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Erano meno di un milione (il 3% sul totale degli occupati) nel 2019 i lavoratori in smart working nelle imprese private in Italia. Prima della pandemia il lavoro agile era una rarità: l’azienda, su motivata richiesta da parte del dipendente, decideva se renderlo disponibile in base alle necessità e alle policy di welfare aziendale. Durante la “fase 1” dell’emergenza da coronavirus, la percentuale di lavoratori “agili” è cresciuta fino al 34% sul totale degli occupati, coinvolgendo circa 7 milioni di lavoratori. Di questi, la maggior parte appartiene al settore privato, mentre circa 2 milioni lavorano nella Pubblica Amministrazione.

A tal proposito, un sondaggio effettuato dall’Ufficio Studi di Confartigianato (2020) ha messo in luce i difficili rapporti tra le PA e le imprese e, nello specifico, ha evidenziato come l’Italia sia fanalino di coda nella speciale classifica della soddisfazione per i servizi pubblici nei maggiori Paesi UE (Germania, Francia e Spagna) prima e durante la pandemia. A livello UE, infatti, gli italiani risultano essere i meno soddisfatti sulla qualità dei servizi pubblici (25%), preceduti soltanto dalla Grecia (24%). Il 54% dei cittadini dell’UE, intervistati durante la pandemia (luglio-agosto 2020) si è detto soddisfatto dei servizi pubblici nazionali.

Figura 7.

Fonte: Ufficio Studi Confartigianato (2020) Resta il fatto che la possibilità di lavorare da casa è stata molto apprezzata da gran parte degli italiani.

Lo smart working, infatti, ha permesso innanzitutto di migliorare il work-life balance, con più tempo libero da impiegare nelle attività domestiche, nella tutela del benessere personale e familiare.

L’Osservatorio Nomisma-CRIF “The World after Lock-down” ci dice che per il 17% degli intervistati il rispar-mio economico e di tempo generato dal mancato spostamento sono stati i principali vantaggi del lavoro agile, per un altro 13% i “pro” risiedono semplicemente nell’avere più tempo libero a disposizione per i propri hobbies o per la famiglia.

Altri elementi particolarmente apprezzati ricadono nella sfera “manageriale”: maggiore autonomia (14%) e flessibilità (12%) nella gestione dei carichi di lavoro.

Ma il lavoro a distanza ha anche dei lati oscuri. Per alcuni, infatti, ha comportato un incremento delle ore lavorate (28%) e notevoli difficoltà nel separare lavoro e vita personale (il 21% sostiene di non riuscire a stacca-re la mente dal lavoro, mentstacca-re il 25% ha avuto problemi di comunicazione con i colleghi). Tutto ciò comporta spesso anche un senso di solitudine e di isolamento (come confermato dal 22% degli intervistati).

Sempre secondo i dati dell’Osservatiorio, per molti il problema è stato opposto: in una casa priva di una stanza dedicata al lavoro (ovvero, nel 20% dei casi), af-follata da altri familiari o da condividere con i figli picco-li (il 31% ha condiviso gpicco-li spazi di lavoro con figpicco-li under 12), i problemi di concentrazione sono stati l’ostaco-lo principale. Questo è vero per il 23% dei degli smart workers e il 31% delle lavoratrici. La quota più elevata di chi lamenta aspetti negativi legati al lavoro da re-moto, infatti, è più elevata tra le donne e fa tornare alla luce vecchie disparità, che vedono le madri lavoratrici farsi carico della maggior parte delle incombenze do-mestiche e portano a considerare che lo smart work-ing favorisca maggiormente gli uomini. A conferma di tale tesi: alla domanda “smart working sì o no?” il 15%

delle donne è per il no (solo il 9% della controparte di sesso maschile si esprime allo stesso modo).

Nel 2021 il 16% dei lavoratori italiani, ovvero circa 3 milioni di occupati, ha svolto ameno una giornata di lavoro da remoto11. È opinione comune che il lavoro agile tenderà a diventare un fenomeno strutturale e questo dovrà comportare necessariamente un forte cambiamento in tutti i soggetti coinvolti, dai lavoratori alle imprese alle istituzioni fino ai sindacati.

