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83 Paul Ginsborg, Storia d'Italia dal dopoguerra a oggi. cit., p.414. 84 Ivi.

Il concetto di società civile è molto recente e al tempo stesso molto antico. Nel sel senso classico del termine, la società civile si identificava con la società politica, a differenza della società naturale, che ne restava fuori. Nel processo di formazione della cultura di massa in Italia, hanno svolto un ruolo fondamentale varie caratteristiche di lunga durata. Una di queste, dal contenuto fortemente negativo, è senz'altro il familismo.86 Il termine di “familismo amorale” venne coniato dal

politologo statunitense Edward Banfield nel 1958 per definire l'atteggiamento dei contadini da lui studiati in Basilicata. L'estrema arretratezza della sociatà locale poteva essere spiegata secondo la sua analisi con “l'incapacità degli abitanti di agire insieme per il bene comune o per qualsivoglia fine che trascenda l'interesse materiale immediato della famiglia nucleare”.87 Banfield definì questo atteggiamento,

sostenendo che l'effetto paralizzante causato da un'eccessiva focalizzazione sul gruppo familiare non era caratteristico solo delle zone della Basilicata, ma anche di tanti altri territori del Mezzogiorno. Le tesi di questo studioso vennero fortemente criticate, ma il concetto di familismo sopravvisse alla polemica, proprio perchè toccava una corda importante non solo per un Sud arretrato e primitivo, ma anche per l'intera penisola in una fase di grande trasformazione socioculturale. Il familismo si rivelava un fenomeno non tanto e non solo rurale e arcaico, destinato a sparire in seguito a una modernizzazione all'americana, quanto squisitamente urbano e moderno.88 Nel caso italiano la forza dei legami familiari, laddove si intrecciava con

la relativa debolezza della società civile e con una profonda sfiducia nei confronti dello Stato, consentiva al familismo non solo di sopravvivere ma di prosperare nella

86 Paul Ginsborg, L'Italia del tempo presente. Famiglia, società civile, Stato. Einaudi,Torino, 1998, p. 185. 87 Ivi.

sua forma moderna andando a delineare una chiusura dei rapporti sociali di ogni singolo nucleo familiare con il resto della società.89

Gli anni del “miracolo” furono il periodo-chiave di uno straordinario processo di trasformazione che toccò ogni aspetto della vita quotidiana: la cultura, la famiglia, i divertimenti, i consumi, perfino il linguaggio e le abitudini sessuali. Questa trasformazione, naturalmente, non fu immediatamente né tantomeno uniforme. Negli anni dal 1950 al 1970 il reddito procapite in Italia crebbe più rapidamente che in ogni altro paese europeo. Pressate da una pubblicità fino allora sconosciuta, le famiglie italiane, sopratutto nel Nord e nel Centro, spesero le nuove ricchezze nell'acquisto di beni di consumo durevoli mai posseduti in precedenza. Se nel 1958 solo il 12 per cento delle famiglie italiane possedeva un televisore, con il 1965 la percentuale salì al 49.90 Aumentò il numero di coloro che possedevano automobili private e anche le

abitudini alimentari cambiarono radicalmente: per carne e latticini si spese più che in passato. Pure il modo di vestire degli italiani cambiò: le donne del Sud cominciarono ad abbandonare il tradizionale vestito di color nero per indossare giacche, vestiti e calze prodotte in serie; per la prima volta la maggior parte degli italiani poteva comprarsi calzature adeguate. Questi miglioramenti del tenore di vita furono accolti con enorme soddisfazione. Occore sottolineare, secondo Ginsborg, che il modellodi sviluppo italiano, era carente sul piano dei valori collettivi. Lo Stato aveva svolto un ruolo importante nello stimolare il rapido sviluppo economico, ma aveva poi fallito nel gestirne le conseguenze sociali. In assenza di pianificazione, di educazione al senso civico, di servizi pubblici essenziali, la singola famiglia, sopratutto quella dei

89 Paul Ginsborg, L'Italia del tempo presente, cit., p.191. 90 Paul Ginsborg , Storia d'Italia dal dopoguerra a oggi, p.325.

