto agli anni precedenti i propri consensi elettorali e di porsi in una posizione di forza all'interno dello scenario politico mai avuta prima. Ne è un esempio lampante anche l'impegno che il PCI mise nel 1975 a favore della legge sull'aborto, nella quale si schierò oltre che con i partiti della sinistra, anche con il movimento femminista in una battaglia che riguardava la libertà per la donna di poter decidere di interrompere una gravidanza non desiderata.

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Capitolo 1

L'assetto postbellico dell'Italia

1.1 La situazione economica, politica e sociale dell'Italia postbellica.

Il secondo dopoguerra s'inscrive nella storia d'Italia come un periodo contraddistinto da uno scarto relativo fra la perdita di beni materiali, che è nel complesso contenuta, e la perdita di beni immateriali o comunque di ricchezze simboliche, affettive, spirituali, che è invece assai elevata. Secondo i calcoli dell'economista democristiano Pasquale Saraceno, le lesioni all'apparatto industriale furono di portata modesta, mentre molto più consistenti risultarono i colpi inferti alla produzione agricola, in particolar modo nella parte centrale della penisola, teatro di estesi combattimenti.1

Nonostante i gravi danni provocati dal conflitto bellico che colpirono il settore industriale, le infrastrutture, il comparto siderurgico e i trasporti, la ripresa economica fu abbastanza rapida anche malgrado una cronica deficienza di materie prime ( in particolare carbone e dunque energia elettrica): nel settembre 1946 l'attività industriale raggiunse il 70% rispetto a quella del 1938.2 Negli anni successivi,la

politica e le attività di investimento delle conglomerate statali, favorirono in misura crescente specifici interessi regionali o settoriali, a scapito della crescita economica nel suo complesso. Negli anni '50 questi stessi fattori furono citati come spiegazioni di quello che sempre più spesso sarebbe stato chiamato “miracolo economico”.3

Proprio gli anni di questo miracolo, portarono però ad alcuni cambiamenti radicali nella composizione di classe nella società italiana, delineando un Nord del Paese con

1 S. Lanaro, Storia dell'Italia repubblicana, Marsilio, Venezia 1992, p. 5. 2 Ibidem, p. 6.

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prospettive di intenso sviluppo rispetto al Sud in cui le prospettive occupazionali rimanevano molto basse.

La guerra, oltre alla sconfitta militare, aveva comportarto il mutamento della forma politica dello Stato, costellato per anni da saccheggi, rappresaglie, requisizioni, sfollamenti che avevano inflitto alla popolazione ferite patrimoniali e sopratutto esistenziali. Insonnia, sgomento, asseuefazione alla fame, angoscia per una persona cara che non dava notizie di sé, preoccupazione per oggetti personali abbandonati precipitosamente, furono addendi di una somma emotiva che si può calcolare solo tracciando un bilancio del vissuto individuale e sforzo di rimozione delle sofferenze più acute.4 Tuttavia, gli anni '50 si definiscono solitamente come il periodo della

ripresa e del “boom economico”, che però si arrestò già dai primi anni '60. In questo periodo infatti si registrò una crisi che evidenziava il dislivello economico e sociale del Paese a seguito del conflitto. La “congiuntura” appare in Italia molto grave poiché coincide con la messa in discussione dell'aumento della produttività che aveva costantemente sopravanzato quello dei salari negli anni precedenti, accompagnato da un deciso modificarsi delle attività produttive. 5 La geografia sociale si era

rimodellata attorno ai luoghi dell'industrializzazione, alle vie di comunicazione, ai centri maggiori; nello stesso periodo si stabilirono all'estero oltre 4 milioni di italiani. Lo sgretolarsi dei precedenti assetti sconvolse inevitabilmente relazioni familiari e sociali, condizioni di vita, culture. In Italia, più che in altri paesi europei, antiche aspirazioni ed elementari esigenze iniziarono a realizzarsi contemporaneamente all'irrompere di consumi e bisogni nuovi in risposta alle critiche condizioni della

4 S.Lanaro, Storia dell'Italia repubblicana, cit.,p. 7.

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società dopo il conflitto mondiale.6 Il divario tra Nord e Sud del paese ampliò sempre

più le differenze sia culturali che sociali, ed enfatizzò le disuaglianze e le discriminazioni sociali che proprio il “miracolo” economico rendeva sempre più inaccettabili.7