NOTE

Fonte: Osservatorio Nomisma-CRIF “The World after Lockdown” (2021)

Il primo passo verso uno smart working meno emergenziale e più efficace viene dai risultati dell’indagine e riguarda la formazione: il 74% degli italiani evidenzia l’immi-nente necessità di ricevere una formazione sulle potenzialità dello smart working e sulla digitalizzazione del lavoro. Questi ultimi rappresentano infatti un’enorme op-portunità per le aziende, secondo il 58% degli italiani. Perché il lavoro agile sia una vera opop-portunità, dovrebbe però essere rimodulato, lasciando al lavoratore stesso la possibilità di decidere se, quando e dove effettuarlo (lo pensa il 61% delle famiglie).

Si prevede comunque per l’Italia che i professionisti operanti in mobilità raggiungeranno entro la fine 2022 la soglia dei 10 milioni.

Mobile workers 2017/milioni di lavoratori stima 2022/milioni di lavoratori

Europa Occidentale 103,0 122,0

Italia 6,5 10,0

Tabella 9.

Fonte: Eurostat 2018 e IDC

In termini di work-life balance, sono proprio le donne a necessitare il più delle volte contratti flessibili ed adattabili alle necessità imposte da società in cui la paternità non viene nella maggior parte dei casi mini-mamente presa in considerazione e dove troppo spes-so la maternità viene ancora vista come un brusco fre-no allo sviluppo in ambito professionale. Il problema è che molte aziende hanno ancora difficoltà a concepire la convenienza dello smart-working e, quindi, sono in molti casi restie a concedere flessibilità e contrat-ti part-contrat-time, che rappresentano oggi una delle poche soluzioni possibili per i nuclei familiari con figli in cui lavorano entrambi i genitori. In molti paesi lo scoglio da oltrepassare è soprattutto di natura culturale, pi-ochè in troppe aziende ancora vige la regola che va premiato chi lavora più ore e non chi è più produttivo.

In Italia, se consideriamo i dati che tengono conto del numero di ore lavorate sulla retribuzione mensile lorda (Gender gap adjusted), la differenza in busta paga fra uomo e donna è del 23,7% contro una media europea del 29,6%.

Questo gender pay gap, quantificato a circa il 16% al livello europeo –, sono l’esito dell’accumulo di una se-rie di svantaggi che penalizzano le donne nel percorso professionale. Fra i più persistenti a livello strutturale si trova la diseguaglianza nella gestione dei carichi famil-iari: come abbiamo visto, infatti, spesso le donne non vogliono rinunciare alla carriera, ma hanno difficoltà a conciliare vita familiare e vita lavorativa; a volte scel-gono di adottare strumenti di flessibilità tradizionali – come il part time – che le portano però ad essere escluse dai percorsi di carriera.

Il divario retributivo fra donne e uomini fornisce un quadro generale delle diseguaglianze di genere in

ter-mini di paga oraria. Parte delle differenze di retribuz-ione si possono spiegare con le caratteristiche indi-viduali delle donne e degli uomini occupati (per es.

esperienza e istruzione) e con la segregazione di ge-nere a livello occupazionale (per es. ci sono più uomini che donne in alcuni settori/occupazioni con retribuzi-oni mediamente più alte rispetto ad altri settori/occu-pazioni). Di conseguenza il divario retributivo è legato a svariati fattori culturali, legali, sociali ed economici che vanno molto oltre la mera questione di un'uguale retribuzione per un uguale lavoro.

Le donne in Italia tendono a fare meno carriera e sof-frono ancora di una distribuzione meno favorevole ris-petto ai mestieri e ai settori con le retribuzioni più alte.

Sono meno presenti nel mondo della finanza, tra i top manager, in politica e nelle prfessioni legate alle nuove tecnologie. Questo gender gap genera inevitabili rica-dute negative sull’economia del nostro paese e i dati dimostrano che gli uomini guadagnano in media circa 2.705 euro l’anno più delle donne: è come se le donne cominciassero a guadagnare, rispetto ai colleghi maschi, solo a partire dalla seconda metà di febbraio.

E questo "ritardo" genera coseguenze che vanno oltre la vita lavorativa: il 52,2% dei pensionati, infatti, sono donne, ma ricevono il 44,1% della spesa complessiva.

Questa situazione rallenta inevitabilmente la crescita economica italiana ed ha come conseguenza indiretta ed immediata l’abbassamento allarmante del tasso di fecondità e l’alzamento dell’età dei neo-genitori.

