La libertà del volere, infatti, non viene reputata fin da subito un elemento fondamentale per la colpevolezza di un soggetto; la teoria
psicologica , ossia quella teoria penalistica in materia di colpevolezza
sviluppatasi in epoca illuministica, identifica la colpevolezza nel nesso psichico che lega il fatto al suo autore nelle forme del dolo e della colpa.
L’influenza delle correnti giuridiche dell’Illuminismo si apprezza nel tentativo di emancipare l’evento lesivo dal nesso “reato-peccato” e nell’aver attribuito alla colpevolezza il ruolo di assicurare un preciso rapporto di connessione tra il soggetto agente e il fatto lesivo dell’interesse tutelato.107
Il fatto è colpevole quando il soggetto agente lo ha voluto o, non
avendolo voluto, avrebbe potuto evitarlo prevedendone la
realizzazione se avesse usato la diligenza richiesta.108
105
G. DE FRANCESCO, Diritto penale I fondamenti, Giappichelli, Torino, 2011, p.337
106 In base alla “teoria tripartita del reato”, quest’ultimo si compone di tre elementi:
fatto tipico; antigiuridicità, ossia assenza di scriminanti e colpevolezza.
La teoria contrapposta, cioè la “teoria bipartita del reato” rintraccia solo due elementi costitutivi: fatto tipico e colpevolezza; essendo l’antigiuridicità contenuta nel fatto tipico.
107
DE CARO, Il libero arbitrio, pag.341.
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Il concetto legato alla volontà che qui viene tenuto in considerazione, riguarda l’appartenenza psichica del fatto all’autore, ma non si spinge oltre, nell’indagine dell’atteggiamento che la volontà ha assunto per fondare la condotta delittuosa.
Non è dunque rilevante se il soggetto potesse o non potesse assumere un atteggiamento diverso della volontà nella commissione del reato, se cioè la sua volontà si sia autodeterminata.
La colpevolezza, dunque, consiste e si esaurisce nel dolo e nella colpa, nessi psichici tra il fatto e l’uomo che, rispettivamente, costituiscono la volontà del fatto stesso (dolo), o la sua prevedibilità (colpa).109
È colpevole chi ha causato psicologicamente l’evento reato, ponendo in essere le condizioni fisiche che hanno portato a quell’evento e agendo quale causa efficiente sul piano psicologico di tale evento.110
Tale concezione ha perseguito senz’altro l’apprezzabile obiettivo di sganciare il diritto penale dalle modalità punitive dell’ancien regime, quindi evitare che il giudice indagasse nella dimensione più intima dell’agente, ricercando lì le ragioni per cui punire e distinguere nettamente l’imputazione morale da quella giuridica.
La concezione psicologica esprime l’esigenza di circoscrivere la colpevolezza all’atto di volontà relativo al singolo reato, a prescindere da qualsiasi valutazione circa la personalità dell’agente e delle ragioni intime che sorreggono la condotta.111
I nessi psichici, dolo e colpa, sono legati al singolo agente in base a criteri generali ed astratti, di conseguenza sono sempre identici a loro stessi.
È doloso il fatto commesso volontariamente, e lo è allo stesso modo per tutti gli uomini, indistintamente, così come è colposo, quel fatto
109 F. MANTOVANI, Diritto penale, Cedam edizioni, Firenze, 2015, p.281 110
M. DEL RE, Colpevolezza e colpevolizzazione, Jovene, Camerino,1976p.69.
111
G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto penale Parte generale, Zanichelli Editore, Bologna,2014 p.331
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prevedibile e posto in essere non osservando le regole dell’ordinaria diligenza.
Se però risulta agevole configurarsi astrattamente il nesso psichico del dolo, la colpa crea numerosi problemi.
Sorge infatti la questione dogmatica circa il concetto unitario dei due “tipi” di colpevolezza.
Per parte della dottrina112 ad esempio, l’essenza della colpevolezza consiste nel rapporto di identità tra volontà e modificazioni esterne: questo rapporto non si sostanzia in graduazioni quantitative e qualitative, per cui sarebbe falso parlare del dolo e della colpa come di due forme opposte, di due diversi atteggiamenti della colpevolezza.113 Una variante interna della teoria unitaria della colpevolezza prevede invece che la colpevolezza debba essere identificata con il dolo, che si erge a regola e modello del nesso psichico, mentre la colpa assume il nome di “dolo di pericolo”.