Per quanto riguarda la classe imprenditoriale, pur essendo uscita dalla guerra con fatica, negli anni successivi del dopoguerra, andò sviluppando al proprio interno, una divisione tra una maggioranza conservatrice e una minoranza progressista che prediligeva investimenti per una ripresa più efficace della produttività, rispetto alle speculazioni finanziarie.8 Progressivamente lo strumento politico a cui gli

imprenditori cominciarono a guardare sempre più da vicino per realizzare i propri scopi, fu la Democrazia cristiana, anche se non era certamente il partito organico della borghesia italiana.9 Inizialmente la maggior parte del mondo degli affari si

rivolse inizialmente al Partito liberale come al tradizionale rappresentante politico dei propri interessi. I liberali comunque, non riuscirono ad adattarsi alle mutate condizioni dell'Italia postbellica. Quasi tutti i dirigenti, il più famoso dei quali fu il filosofo Benedetto Croce, erano maturati politicamente prima dell'avvento del fascismo e fallirono nel comprendere la necessità di una propaganda politica che potesse raggiungere un uditorio più ampio di quello formato dalla borghesia delle più importanti città. Rimasero così un partito di èlite, che non poteva offrire alla classe imprenditoriale nessuna garanzia elettorale.10 I democristiani erano esattamente

l'opposto. L'essenza del loro agire politico era quell'interclassismo che è prerequisito

6 Guido Crainz, Il Paese mancato,cit., p.13 7 Ibidem.,p.14.

8 Paul Ginsborg, Storia d'Italia dal dopoguerra a oggi. Società e politica 1943-1988, Einaudi, Torino 1989, p. 93. 9 Ibidem, p. 96.

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essenziale di ogni moderno partito conservatore. Attraverso l'appoggio della Chiesa e della sua organizzazione fiancheggiatrice, l'Azione cattolica, i democristiani speravano di conquistare i credenti di ogni ceto sociale. Attraverso organizzazioni collaterali come l'Acli o la Coldiretti, che offrivano un'efficiente assicurazione, assistenza sociale e consulenza legale, essi crearono con successo una base di massa tra i contadini proprietari e i lavoratori cattolici. La loro propaganda si rivolse in modo particolare ad artigiani, commessi, impiegati, funzionari statali, piccoli affaristi, insomma i ceti medi urbani della società italiana. In passato spina dorsdale del consenso di Mussolini, erano rimasti disorientati dall'improvvisa distruzione dei valori fascisti di nazione e partito.11 Alcuni esponenti di questo ceto medio si erano

arricchiti con il mercato nero, ma la maggior parte di loro era stata duramente colpita dall'inflazione degli anni della guerra; inoltre la grande maggioranza dei ceti medi, sia urbani che rurali, era profondamente ostile al comunismo e al socialismo, percepiti come dottrine che avrebbero comportato la perdita della loro individualità e il livellamento verso il basso della scala sociale. Quello che diceva la Dc piaceva molto di più: essa riaffermava la morale cattolica, prometteva di salvaguardare la proprietà, limitare il potere dei grandi monopoli e di proteggere tanto i consumatori che i produttori.12 In aggiunta a questo, la Democrazia cristiana rivolgeva un appello

speciale anche ai valori familiari. Durante la guerra le famiglie erano state sottoposte a una tensione terribile: gli uomini erano lontano a combattere e molti erano diventati prigionieri di guerra, le donne e le ragazze delle città meridionali erano state spesso spinte sulla via della prostituzione, molti bambini delle città del Nord erano stati separati dalle madri e mandati in campagna per sfuggire ai bombardamenti. La

11 Paul Ginsborg, Storia d'Italia dal dopoguerra a oggi, cit., p.97. 12 Ibidem., p. 98.

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Chiesa e la Democrazia cristiana posero quindi un grande impegno nell'assistere le famiglie provate dai traumi della guerra. Le organizzazioni cattoliche, specialmente quelle parrocchiali, offrivano una varietà di servizi: aiuto economico diretto, indagini, disbrigo di pratiche e contatti per cercare di riunire le famiglie separate, assistenza e beneficienza nei confronti dei bambini. 13 Secondo lo storico Paul Ginsborg, nel libro

Storia d'Italia dal dopoguerra a oggi, questa attenzione ai problemi della famiglia superava le divisioni di classe e si rivolgeva in modo particolare alle donne. Per quelle che avevano superato i venticinque anni, il desiderio di ritornare a una vita familiare era avvertito in modo significativo rispetto all'esigenza di rinnovamento sociale. Queste furono le basi, su cui la Dc riuscì a crearsi nella società italiana una vasta area di consenso, anche se il blocco sociale che l'appoggiava non era privo di contrasti interni.

