Alla mia famiglia, per non avermi mai messo la fretta di crescere.
Alle mie amiche, per avermi insegnato ad essere adulta.
INDICE
INTRODUZIONE
1. Premessa ………5
2. Cenni a Platone ………..7
3. La volontà per Aristotele ………...9
4. Cenni a Tommaso d’Aquino ………...16
5. Obiettivi ………..18
CAPITOLO 1
Il libero arbitrio: il dibattito
1. Il determinismo ………...241.1. Il determinismo c.d. limitato ………25
2. I conflitti tra obblighi ………..27
3. L’indeterminismo ………28
3.1. L’indeterminismo radicale ………...28
3.2. L’indeterminismo causale ………30
4. La teoria della c.d. Agent Causation ………...31
5. L’incompatibilismo ……….34
5.1. L’incompatibilismo morale ………..35
6. Scetticismo ………..38
7. Il compatibilismo ………39
8. La teoria psicologica della colpevolezza ………47
9. La teoria normativa della colpevolezza ………..5
10. Il libero arbitrio nel Codice Rocco ………54
11. L’imputabilità ………....56
12. Nullum crimen, nulla poena sine culpa ………59
13. La responsabilità ………...60
13.1. Forme di responsabilità ………..60
13.2. L’elemento “oggettivo” della responsabilità ………..61
CAPITOLO 2
L’Orestea in Eschilo ed Euripide
1. Premessa. La società “tragica” ………632. Agamennone ………...66
2.1. Clitemnestra ……….67
2.2. Agamennone ………72
2.3. Oreste ………...74
3. Eumenidi: la svolta ………..79
3.1. La giustizia delle Erinni ………...80
3.2. Verso un nuovo diritto ……….81
4. Elettra ………..81
4.1. La morte di Clitemnestra ………..86
4.2. L’influenza degli dei e di Necessità ……….87
4.3. L’umanità dei personaggi ……….90
4.4. La colpa di Oreste ………93
4.5. La condotta di Elettra ………..94
5. Oreste. Il tipo di colpevolezza ……….95
5.2. Il daimon di Oreste ……….101
5.3. Oreste in Eschilo ed Euripide: due eroi a confronti …………...103
CAPITOLO 3
Sofocle: Edipo re, Edipo a colono ed Antigone
1. Edipo re ………1051.1. Il capro espiatorio ………..109
2. L’umanità secondo Sofocle ………..111
3. Edipo a Colono ……….112 3.1. Il rapporto genitoriale ………113 4. Il cambiamento di Edipo ………..115 5. Antigone ………....116 5.1. L’Antigone di Hegel ………..118 5.2. L’Antigone di Kirkegaard ……….120 5.3. L’Antigone di Goethe ………122 5.4. L’Antigone di Brecht ……….122 6. Antigone e Creonte ………125
CONCLUSIONI
………...133BIBLIOGRAFIA
……….138Introduzione
Sommario: 1. Premessa; 2. Cenni a Platone; 3. La volontà per Aristotele; 4. Cenni a Tommaso d’Aquino; 5. Obiettivi.
1. Premessa.
La questione filosofica legata al libero arbitrio e le sue implicazioni giuridiche sono terreno di aspri scontri ed accesi dibattiti.
La nozione di libero arbitrio infatti, pare appartenga da sempre al patrimonio culturale dell’umanità intera ed al linguaggio comunemente usato; sembra sia un valore irrinunciabile, connaturato nell’essere umano, ma è davvero così? Ogni tentativo di risposta cela numerose insidie.
È complesso definirlo nella sua apparente “vaghezza”1
, ma è necessario quanto meno inquadrarlo affinché qualsiasi dialogo con tematiche ad esso affini sia credibile e funzionale alla risoluzione dei problemi che genera.
La trama dei quesiti pertinenti alla sua esistenza ed alla sua compatibilità con la natura umana e con il mondo, si è nei secoli talmente infittita da determinare un sistema di riflessioni inestricabile e per certi versi muto di risposte.
Alcuni autori ritengono che il libero arbitrio consista nella capacità di autodeterminarsi e possibilità di scegliere tra linee di condotta alternative.2
1 Cfr. M. De Caro, Il libero arbitrio. Una introduzione, Laterza, Roma 2004, p. 3. 2
H. ARENDT, The life of the mind, Harcourt Brace Jovanovich, New York-London, 1978, trad. it G. Zanetti, La vita nella mente, il Mulino, Bologna, 1987, p.342 : «…Ciò che è noto nella tradizione come liberum arbitrium, la libertà di scelta tra due o più oggetti o modi di condotta desiderabili».
M. DE CARO, Il libero arbitrio : «In questo senso possiamo considerare la possibilità di fare altrimenti come la prima condizione di libertà... è cioè necessario che l’agente controlli le azioni che compie…Il controllo degli agenti sulle proprie azioni ovvero la loro autodeterminazione è, dunque, la seconda condizione della libertà.»
6
La libertà del volere si compone, stando a questa ricostruzione, di una possibilità di scelta che si colloca in un momento antecedente all’esecuzione dell’azione, e della “padronanza” da parte dell’agente dell’azione stessa, ovverosia della capacità di controllare l’azione e legarla causalmente ai propri desideri, alle sue credenze ed intenzioni.3 Nell’Atene del V secolo a.C., invece, stando almeno ad alcune ben note interpretazioni, la libertà del volere assume le forme dell’azione volontaria, essendo la volontà un tendere ad un fine, più o meno chiaramente noto o immaginato.
