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Capitolo 2. Il femminismo degli anni Settanta

2.6 Verso una nuova presa di coscienza dell'identità di genere

Per molte donne italiane gli untimi vent'anni del Novecento hanno segnato un profondo mutamento della loro identità sociale. Le trasformazioni dell'economia italiana, in particolare la crescita del settore dei servizi e soprattutto dello stato sociale tra la fine degli anni '70 e l'inizio degli anni '80, avevano offerto alle donne possibilità di impiego in precedenza inesistenti. Grazie ad una serie di circostanze positive molte donne riuscirono a cogliere tali opportunità: erano più istruite di quanto non fosse mai accaduto in precedenza; la legge storica del 1977 sulla parità di trattamento fra donne e uomini che indicava la necessità di “azioni positive” contro la discriminazione, avevano aperto settori del mercato del lavoro che fino a quel momento erano loro preclusi; infine le donne avevano meno figli, quantunque resti controverso se questa fosse una causa o una conseguenza della crescita dell'occupazione femminile. 197

Entrarono allora in crisi i modelli tradizionali di differenziazione tra i sessi. L'immagine dell'uomo come individuo con un livello superiore di istruzione, principale sostegno economico della famiglia, figura privilegiata nell'accesso al mondo pubblico del lavoro, e quello della donna meno istruita, madre e casalinga, iniziarono a confondersi. Le donne molto più che nel passato, cominciarono a uscire da una vita domestica esclusiva, e pochi aspetti della modernità avrebbero prodotto un maggior senso di liberazione e insieme altrettanta angoscia.198

L'espansione dei servizi sociali e della pubblica istruzione consentì l'ingresso in

197 Paul Ginsorg, L'Italia del tempo presente. Famiglia, società civile, Stato 1980-1996, Einaudi, Torino 1998, p. 68. 198 Ibidem., p.69.

massa di donne qualificate in ruoli di responsabilità e di cura. Uno sguardo più ravvicinato alle professioni e ai posti di lavoro più prestigiosi nel settore dei servizi rivela, però, la loro natura di genere. Nelle professioni, la presenza femminile tendeva a concentrarsi in settori o funzioni particolari, meno prestigiose e remunerate. Spesso erano le donne stesse a compiere questa scelta perché ritenevano quel tipo di lavoro più congeniale alle loro attitudini, o preferivano un orario meno pesante e più flessibile. In magistratura, ad esempio, le donne si trovavano soprattutto nei tribunali dei minori o tra i magistrati di sorveglianza. In alcune professioni, come il giornalismo, le donne erano scarsamente rappresentate. In altre di recente formazione, come la ricerca nei settori a tecnologia avanzata, il predominio maschile era pressoché assoluto. 199 La maggior parte delle donne, infatti, doveva sostenere una

doppia presenza, al lavoro e a casa; doveva occuparsi della famiglia e al tempo stesso mostrarsi all'altezza del proprio compito in ambito lavorativo. La loro dimensione era quella che un gruppo di ricercatrici ha definito “l'ambiguità della non-scelta”200, il

costante sacrificio dell'una o dell'altra sfera senza raggiungere una piena soddisfazione in nessuna della due. I vincoli di tempo e di spazio le escludevano da molte delle posizioni più elevate nelle aziende e nelle professioni; era semplicemente impossibile occuparsi della madre anziana o dei figli piccoli e al tempo stesso piegarsi alle inesorabili esigenze dei circuiti economici internazionali. Le donne più qualificate si trovavano sempre più spesso di fronte a queste scelte difficili, e non c'erano intelligenza né energia sufficienti a celare la tensione. 201 La grande

maggioranza dei nuovi posti di lavoro occupati dalle donne, quindi, non era

199 Paul Ginsborg, L’Italia del tempo presente, cit., p.71. 200 Ivi.

manageriale né professionale. La crescente importanza del settore dei servizi comportava un aumento dell'offerta di lavoro per impiegate, dattilografe, segretarie, commesse, e così via. Anche nell'industria persisteva una considerevole occupazione femminile, ad esempio nei settori tessile, dell'abbigliamento e della ceramica. La tendenza dominante, tuttavia, portava le donne a occupare i gradini medio-bassi nel settore dei servizi sia al produttore sia alla domanda e al commercio finali. Immancabilmente, i loro capi erano uomini.202