1.2 Le elezioni del 1953, La Democrazia cristiana, lo Stato e la società.

La Democrazia cristiana aveva ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi parlamentari nelle elezioni del 1948, ma l'inerzia del partito dopo tale data e la sua incapacità di rispettare le sue promesse di giustizia sociale , gli costarono una perdita di voti in tutto il Paese. Iniziava così una stagione politica caratterizzata dallo spettacolo continuo di una Democrazia cristiana tesa alla ricerca di alleati politici al centro, ma anche a destra e a sinistra.14 Si sarebbero formate e poi sciolte instabili

coalizioni, governi sarebbero andati e venuti, con la stampa, la radio e poi la televisione pronte ogni volta a inondare l'opinione pubblica di notizie e commenti sulle più recenti baruffe tra i vari partiti e sulle lotte intestine in ognuno di essi. I

13 Paul Ginsborg, Storia d'Italia dal dopoguerra a oggi, cit., p.99. 14 Ibidem., p. 189.

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risultati delle elezioni del 7 Giugno 1953 videro la Democrazia cristiana nuovamente maggioritaria, seppur in calo come affermato in precedenza; la coalizione centrista formatasi per ottenere il premio di maggioranza introdotta dalla nuova legge elettorale, non riuscì infatti a superare il 50% dei voti. Le elezioni rafforzarono invece la sinistra che conclusa l'esperienza del Fronte Democratico popolare tornò divisa tra Partito Comunista italiano e Partito Socialista italiano.15 La Dc, comunque, mantenne

il potere per i cinque anni successivi grazie a governi che si basavano, per sopravvivere, sui voti dei partiti minori di centro e di destra. Nessuna combinazione di alleanza, però, risultò soddisfacente; l'iniziativa politica stagnava e la seconda legislatura (1953-1958) venne poi chiamata la “legislatura dell'immobilismo”. Si trattava soltanto di un'impressione superficiale. Gli anni '50 furono in realtà il periodo cruciale in cui la Democrazia cristiana pose le basi del proprio sistema di potere nello Stato, conquistandosi con questo e altri mezzi un nuovo consenso nella società italiana.16

Secondo l'analisi del già citato Paul Ginsborg, nel suo libro Storia dell'Italia dal dopoguerra a oggi, non vi era in realtà una divisione così netta tra lo Stato e la società civile, in quanto il primo si era sovrapposto e intrecciato sempre più con la seconda. Quando nel 1954 divenne segretario della Dc, Amintore Fanfani cominciò immediatamente a rivitalizzare il partito e tentò di renderlo meno dipendente dalla Chiesa cattolica. Nei primi anni '50 vi erano state forte tensioni tra il papa Pio XII e i dirigenti politici cattolici, anche se né il partito né la Chiesa pensarono mai seriamente di prendere strade separate dopo la vittoria elettorale del 1948. Il tentativo di Fanfani di costruire un partito di massa non poteva mascherare il fatto che per tutto

15 Paul Ginsborg, Storia d'Italia dal dopoguerra a oggi, cit., p.190. 16 Ibidem., p. 226.

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il decennio la Dc continuò a fare molto affidamento sulla profonda penetrazione della Chiesa nella società italiana e sul suo esplicito appoggio politico alle elezioni.17

La predicazione del messaggio sociale della Chiesa presso le masse cattoliche si incentrò, in particolar modo, sul tema della santità della famiglia cristiana. Tra tutte le istituzioni sociali, la famiglia suscitava, più d'ogni altra cosa, la passione e il rispetto dei cattolici italiani. Il politico democristiano Emilio Colombo, scrisse nel 1952: “ È senza dubbio soltanto il cristianesimo che presenta la più nobile concezione della famiglia fino ad elevare il ruolo dell'uomo con la donna alla dignità di sacramento e raffigurare così con essa l'unione di Cristo con la sua Chiesa.”18 La dottrina cattolica