L’altra faccia della medaglia, però, è la partecipazione economica, che ci vede scivolare al 114esimo posto, fra le maglie nere a livello europeo. Nell’ultimo rappor-to del WEF – World Economic Forum viene evidenziarappor-to

come, nonostante l’Europa occidentale abbia raggiun-to una percentuale del 70% della chiusura del gap nel sotto indice economico, «ci sono 24 punti percentu-ali fra l’Islanda con l’84,6% (la prima nella classifica globale, ndr) e l’Italia con il 61,9%, il livello più basso della regione». Va sottolineato però, come sottolinea sempre il report del WEF, i dati che compongono l’in-dice di quest’anno non fotografano ancora appieno gli effetti della pandemia sull’economia.

D’altra parte i problemi del lavoro femminile sono noti e sono stati più volte sottolineati anche dal premier Mario Draghi: basso tasso di occupazione (in Italia lavora meno di una donna su due), alta percentuale di contratti part time (49,8%), elevata differenza salariale (stimata nel 5,6% dal Wef, ma per altre rilevazioni Eu-rostat al 12%), mancata possibilità di carriera (solo il 28% dei manager sono donna, peggio di noi in Europa solo Cipro) e accesso a formazione Stem (16% delle donne contro il 34% degli uomini).

Differenze uomo-donna per Cluster professionali %Uomini %Donne

Cloud Computing 88,0 12,0

Ingegneria 85,0 15,0

Analisi dati & I.A. 74,0 26,0

Svilppo Prodotti 65,0 35,0

Vendite 63,0 37,0

Generale 61,0 39,0

Marketing 60,0 40,0

Produzione di contenuti 43,0 57,0

People & Culture 35,0 65,0

Tabella 10. Differenze uomo-donna per Cluster professionali Fonte: World Economic Forum, Global Gender Gap Index (2021)

Secondo i dati ISTAT (2021), in Ita-lia le donne presenti nel mercato del lavoro, durante la crisi pandem-ica, stanno subendo grossi svan-taggi. Si riduce il loro tasso di oc-cupazione (da 50% a 48,6%, figura A), si amplia il gap occupazionale tra donne e uomini (da 17,9 a 18,9 punti) e si allarga anche la distanza dalla media europea (figura B).

Le analisi presentate suggeriscono che a essere più penalizzate sono proprio le donne che, prima della pandemia, erano riuscite ad ac-cedere all’occupazione solo attra-verso contratti precari e in settori caratterizzati da un elevato ricam-bio. È ragionevole ipotizzare che tra queste lavoratrici ci sia un’elevata incidenza di donne con un basso livello d’istruzione, al più la licenza di scuola media. E sono proprio queste le donne che l'Italia non è mai riuscita a integrare nel merca-to del lavoro e su cui si dovrebbero concentrare gli sforzi delle polit-iche, se si vuole portare l'occupazi-one femminile almeno in linea con la media europea.

Figura 9. L’evoluzione del tasso di occupazione (15-64) per sesso (%) in Italia nel corso degli ultimi 12 mesi Fonti: Istat, Rilevazione sulle forze di lavoro; Eurostat, database (Labour Force Survey)

67.9

67.5

50.0

48.6

Italia 2019 UE27 2019 Obiettivo di Lisbona 70.0

Figura 10. Il tasso di occupazione femminile (15-64) prima della pandemia: Italia, UE-27 e obiettivo di Lisbona (%)

Fonti: Istat, Rilevazione sulle forze di lavoro; Eurostat, database (Labour Force Survey)

I dati indicati rilevano la necessità di azioni concrete e coraggiose per colmare le diseguaglianze ancora es-istenti.

L'empowerment e l'occupazione femminile sono leve per l'attivazione di questo processo, che richiede pros-pettiva e visione. È quindi necessario, accanto alla promozione della presenza delle donne nel mondo del lavoro, un piano educativo straordinario.

I dati sull'educazione lo confermano: la formazione nelle materie STEM dalla matematica al digitale, è uno snodo fondamentale per abilitare le donne ad essere protagoniste dei lavori del futuro.

Guardando al futuro, quindi, possiamo affermare che la più grande sfida che impedisce di colmare il divario economico di genere è la sotto-rappresentanza femmi-nile nelle professioni emergenti. Nel cloud computing, ad esempio, solo il 12% dei professionisti sono donne.

Allo stesso modo, nelle professioni legate all’ingegne-ria, analisi dei dati ed intelligenza artificiale, i numeri sono rispettivamente del 15% e del 26%.