ceti medi, cercò una alternativa nella spesa e nei consumi privati: usando la macchina per andare a lavoro, recandosi dai medici a pagamento, mandando i figli negli asili privati. Il “miracolo” si rilevò un fenomeno essenzialmente privato, affermando la tendenza storica di ogni famiglia italiana a contare quasi esclusivamente su se stessa per il miglioramento delle proprie condizioni di vita.91 Nessuna novità ebbe in questi

anni un impatto più grande sulla vita di tutti i giorni della televisione. Nel 1954, anno della sua comparsa, vi erano pochi abbonati, passando ad un elevata percentuale nel 1965. La televisione, come ovunque in Europa, era un monopolio di Stato; in Italia era controllata dalla Democrazia cristiana e pesantemente influenzata dalla Chiesa. Negli anni dal 1954 al 1956 Filiberto Guala, esponente dell'Azione Cattolica, fu presidente della Rai, e impose un rigido codice di condotta al nascente servizio televiso. I programmi non dovevano “recare discredito o insidie all'istituto della famiglia”; né raffigurare “atteggiamenti, pose o particolari che sollecitino bassi istinti”.92 Vi erano programmi regolari di educazione religiosa , mentre le notizie e i

servizi contenevano pregiudizi fortemente anticomunisti. Musica leggera, varietà, quiz e avvenimenti sportivi erano i programmi più diffusi. In nessun settore i tentativi di controllare i contenuti della televisione furono tanto espliciti come nella pubblicità. Costretta a scegliere tra l'inondazione pubblicitaria del modello americano, la Rai inventò una forma tutta sua di réclame, raggruppando tutti i messaggi pubblicitari in un programma di mezz'ora chiamato Carosello che veniva trasmesso nell'ora di maggiore ascolto, appena terminato il giornale della sera.93 La televisione diventando

fenomeno di massa alla fine degli anni '50, fornì una potente arma alla Democrazia

91 Paul Ginsborg, Storia d'Italia dal dopoguerra a oggi, cit., p.326. 92 Ibidem, p. 327.

cristiana per l'indottrinamento delle masse. Inizialmente, il guardare la televisione costituiva una forma di intrattenimento collettivo: gli apparecchi privati erano un privilegio per ricchi, mentre le televisioni dei bar divennero, specialmente nella aree contadine , un momento cruciale di ritrovo. Progressivamente, il carattere fondamentalmente atomizzante della televisione si impose. Man mano che le famiglie si dotavano di un proprio apparecchio, l'abitudine di guardare la televisione al bar o dal vicino di casa tendeva a scomparire; nei nuovi palazzi alle periferie della città, ognuno guardava la televisione a casa propria. Questo impressionante sviluppo accentuò naturalmente la tendenza a un uso passivo e familiare del tempo libero, a scapito, di conseguenza, dei passatempi a carattere collettivo e socializzante.94

Proprio sulla tv, però, la stampa comunista incentra di più l'attenzione; asserragliandosi su una posizione tutt'altro che aprioristica di condanna del nuovo mezzo di comunicazione di massa, ma anzi condividendone la funzione “lirica” che esercita.95 Contraddittoriamente alla rigida morale comunista, la televisione

esercitava un certo fascino, sopratutto tra le donne,considerata spesso una presenza consolatoria e rassicurante. Secondo la rivista dell'Udi, “Noi Donne”, se talvolta può apparire istruttiva con programmi di tipo educativo, la televisione “rilassa, diverte, regala un momento di svago alle famiglie.”96 Alla rigidezza dei modelli di

comportamento proposto agli attivisti corrisponde, però, altrettanta morbidezza quando ci si rivolge non solo alle compagne, alle militanti, ma si cerca di coinvolgere strati più vasti di donne. Per stabilire un colloquio costruttivo con loro, era evidentemente considerato più efficace alternare messaggi di tipo pedagogico ad

94 Paul Ginsborg, Storia d'Italia dal dopoguerra a oggi, cit., p.328. 95 Maria Casalini, Famiglie comuniste. cit.,p. 297.

atteggiamenti più permissivi, su cui basare la ricerca di ampie forme di consenso. Secondo l'analisi di Maria Casalini nel libro Famiglie comuniste, il progetto che sottende l'apparente accoglienza positiva delle trasmissioni televisive sul giornale dell'Udi, sarebbe stato quello di incoraggiare, attraverso una condivisione del tempo libero, una comune piattaforma di dialogo fra donne, in un momento in cui una delle frustrazioni più condivise delle mogli, sia borghesi che proletarie, era quella di non avere mai momenti di intimità con i mariti: della televisione, le italiane, si prospettavano infatti come le migliori alleate. Il piccolo schermo, poco ma sicuro, se non era di per sé una presenza che stimolava la conversazione, si sarebbe rivelato come lo strumento più efficace, forse l'unico, per far sì che i loro uomini non passassero regolarmente le serate al bar o all'osteria.97