asseriva a chiare lettere la priorità della famiglia sulla società civile, una priorità giustificata in base a considerazioni di ordine storico ed etico. Nelle relazioni con la collettività, la famiglia cristiana aveva più diritti che doveri. I doveri erano prevalentemente interni : un forte accento era posto sull'indissolubità del matrimonio, sulla devozione( specialmente della donna) verso il marito, sulla capacità dei genitori di educare i figli in maniera cristiana.19 Il disegno egemonico partiva proprio dai temi

dell'educazione, della formazione e della partecipazione; cominciavano ad essere diffusi con sorprendente capillarità testi di studio, racconti morali, romanzi, libri di cultura religiosa, manuali spirituali, meditazioni per adolescenti fino ad un vero e proprio sillabario della morale cristiana.20 Secondo la storica Anna Tonelli, nel suo

libro Politica e amore, è evidente che i principali interlocutori di tale politica di educazione ai sentimenti, siano state le donne. Esse sarebbero state le future spose e

17 Paul Ginsborg, Storia d'Italia dal dopoguerra a oggi, cit., p.226. 18 Ibidem.,p. 234.

19 Ibidem., p.236.

20 Anna Tonelli, Politica e amore,. Storia dell'educazione ai sentimenti nell'Italia contemporanea, Il Mulino, Bologna, 2003, p.26.

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madri, che non solo avrebbero avuto il compito di mantenere la santità e l'unità della famiglia, ma sarebbero diventate i soggetti/oggetti privilegiati verso i quali indirizzare l'impegno, quando non la costrizione, a rispettare i ruoli naturali loro assegnati. I cattolici colsero immediatamente il ruolo strategico della donna nella società, trasformandola in uno degli anelli portanti del progetto di penetrazione del tessuto sociale. A questo scopo si diffusero le pubblicazioni rivolte alle educatrici che si occupavano delle adolescenti sia alle giovani stesse, inserite o meno nelle organizzazioni cattoliche. Il controllo del privato, e in specie del privato delle donne, costituì infatti il terreno più fertile su cui esercitare il “potere” educativo. Siano state esse adolescenti, giovanissime, giovani, signorine, andava loro riconosciuto il ruolo da protagoniste in un percorso che prevedeva impegno e sorveglianza. E anzi, nei pericoli insiti nella partecipazione delle donne a un nuovo modello di società stava la volontà di Azione cattolica e delle altre organizzazioni legate alla Democrazia cristiana di avviare una seria politica educativa femminile.21 Le donne andavano

seguite nel loro “apprendistato alla vita”, soprattutto per quanto riguardava l'avvicinamento allo spazio sociale, non più legato al guscio protettivo della famiglia. La paura che avessero potuto affermarsi le tematiche legate alla liberazione e all'emancipazione femminile spinse i cattolici a ribadire con forza la visione tradizionalista del ruolo della donna che sembrava negata dalla realtà. Il modello prediletto era quello della “famiglia rinchiusa in spazi domestici sempre più definiti” dove “i ruoli sessuali si irrigidiscono negli stereotipi patriarcali che esaltano nelle donne la virtù dell'obbedienza, della castità, della riservatezza”.22 Il controllo di sé

diventò una delle strade più efficaci per esercitare una vigilanza morale che traeva le

21 Anna Tonelli, Politica e amore, cit,. p. 29. 22 Ibidem, p. 30.

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sue origini dal disciplinamento delle emozioni. Un controllo che doveva iniziare indiscutibilmente dall'età adolescenziale, la più soggetta a variazioni di carattere e di conseguenza la più adatta a provare la validità delle direttive educative. Il futuro della famiglia era affidato in modo improcrastinabile alle mogli, il ruolo della donna, quindi, divenne l'elemento portante in una società in via di trasformazione. L'unica felicità possibile era quella che respingeva una vita di lusso e di seduzioni, per abbracciare un sentimento di assoluta purezza e devozione verso il proprio nucleo familiare. 23 Il bisogno di insistere sulla subalternità della donna, se da una parte

rispecchiava una posizione tradizionale che ha caratterizzato la storia della morale cattolica, dall'altra rivela però il timore di favorire il processo di emancipazione e la volontà di arginare le possibili conseguenze. L'uguaglianza fra i coniugi e l'indipendenza reciproca venivano giudicate come un attacco al matrimonio; le donne che intendevano passare per moderne, prese dall'ebbrezza dell'idea di uguaglianza e libertà, consideravano il marito come un compagno e nulla più, e rinnegavano risolutamente l'autorità maritale come una cosa umiliante e superata.24 Una crociata