In Italia, negli ultimi 20 anni, il tasso di occupazione è stato molto altalenante. Nel 2001 infatti era del 56,6%, con un’enorme disparità tra sessi. Il tasso di occupazi-one maschile era al 69,4%, dato più alto rispetto ad oggi, mentre le donne erano al 44%. Dal 2001 in poi il tasso di occupazione femminile è sempre stato in leggera ma continua crescita. Ciò non toglie che, solo nel 2019, si è raggiunto il non così meritorio traguardo

Il futuro del lavoro (stima prossimi 15-20 anni) %

lavori esistenti destinati a scomparire a causa dei processi di automazione 14,0 lavori che cambieranno radicalmente a causa dei processi di automazione 32,0 Tabella 11. Il futuro del lavoro. Stime OCSE 15-20 anni

Fonte: OECD Employment Outlook 2019

di una donna su due al lavoro.

L’Italia però al suo interno ha, come sempre, numerose sfaccettature. Anche il tasso di occupazione non è es-ente da disparità tra Nord e Sud del Paese. A tal prop-osito, il dato totale mette in mostra come le regioni del nord raggiungano livelli totali di occupazione simile ai Paesi più virtuosi d’Europa, con il Trentino Alto-Adi-ge che ha un tasso di occupazione del 71,3% (ISTAT, 2021). La stessa tendenza si vede anche se si analizza solamente il tasso di occupazione femminile in Italia.

Le regioni del Nord sono sempre quelle che hanno i numeri migliori ma, in questo caso, ancora lontani da quelli dei migliori Paesi europei. Prendiamo ad esem-pio la regione italiana più virtuosa da questo punto di vista. Sempre il Trentino Alto-Adige, infatti, ha il miglior tasso di occupazione femminile italiano con 65%. Se lo mettiamo a confronto con i dati europei però, questo risulterebbe essere un tasso da bassa classifica, poco sopra a quello spagnolo. L’Italia quindi, ha una grande disparità regionale, ma anche a livello dell’intero Paese

le azioni da mettere in piedi per migliorare l’occupazi-one femminile sono ancora molte. Anche guardando i dati divisi per provincia vediamo come nessun luo-go in Italia può dirsi soddisfatto del proprio tasso di occupazione femminile. Sempre secondo l’ISTAT, la provincia di Bologna è la più virtuosa d’Italia (68,1%), seguita dalla provincia autonoma di Bolzano (67,9%).

Guardando la cartina sottostante infine, notiamo come ci siano zone d’Italia in cui il lavoro femminile è a livelli decisamente troppo bassi. Nella provincia di Caltanissetta il tasso di occupazione femminile è del 23,6%, non molto distante da Crotone che con 23,9%

è la seconda provincia peggiore del Paese per quanto riguarda l’occupazione femminile.

Inoltre, secondo i dati forniti dal Gender Policies Re-port 2021 dell’Istituto Nazionale per le Analisi delle Politiche pubbliche (Inapp)12, in tutte le regioni italiane i contratti stipulati per le donne sono inferiori a quel-li degquel-li uomini: un terzo del totale in Basiquel-licata, Siciquel-lia e Calabria, meno del 40% in Calabria, Molise, Puglia,

Lombardia, Abruzzo e Lazio. Tutte le altre regioni si collocano tra il 41 e il 46,5%, mentre l’incidenza più elevata si registra, anche in questo caso, in Trentino Alto Adige. Nel Mezzogiorno, quindi, la partecipazione delle donne al mercato del lavoro continua ad essere estremamente bassa. Tra il 2007 e il 2019 il tasso di occupazione 15-64 anni delle donne in Ue è il 63%, in Italia è il 59,2%, nel Sud Italia e nelle isole al al 33,2%13.

Ci sono però anche alcune buone notizie, come ad esempio il caso della regione Veneto, il cui Consiglio regionale ha recentemente approvato una legge per le pari retribuzioni tra donne e uomini14. Oppure l’incidenza nel Mez-zogiorno dei contratti a tempo indeterminato per le donne è superiore alla media nazionale e a quella di diverse regioni del Centro Nord. Meno contratti, quindi, ma più stabili. Emblematico il caso della Campania, che ha 75 mila contratti stipulati di cui il 21,4% a tempo indeterminato. Ma anche in Sicilia il 17,7% dei quasi 60 mila con-tratti stipulati è a tempo indeterminato. La quota della Calabria è addirittura superiore: 18%.

Figura 11. La geografia dell’occupazione femminile nel I semestre 2021 Fonte: Gender Policies Report (Inapp, 2021)