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Una contrapposizione teorica adiacente a quella tra deterministi ed indeterministi che, tuttavia, è necessario tenere ben distinta da quest’ultima, è quella tra compatibilisti/incompatibilisti.

Tanto i primi quanto i secondi tentano di offrire soluzioni convincenti circa la compatibilità del determinismo con il libero arbitrio, rispondendo in modo contrario alle domande: “se l’universo è dominato da leggi causali ed il verificarsi degli eventi ha un corso necessitato, c’è spazio per la libertà? Che ruolo riveste il giudizio morale? Si può essere ritenuti responsabili delle azioni compiute?” Gli incompatibilisti rispondono negativamente affermando che il determinismo impedisce l’esistenza della libertà e che essa, se esiste, è possibile soltanto in un contesto indeterministico.

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Gli incompatibilisti libertari (vi sono, ben inteso, incompatibilisti

anche fra gli indeterministi), assumono nei confronti

dell’indeterminismo un approccio radicale o causale: secondo il primo la libertà si lega all’indeterminismo attraverso una concezione non causale dell’azione; il secondo invece coniuga l’indeterminismo con una concezione causale dell’azione.

5.1. L’ incompatibilismo morale.

Se si riconosce che il determinismo è vero si deve smettere di formulare giudizi morali; questa idea è posta alla base del c.d.

incompatibilismo morale.

Hedenius muove una critica alla morale occidentale, improntata sul valore irrinunciabile del giudizio, condannando il fatto stesso che si condanni.

L’autore ammette che la riprovazione morale, così come l’ira e l’indignazione sono momenti necessari per la vita sociale e ne riconosce l’irrinunciabilità, tuttavia individua una ristretta cerchia di soggetti in grado di liberarsi di questo errato retaggio sociale: le “persone illuminate”.

Una tale impostazione, come rilevato da Ross, sembra piuttosto elitaria nelle conclusioni a cui addiviene, riconoscendo solo in pochi eletti, probabilmente i colti, i dotti, o i possessori di mistiche qualità, la capacità di confrontarsi in maniera corretta con il corpo sociale.

Un’ulteriore critica può essere mossa a tale teoria, cioè di condannare se stessa, nascendo da un giudizio morale.

Se si ammette che le condizioni poste dalla legge morale per condannare non possono essere soddisfatte, è allora contrario alla morale emettere giudizi morali. La condanna della morale colpisce anche se stessa, la condanna del condannare: «È immorale emettere i giudizi morali, riprovevole il riprovare».76

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C’è da chiedersi tra l’altro se Hedenius abbia ragione nel prospettare un mondo del tutto privo di giudizio morale (perché immorale); se un’ipotesi del genere sia giusta, e cioè positiva da un punto di vista valoriale, morale, e se sia possibile. È giusto, in altri termini, non formulare giudizi morali? Qualora sia giusto astenervisi, gli uomini ne sono o ne saranno mai capaci?

Di certo se lo stesso Hedenius qualifica coloro che ne sono capaci come pochi ed “illuminati” il quadro che si prospetta non è in questo senso confortante.

Un autore scettico rispetto alla capacità dell’uomo di rinuciare a formulare giudizi morali è P.F. Strawson.

Secondo Strawson i concetti di libertà, responsabilità sono inscindibili dagli “atteggiamenti reattivi” (reactive attitudes) e dai sentimenti morali, come il risentimento, l’indignazione, la gratitudine, mediante i quali gli uomini rispondono ai comportamenti degli altri individui.

Tali atteggiamenti strutturano socialmente la nozione di

responsabilità77.

Qualsiasi concezione utilitaristica, che fonda la ratio della riprovazione e dell’attribuzione di responsabilità su ragioni esterne ai sentimenti morali reattivi non centra, secondo l’autore, l’origine della responsabilità stessa, la quale nasce proprio dai sentimenti morali e ne è espressione.

Nella nozione di responsabilità non c’è nulla oltre alle pratiche umane. Abbandonare il patrimonio morale di sentimenti reattivi sarebbe, in quest’ottica, non solo irrazionale, ma anche innaturale.

Perfino la prospettiva deterministica più radicale di totale assenza della capacità di scelta comunque non potrebbe alterare il naturale coinvolgimento nella rete degli atteggiamenti reattivi.

77

STRAWSON P.F., Freedom and resentment, in Proceedings of the British Academy, 1962, trad. it. M. De caro, in Il libero arbitrio, (pp.77-116) cfr. M. DE CARO, Il libero arbitrio, cit., p.109.

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La realtà potrebbe essere questa, ma altrettanto convincente è chi sostiene che tali atteggiamenti reattivi non sono poi così naturali e che, se si accettasse come verità conclamata il determinismo causale, abbandonando il dogma dell’irrinunciabilità della libertà, il mondo si trasformerebbe radicalmente e con lui tutta la dimensione umana dell’interazione sociale.

Chi ha forgiato la morale? Chi ha stabilito quali azioni umane siano “giuste” o “sbagliate”?

Nietzsche, come è noto, sostiene che concetti di “buono” e “malvagio” siano stati elaborati dai nobili, dai potenti, dalla classe privilegiata che ha determinato se stessa e le proprie azioni come buone, in contrasto con tutto ciò che è volgare e plebeo.

Il diritto signorile di imporre nomi si estende così lontano che ci si potrebbe permettere di concepire l’origine stessa del linguaggio come un’estrinsecazione di potenza da parte di coloro che esercitano il dominio: costoro dicono “questo è questo e questo”, costoro impongono con una parola il suggello definitivo a ogni cosa e a ogni evento e in tal modo, per così dire, se ne appropriano.78

Il filosofo tedesco, al contrario dell’inglese Strawson, non rintraccia nulla di umanamente connaturato nella formulazione di giudizi morali o, per meglio dire, nel “vocabolario valoriale” che si tende ad identificare come eterno ed immutabile.

Al contrario ne evidenzia la spiccata artificiosità e la strategia politica di dominio retrostante, funzionale all’aristocrazia per affermarsi sula massa.

L’uomo interiorizza la morale sovraccaricando inutilmente la dimensione intima e coltivando oltremodo “l’anima”.

78

F.NIETZSCHE, Zur Genealogie der Moral Eine Streitschirift”, Dreck und Verlag von C.G. Naumann, Lipsia, 1888, trad. F. Masini, La genealogia della morale, , Adelphi, Milano, 1968 e 1984, p. 15.

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Si rivolge impietosamente verso sé stesso con la crudeltà che naturalmente è indirizzata agli altri e celebrando il “culto” dell’auto inflizione di dolore diventa più mansueto per il corpo sociale, viene “incapsulato nell’incantesimo della società e della pace.”79

Esiste un copioso, esorbitante piacere anche dei propri dolori, del proprio farsi soffrire - e tutte le volte che l'uomo si lascia persuadere all'autonegazione in senso "religioso" o all'automutilazione, come accadde tra i Fenici e gli asceti, o in generale a fuggire i sensi, a disincarnarsi, alla contrizione, alle convulsioni penitenziali dei puritani, alla vivisezione della coscienza e al pascaliano "sacrifizio dell'intelletto", è la sua crudeltà ad attirarlo e a incalzarvelo segretamente, è quel pericoloso brivido di una crudeltà rivolta "contro se stesso".80

L’uomo così percepisce “nuovi” sentimenti, primo fra tutti il senso di colpa, che nasce dal sentirsi debitore, dalla “vergogna dell’uomo dinanzi all’uomo”81

che il filosofo chiama cattiva coscienza.

Il “modello della violenza”, dunque, per Nietzsche, non deve essere estinto.

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