esplicita contro la modernità, considerata la fonte di tutti i mali nel processo di scristianizzazione. Per contrastare le inclinazioni alla nuova mondanità andava studiata una preparazione morale, e in alcuni casi anche fisica, finalizzata a costruire il modello di fidanzata e moglie perfetta. La donna doveva “saper tacere”, “saper adattarsi”, “saper rispettare” ponendo la volontà del marito al di sopra di qualsiasi altro imperativo; in questa prospettiva di senso del “sacrificio”, l'amore della casa, l'ordine e l'economia venivano considerate “doti della nubenda” da esibire all'uomo in

23 Anna Tonelli, Politica e amore, cit., p.31. 24 Ibidem, p.44.

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cerca di moglie.25 Proprio per questo, insiste Anna Tonelli, esistevano alcune

categorie di donne destinate a essere respinte dai futuri mariti. Le “passionali”, le “capricciose”, le “civette”, le “litigiose”, le “mondane”, le “nevrasteniche”, sono alcuni esempi di un lungo elenco; queste categorie di genere femminile non solo recavano danno a se stesse con una vita dissoluta e amorale, ma avrebbero sicuramente incontrato difficoltà insormontabili nel realizzare quel fine naturale al quale tutte le donne devono aspirare, ovvero il matrimonio e la maternità. Persiste, dunque, la fedeltà al modello di donna come buona moglie e amante dei figli che, nel suo amore per il focolare e la famiglia, deve abbandonare ogni inclinazione per le tentazioni percepite dall'esterno; le giovani che si si fossero fatte sedurre dalla moda, dalle cose effimere, indugiando nei piaceri fatui e passeggeri, non sarebbero diventate né buone mogli né buone madri, concentrate, di fatto, a soddisfare la loro vanità.26

Alle future spose, inoltre, erano dirette anche conversazioni medico-sociali e testi scritti da medici che venivano interpellati dalle dirigenti di Azione cattolica come propri alleati nell'opera di educazione ai sentimenti. Venne codificata una vera e propria “igiene del matrimonio” con regole precise non solo in tema di sesso e riproduzione,ma anche di spiegazione di alcuni fattori naturali e genetici dei singoli individui. In questi manuali divulgativi, però, si continuavano a trovare riferimenti all'istintualità maschile per giustificare e legittimare la naturale propensione sessuale dell'uomo, dentro e talvolta anche fuori dal matrimonio. Ma se l'istinto sessuale era legittimo per gli uomini, non altrettanto poteva dirsi per le donne, costrette contenerne ogni forma visibile. Anzi, secondo un ideale di purezza e castità, sarebbe stato “naturale” per ogni donna non provare nemmeno alcun istinto sessuale, e per

25 Anna Tonelli, Politica e amore, cit., p.46. 26 Ivi.

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giustificare tale ragionamento il contributo dei medici fu essenziale. La scienza medica aveva messo in rilievo un gran numero di malattie provocate dalle pratiche sessuali che minavano alla radice l'equilibrio mentale di tante giovani spose, provocando specialmente negli organi della vista disastrose conseguenze; danni alla vista e al sistema nervoso, insieme a quelli ancor più gravi del sistema riproduttivo, erano i rischi che i medici rilevarono nell'incontinenza sessuale.27 Dietro questi

allarmi, spiega nuovamente la Tonelli, ci sarebbe stata la volontà di reprimere ogni forma di emancipazione delle donne, a partire dalla consapevolezza della propria sessualità. L'insistenza sulla malattia come risultato di un mancato controllo delle pulsioni diventava il mezzo più diretto per porre divieti e convinicimenti. Qualora si fosse dato spazio alle passioni, si era inevitabilmente destinate a incorrere nella peggiore delle conseguenze, ossia nelle gravidanze “illegittime”, da scontare attraverso un'etichetta di spregio che non sarebbe stata più cancellata. Una profezia talmente dolente che avrebbe dovuto convincere ogni donna a un controllo su di sé e sulle proprie emozioni per evitare una vita votata alla solitudine e all'infermità fisica.28Anche il ruolo maschile in questo contesto è finalizzato allo scopo di garantire

la solidità della famiglia. Accanto ai numerosissimi testi dedicati alle donne, se ne diffusero alcuni rivolti al genere maschile. Anche in questo caso, si insisteva soprattutto sulla figura del futuro capofamiglia che doveva essere educato adeguatamente a tale compito, andandosi a configurare non più come il “tiranno” che comandava la “schiava” o la “serva”, ma rimanendo il “capo” che aiutava la sposa a rispettare i ruoli e i comportamenti giusti nella e per la famiglia, pur all'interno dei