L'indipendenza economica della donna, quindi, rimaneva ancora molto difficile: “La donna non è più disposta ad accettare il ruolo subalterno che da sempre la società creata dagli uomini le riserva”. “Si, vogliamo essere considerate alla stessa stregua degli uomini anche sul posto di lavoro”. Queste e altra dichiarazioni dello stesso tenore rimbalzano negli ultimi tempi da una pagina di giornale all'altra: le donne si stanno muovendo. Anche in Italia i movimenti femministi stanno guadagnando terreno. In numerosi convegni e manifestazioni si sostiene la necessità dell'emancipazione femminile. Ma l'emancipazione passa solo attraverso l'indipendenza economica dall'uomo. Oggi, la donna italiana è davvero emancipata? Cioè quale inserimento ha nella vita economica del nostro paese? Sentiamo innanzi tutto che dicono le cifre ufficiali. Agli inizi del secolo in Italia lavorava il 32% delle donne, alla fine degli anni Cinquanta la percentuale è scesa al 25%, oggi è arrivata a toccare il 17, 7%. Questa cifra rappresenta il valore più basso tra le nazioni della Comunità europea! In Germania, infatti, sul totale della popolazione femminile le donne che lavorano rappresentano il 34%, in Francia il 41%, in Svizzera il 27,4%, in Finlandia il 43%, in Belgio il 38,9%, in Svezia il 29,7%. [..] In Italia, per tradizione, per il permanere di ideologie religiose borghesi, non si chiede alla donna di impegnarsi attivamente nella vita economica e sociale del paese. Le si chiede di essere pronta ad ogni sacrificio, di lavorare come e più

dell'uomo, ma sempre nell'ambito della cerchia domestica e familiare. 203

La dirigente comunista, Adriana Seroni commentava in un articolo pubblicato su “Rinascita”, la condizione della donna anche a livello occupazionale:

Se guardiamo al complesso delle rivendicazioni che oggi sono avanzate dalle masse femminili, è facile capire quanto esse implichino cambiamenti di valori, di punti di riferimento, di scelte di priorità della società. Basta pensare cosa significa riconoscere veramente il valore sociale della maternità, con tutto quello che implica nel campo delle idee, della organizzazione sociale, dei consumi, dei servizi sociali, per capire che tutto questo non può cambiare se la società non si caratterizza con nuove scelte. Anche il tema del “potere” delle donne, del loro contare di più, può venire avanti se vi è un processo di democratizzazione profonda dello Stato, di decentramento democratico che consenta alle donne, anche alle meno abituate ad esercitare una funzione nella vita politica, di partecipare in qualche modo alla direzione della cosa pubblica.

Tutto questo presuppone che le donne siano profondamente cambiate.

-Ma sono cambiate. Questo è il punto. Siamo oggi di fronte a una donna che ha complessivamente assunto maggiore consapevolezza di sé, che ha volontà di cambiare la propria condizione, che desidera pesare e contare nella società. Perché le donne sono tanto cambiate? Credo che commettano un errore coloro che non vedono su questo cambiamento l'incidenza di processi complessivi di crescita democratica della società. Ma sbaglia anche chi non vede l'incidenza degli sviluppi della ricerca scientifica, mi riferisco come esempio alla scoperta del modo di controllare la procreazione, il che ha aperto alle donne un nuovo tema di riflessione e di pensiero: come rendersi responsabili di fronte a un fatto così importante. E poi gli sviluppi della tecnica, delle comunicazioni di massa, cioè tutti cambiamenti rapidi intervenuti nella società, che hanno dimostrato alla donna che il mondo può cambiare e può cambiare alle sue condizioni.