Altrettanto artificiosa risulta la ricostruzione in base alla quale la volontà non può causare altro che non sia il movimento corporeo ed essendo tale causazione presente sia nel dolo che nella colpa, entrambi i nessi psichici sono prospettabili, perché anche nella colpa è presente un elemento volitivo.114
Pecoraro-Albani ritrova l’atto di volontà sia nel dolo che nella colpa dando all’atto di volizione un significato differente e comune ad entrambi gli elementi soggettivi: la volontà è la facoltà dell’uomo di dirigere il proprio comportamento in modo da farlo svolgere immune da vizi.115
Aldilà delle difficoltà dettate dall’inquadramento di dolo e colpa, la vera crisi della teoria psicologica si apprezza storicamente quando a mutare, nel pensiero filosofico, è il giudizio sulla volontà.
112 Vannini in Il problema della colpevolezza, G. BELLAVISTA, estratto dagli annali del
seminario giuridico della r. Università di Palermo, 1942, p.26.
113
Ibidem.
114
M. DEL RE, Colpevolezza e colpevolizzazione, p. 72
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Il periodo illuministico e quello immediatamente successivo si caratterizzarono, infatti, non solo per la centralità delle capacità intellettuali dell’uomo, ma anche per quelle coscienziali, di conseguenza anche le categorie penalistiche non potevano che essere indirizzate verso un’impostazione che non tralasciasse mai l’aspetto etico e valoriale dell’agire.
Per quanto, infatti, la teoria fosse sorta con il fine di abbandonare il foro interiore dell’autore del reato per muovergli un rimprovero basato su categorie astratte ed universali, il giudizio sulla volontà del soggetto era ancora permeato da un atteggiamento “moraleggiante” tendente ad attribuire a quest’ultima il significato di “volere il bene” e “volere il male”.
Le scuole psicologiche e sociologiche, da poco sorte, reclamavano sempre più a gran voce la distinzione tra volontà e coscienza morale, la separazione tra la volontà come scelta di carattere causale e la coscienza come scelta tra bene e male.116
Inoltre, ed è questo il dato più interessante, il presupposto ideologico che regge la teoria psicologica è dato da “un’utopia egualitaria”117
, fonda cioè un diritto penale rivolto all’idea di uomo e non all’essere umano “reale”, che vive nel mondo ed è contaminato da fattori culturali ed ambientali nel suo processo deliberativo posto alla base del comportamento.
La teoria psicologica era d'altronde posta a fondamento teorico della scuola positiva che, partendo da una posizione incompatibilista, negando cioè, alla luce del contesto sociale o della costituzione genetica del soggetto, che quest’ultimo potesse autodeterminarsi, riteneva che ogni individuo fosse non imputabile, dunque basava la formulazione del giudizio di colpevolezza sulla volontareità dell’atto.
116
Ivi, p.76.
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«La convinzione che il comportamento criminale sia determinato da fattori innati o da fattori ambientali comporta il rifiuto del libero arbitrio, contrariamente alla scuola classica.»118
La pena dunque, parametrata sulla pericolosità del reo e non sulla gravità del fatto,119 era considerata del tutto priva della forza motivante che caratterizza le sue funzione di general e special prevenzione, non potendo il soggetto fare a meno di delinquere; diventava così misura di sicurezza, applicata al solo scopo di contenimento della società.
La teoria normativa inserisce invece l’elemento dell’imputabilità nel giudizio di colpevolezza ritenendo che l’incapacità del soggetto di autodeterminarsi non sia la regola, bensì sia da circoscrivere a casi in cui il soggetto sia incapace di intendere e di volere o sia sottoposto ad una condizione tale per cui non era da lui esigibile l’astensione dal reato ed, in virtù di questo, debba essere scusato.
Il superamento della teoria psicologica, nasce proprio dall’intuizione che non possa essere sufficiente giudicare un soggetto colpevole sulla base della volontarietà dell’atto; è necessario assicurarsi che l’atteggiamento dalla volontà fosse tale da potersi assumere diversamente.
Il soggetto, in altri termini, per essere considerato colpevole deve aver potuto, nella commissione di quell’atto specifico, desiderare di non commetterlo; non devono esserci state delle condizioni tali per cui il soggetto non potesse essere in grado di non delinquere.