27 Anna Tonelli, Politica e amore, cit., p.38. 28 Ibidem., 47.

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tradizionali rapporti gerarchici.29 I rapporti matrimoniali erano sempre concepiti ai

fini della procreazione, ma un occhio di ruguardo era rivolto alla soddisfazione dell'istinto maschile. La donna docile e disponibile, sarebbe stata sempre pronta ad accondiscendere al marito. Il fatto che venissero dati espliciti consigli sui comportamenti sessuali, sempre secondo l'analisi della Tonnelli, rispondeva da una parte a una necessità di alfabetizzazione sessuale, dall'altra all'esigenza di entrare in un terreno che, se lasciato incolto, rischiava di finire in balia della controffensiva laica. Le richieste di subordinazione alle autorità, in questo caso all'autorità del marito, si tradussero in bonari inviti alla furbizia e alla tattica, da utilizzare anche per salvare il matrimonio da eventuali insidie esterne, a partire da quelle sessuali. Per far funzionare l'amore, però, occorreva anche il contributo dell'uomo: se la donna era determinante nel non cedere o indurre in tentazione, anche il giovane poteva fare la sua parte e saper scegliere la ragazza giusta; i giovani uomini furono messi in guardia e invitati a diffidare di alcune categorie di donne, in particolar modo di quelle che lavoravano, poiché questa era un'attività che le aveva spinte a “mascolinizzarsi”, vale a dire a negare la propria natura per cercare una parità e un'indipendenza che non si addicevano alla visione cattolica che voleva la donna accanto al focolare.30 Anche la

passione matrimoniale, secondo questi dettami, diventava sinonimo di morigeratezza: chi si lasciava tentare dai sensi, sia uomo che donna, era destinato a far fallire il vero progetto sentimentale al quale tutti e due i coniugi dovevano mirare: l'indissolubilità del vincolo matrimoniale. Se entrambi si fossero mantenuti dentro i confini della “morale” cattolica del matrimonio, l'unità familiare sarebbe stata garantita. E con essa l'egemonia della cultura cattolica, affermata anche attraverso una solida ed efficace

29 Anna Tonelli, Politica e amore, cit., p.47 30 Ibidem., p. 49.

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educazione agli affetti che, grazie al contributo delle associazioni, avrà un riflesso anche sulla stabilità di una classe dirigente impegnata nel difficile compito di offrire una identità morale al Paese.31 La Democrazia cristiana , in altri termini, non

doveva preoccuparsi di educare l'elettorato, di trasmettergli valori e identità, di fornirgli un apparato di integrazione simbolica, perchè a tutto ciò provvide la Chiesa tramite le organizzazioni laicali che governavano direttamente le masse: al partito spettava soltanto tradurre in cifra legislativa e amministrativa le aspirazioni a una società innervata nei suoi gangli vitali dal cristianesimo romano.32

1.3 I partiti della sinistra: Il Partito socialista e il Partito comunista.

Per tutti gli anni '50 si erano succeduti parecchi governi di coalizione centrista, deboli e incapaci di porsi alla guida del paese; già dal luglio 1957, Fanfani andava sostenendo che la Dc avrebbe dovuto “aprire a sinistra” e coinvolgere i socialisti nel governo: un nuovo asse Dc-Psi , sotto il suo controllo, avrebbe potuto costituire una solida base per una programmazione sociale, per un riformismo moderato, per ulteriori interventi pubblici nell'economia; e avrebbe anche contribuito a isolare il Pci.33 Una simile ambizione politica e personale, secondo il già citato Paul Ginsborg,

era destinata a creare ripercussioni. La destra democristiana guidata da Mario Scelba, l'Azione cattolica, la gerarchia ecclesiastica, erano tutti fortemente preoccupati della piega degli eventi. Anche i membri di rilievo di Iniziativa democratica, la stessa corrente di Fanfani, erano divenuti sempre più critici della sua protervia e arroganza: dentro il partito aumentava la sfiducia nei confronti del segretario. Nel gennaio del 1959 il governo Fanfani cadde, e subito dopo egli si dimise da segretario del partito.34