È indispensabile che tutte le forze democratiche si rendano conto di quanto la donna è

cambiata, di quali siano i fattori che hanno concorso a questo cambiamento, di quanto la spinta dell'emancipazione femminile sia diventata una spinta oggettiva della società e quindi siano portate a una riflessione sulle risposte che ad essa vanno date.204

Anche da parte della Democrazia cristiana, le riflessioni riguardanti la condizione femminile non mancavano. Al Convegno del Movimento femminile della Dc che ebbe inizio nel Gennaio del 1975, la senatrice Franca Falcucci aveva inquadrato l'iniziativa “Oltre il femminismo, per una nuova condizione della donna”, nel contesto dell' Anno internazionale della Donna indetto dall'Onu nel 1975; e si era richiamata alla Resistenza e al contributo a essa dato dalle donne italiane, come fondamento di un significativo processo che aveva visto una crescente presa di coscienza da parte delle donne negli ultimi trent'anni del XX secolo. 205 Nello

specifico, riconoscendo ai movimenti neo-femministi il contributo positivo dato nel senso di “inquietare” la società sul problema della donna, Franca Falcucci definì tuttavia, inadeguate le tesi neo-femministe, perché mantenute nell’ambito di una posizione individualistica del problema; al contrario, la questione femminile era prettamente questione sociale e poteva risolversi solo in tale dimensione.206

La lotta per l'emancipazione femminile, però, sarebbe stata ancora lunga e difficile: Non bisogna dimenticare che i primi assalti contro il “sistema” cioè contro l'insieme di leggi di Napoleone per convalidare l'assoluta soggezione della donna all'uomo, in famiglia e in società, in nome delle cosidette “virtù borghesi”, sono stati lanciati non meno di un secolo fa. Ma non bisogna nemmeno dimenticare come per la donna, che aveva trovato il suo più valido alleato nel movimento socialista, sia stato assai più facile ottenere il riconoscimento di alcuni diritti sociali che quello di alcuni diritti familiari. È così che qui da noi in Italia, per esempio, la donna ha ottenuto già da molti decenni il

204 Adriana Seroni, Come sono cambiate le donne, in “Rinascita” , 1974, 45, p. 10-11. 205 Cfr., La Dc e la condizione femminile in “Noi donne”,1975, n,5 p. 9.

diritto all'istruzione, il diritto al lavoro, il diritto di disporre liberamente dei suoi redditi personali, mentre solo nel 1970 si è vista riconoscere -sia pure solo nei casi di più evidente e clamoroso fallimento matrimoniale- il diritto di ricostruirsi una vita familiare e sentimentale nell'ambito della legalità. Il divorzio è una conquista che non è stata ancora seguita da quella tanto auspicata riforma del diritto di famiglia -che sancirà l'assoluta parità di diritti, di obblighi, di responsabilità economica e giuridica tra i coniugi, la comunità effettiva dei beni- e che da ben sette anni si sta discutendo al Parlamento italiano senza che si riesca mai a giungere alla sua approvazione.

Una conquista, il divorzio, ripetiamo, che per quanto modesta, è oggi nuovamente in pericolo a causa delle manovre dei gruppi conservatori della Dc e delle destre che hanno imposto il referendum abrogativo alla legge.

I movimenti “femministi” che oggi tendono a definirsi piuttosto “femminili”, quasi a dimostrare il raggiungimento di una maggiore maturità e di una maggiore concretezza, hanno capito che l'emancipazione della donna non si ottiene con degli “atteggiamenti” spesso superficiali e controproducenti, ma con una lotta seria e responsabile a fianco del movimento operaio per colmare l'anacronistico abisso che esiste oggi tra comunità sociale e comunità familiare. Quindi, con la decisa opposizione al tentativo antidivorzista concreatosi nel referendum e alle manovre che tendono a insabbiare il nuovo diritto di famiglia. Perché è nell'ambito della famiglia tradizionale, giuridicamente arretrata, che ha origine l'ingiustizia economica e morale dell'attuale condizione femminile. 207

Capitolo 3

Il Referendum sul divorzio (1974)

3.1 Favorevoli e contrari: la posizione dei maggiori partiti italiani, della Chiesa