Assieme all'avvento della televisione, l'accresciuta mobilità costituì probabilmente la novità più rilevante nell'utilizzazione del tempo libero; per i ceti medi e gli strati superiore della classe operaia settentrionale, le scampagnate domenicali in macchina divennero presto un'abitudine. Le gite in tram delle famiglie operaie torinesi dei primi anni '40 erano finite per sempre: genitori e figli adesso salivano sull'utilitaria per recarsi in campagna o in montagna, e in estate al mare. La quantità di ferie pagate aumentò lentamente ma significativamente, e insieme ad essa la tendenza a viaggiare. Il regionalismo italiano, così forte e tenace, cominciò a smorzarsi man mano che l'esercito motorizzato del “miracolo” si riversava sulle nuove arterie della penisola.98

Un cambiamento notevole, però, si ebbe anche all'interno della famiglia; l'istituzione basilare della società italiana. La dimensione media dei nuclei familiari era scesa dai

97 Maria Casalini, Famiglie comuniste. cit.,p.303.

4 membri del 1951 ai 3,3 del 1971.99 Questo declino era più marcato nelle aree nord-

occidentali fortemente ubanizzate ed era proprio la forte urbanizzazione, la causa del crescente isolamento che portava la maggior parte delle famiglie ad adottare un atteggiamento di chiusura verso la società esterna100. Soprattutto per gli emigrati

meridionali, la mancanza di festività collettive, della piazza come luogo d'incontro, di rapporti intrafamiliari, costituì un cambiamento profondo rispetto al passato; se da un lato la privacy offerta dalle strutture urbane settentrionali si presentava così come una vera liberazione, dall'altra ogni unità familiare tendeva a rinchiudersi in se stessa, ed era meno aperta a una vita comunitaria o a forme di solidarietà intrafamiliare.101 Ai

giovani la vita urbana offriva parecchie opportunità che prima erano loro negate. Se la famiglia nucleare diventava più nettamente e distintamente caratterizzata rispetto all'insieme della società, le nuove generazioni godevano di una maggiore libertà sia dentro che fuori la famiglia. Il carattere autoritario interno alla famiglia divenne meno rigido, e così pure il controllo del padre (il capofamiglia) sulle finanze familiari. Fuori di casa i giovani trovarono che le costrizioni della vita rurale stavano scomparendo: c'era una maggiore libertà, nuovi passatempi, e spazio per nuove ambizioni. Gli anni '60 segnarono anche una svolta nel ruolo della donna all'interno della famiglia. Con il nuovo accento posto sulla vita di casa e sui consumi, un maggior numero di donne si ritrovò casalinga a tempo pieno. Toccava a loro soprattutto nelle regioni del Nord, dedicarsi ai figli che passavano sempre più anni a studiare; loro era anche il compito di occuparsi dei bisogni del marito il cui orario di lavoro giornaliero, tra straordinari e spostamenti, ammontava spesso a dodici-

99 Paul Ginsborg, Storia d'Italia dal dopoguerra a oggi, cit.,p.330 100 Ivi.

quattordici ore.102 Le riviste femminili e la pubblicità televisiva dell'epoca esaltavano

questa nuova figura di donna moderna “tutta casa e famiglia”, vestita con cura, i figli bene in ordine, e una casa splendente piena di elettrodomestici.

La quantità di forza-lavoro femminile decresceva, confermandosi una tra le più basse in Europa; specialmente per le donne tra i 30 e i 49 anni, che solo in rari casi riprendevano a lavorare regolarmente dopo essersi sposate e aver cresciuto i figli. L'esodo verso le città diede indubbiamente alle donne maggiore libertà e autonomia in una serie di occasioni, sopratutto alle giovani del Nord che erano riuscite a trovare un impiego a tempo pieno. D'altronde l'idealizzazione del ruolo di casalinga così tipico degli anni '60 ebbe anche l'effetto di segregare le donne all'interno della loro vita privata, allonatanandole ancora di più dalla vita politica e pubblica del Paese.103

Per quanto riguarda invece le abitudini sessuali, nel periodo del “boom” l'Italia continuava ad essere una società piena di tabù rispetto al sesso: le regole restrittive della morale ufficiale, che nel Nord si andavano incrinando abbastanza rapidamente, nel Sud continuavano a persistere e si intrecciavano profondamente alle regole dell'onore. Agli inizi degli anni '60, si avvertirono i primi segnali di un atteggiamento più aperto: timide discussioni sul sesso prematrimoniale appervero su alcune riviste femminili. Le prime crepe nella morale ufficiale erano apparse, ma occoreva almeno un altro decennio prima che le abitudini sessuali conoscessero un mutamento rilevante a livello di massa.

102 Paul Ginsborg, Storia d'Italia dal dopoguerra a oggi, cit., p. 331. 103 Ibidem., p.332.