31 Anna Tonelli, Politica e amore, cit., p. 53

32 Silvio Lanaro, Storia dell'Italia repubblicana, cit., p. 98.

33 Paul Ginsborg, Storia d'Italia dal dopoguerra a oggi, cit., p. 345. 34 Ibidem., p.349.

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Venne eletto nel 1959 come nuovo segretario del partito, Aldo Moro; professore di diritto, barese, cattolico fervente, egli era riservato e cortese e profondamente ambizioso; a trent'anni era già deputato, a trentadue sottosegretario al ministero degli esteri. Durante la sua segreteria l' “apertura a sinistra” non fu abbandonata ma sottoposta alla sua particolare strategia di cauto rinvio. La caduta di Fanfani mostrò come il nuovo gruppo dirigente della Dc non avesse praticamente idea di come mettere in piedi una maggioranza di governo affidabile. Nella primavera del 1960 il presidente della repubblica Giovanni Gronchi designò un democristiano di secondo piano, Fernando Tambroni a formare il nuovo governo, improntato sulla politica di “legge e ordine” dal marcato stampo di ideali fascisti, che provocò disordini e la caduta del governo . Gli anni successivi furono caratterizzati da un lento avvicinamento tra democristiani e socialisti.35

Dopo la sconfitta alle urne del 1948 i socialisti italiani vissero per anni in quella che può essere a buon diritto definita una vera e propria liberazione politica. Nella tornata elettorale del 1953 il partito presentò una propria lista separata dal Pci, ottenendo un lieve aumento dei propri consensi; nonostante ciò, non furono mai capaci di stabilire una loro autonomia politica. Le ragioni secondo Ginsborg, nell'opera Storia dell'Italia dal dopoguerra a oggi, erano innumerevoli. In una fase in cui il mondo appariva sempre più diviso in due, toccava al Pci rappresentare ufficialmente il blocco socialista, e fintanto che il Psiup rimaneva filosovietico aveva scarse possibilità di non differenziarsi dall'altro partito. I socialisti, per di più, erano fortemente consapevoli di quanto fosse costata la precedente rottura del

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1922.36Il segretario del partito, Pietro Nenni, non si stancava mai di ripetere

l'importanza dell'unità del proletariato, tanto che durante il 1945 e all'inizio del 1946 vi fu una seria possibilità che comunisti e socialisti si fondessero in un solo partito. A Nenni, comunque, per portare avanti il suo progetto, mancavano le qualità di un grande dirigente politico, e quindi fu incapace di tenere assieme un partito facendolo diventare una “grande chiesa” di opinioni socialiste. Ogni anno, però, rinnovava il patto d'unità con il Pci, anche se in concreto, unità significava subordinazione. Questa subordinazione non si evidenziava solo nella chiara inferiorità numerica e organizzativa del Psi rispetto al Pci, ma anche dalla mancanza di autonomia a livello strategico, tanto che l'inestimabile dote dell'unità della sinistra era accompagnata dalla più incerta virtù dell'unanimismo, riferito in particolar modo al dogmatismo incontrastato che regnava nel partito socialista negli anni Cinquanta.37 Al XXXIV

Congresso del Psi, tenutosi a Milano nel marzo 1961, Nenni e i fautori dell'alleanza di governo con la Dc riportarono, tuttavia, una significativa vittoria. Secondo il segretario socialista, per instaurare il socialismo in Italia era necessario far cadere gli interessi dei conservatori e dei reazionari, ma per far questo occorreva delineare una precisa strategia politica e una decisa morale socialista, che passava inevitabilmente, anche, attraverso la rivalutazione dei ruoli di genere.

Per quanto riguarda la definizione dell'etica socialista, il contributo delle riflessioni di Antonio Gramsci sui temi dell'educazione e della famiglia fu fondamentale. Già negli scritti giovanili, egli sfiorava le questioni amorose e familiari, inserite in un contesto più ampio che partivano dalla centralità del proletariato, traendo origine

36 Anna Tonelli, Politica e amore, cit., p.112. 37 Ibidem, p.117

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