Quanto ai Greci, essi muovevano dalla loro fondamentale esperienza che il corso esterno degli eventi non si trova in nostro potere, e da ciò ricavavano il concetto delle cose che si trovano in nostro potere. E che fra queste rientrasse anche la decisione che l’uomo prende in seguito ad una riflessione autonoma, era per loro intuitivamente certo.4
Si reputavano dunque le azioni cause possibili di ciò che accade e si riteneva che le decisioni delle persone ed i loro pensieri si esaurissero nelle loro azioni.
Una certa cosa è fatta volontariamente se essa è un aspetto intenzionale di un’azione compiuta in uno stato mentale normale.5
Il periodo classico (510 a.C.-323 a.C.) della storia greca sembrerebbe contraddistinto, rispetto alla tematica del libero arbitrio, da una tendenza alla semplificazione e da una totale noncuranza delle problematiche emerse in epoche più recenti.
Se nell’Atene del V secolo a.C. era sufficiente che un’azione fosse stata compiuta volontariamente perché fosse possibile ritenere che
3 M. DE CARO , Il libero arbitrio, cit. p.10. 4 Ivi, p.167.
5
B.WILLIAMS, Shame and necessity, University of California Press, Bereley-Los Angeles, 1993, trad. it. M. Serra, Vergogna e necessità, il Mulino, Bologna, 2007, p.78.
7
fosse compiuta liberamente non si può che convenire con ciò che Nietzsche, il quale, com’è ben noto, ha sostenuto a proposito che i greci, erano “superficiali per profondità”6.
Con tale espressione egli attribuiva loro il merito di non aver mai indugiato in speculazioni filosofiche legate all’individuo nei termini di libertà del volere, non ritenendola un elemento necessario per fondare la responsabilità di un soggetto o per attribuirgli un’azione.
Anche secondo Arendt “i Greci”, come lei li definisce, sono del tutto disinteressati ad una nozione di libertà che trascenda il rapporto “volontà-azione”, essendo sprovvisti perfino della terminologia adatta per indicare «ciò che consideriamo la scaturigine dell’azione.»7
La lingua greca, partendo dal vocabolario aristotelico, conosce la distinzione tra atti intenzionali e non intenzionali, tra volontario e non volontario, ma stringe la cerchia degli “atti non volontari” a quelli posti in essere fortuitamente o sotto costrizione fisica, cioè privi del legame tra azione ed intenzione, senza riferimenti all’origine dell’intenzione.8
2. Cenni a Platone
Per Platone il fine ultimo dell’agire umano è il sommo bene.
La volontà non può desiderare qualcosa che non sia il Bene ed è da esso determinata.
Il male, l’ingiustizia si sostanziano dunque in assenza di volontà. Secondo Platone tutti delinquono involontariamente9; volontaria è l’azione, non l’ingiustizia.
6
NIETZSCHE, Osservazione ripetuta due volte nella prefazione alla seconda edizione Die fröhliche Wissenschaft, Verlag Lipsia, 1887, La gaia scienza, cfr. B. WILLIAMS, Vergogna e necessità,cit., p.16.
7 H. ARENDT, La vita della mente, cit. p.326. 8 Ivi, p.327.
9
A.LEVI, Delitto e pena nel pensiero dei greci, Fratelli Bocca Editori, Torino, 1903, p.183.
8
Si può agire ingiustamente compiendo un’azione, ma non si può agire nella consapevolezza di star agendo ingiustamente.
Chi commette un delitto lo fa sempre credendo che il suo agire sia giusto.
In Platone, dunque, un delitto deve attribuirsi ad un individuo nel momento in cui egli ne è semplicemente causa, è sufficiente che l’abbia compiuto, ma ogni delinquente è ingiusto involontariamente. 10
La ragione del punire è, per il filosofo, latu senso etica: colui che delinque è “ignorante del Bene”, è “malato” e va sottoposto alla pena per guarire.11
Il delinquente diventa destinatario di un trattamento benefico: la pena. La pena assume funzione repressiva con Aristotele il quale, circoscrivendo la categoria degli “incapaci” ad una ristretta cerchia di delinquenti, individua nella stragrande maggioranza dei consociati degli agenti volontari delle loro ingiustizie, dunque meritevoli di biasimo e punizione.
Per Platone invece la pena non è retributiva di un male; essa ha un’altra funzione: non sempre ci si può attendere dai cittadini che riconoscano il bene, di conseguenza è utile orientare la loro condotta verso il bene attraverso la minaccia di una pena.
In questo senso la pena non è un male con il quale è retribuita la malvagità di chi delinque, è anzi un bene perché costringe i cittadini ad essere liberi, ossia a dominare se stessi imponendo il controllo della ragione sugli istinti.
La pena per Platone assume di conseguenza una funzione correttiva, ma non è priva di un connotato di deterrenza, deve essere cioè capace di scoraggiare il corpo sociale dall’imitare il reo.
Sarà molto tempo dopo, all’inizio del II secolo d.C., lo scrittore romano Aulo Gellio ad attribuire, nel tentativo di riprodurre la dottrina
10
Ivi, p.185.
9
greca sull’argomento, alla riflessione platonica sullo scopo della pena, un terzo elemento: la timoria.
«Essa corrisponde alla vendetta dell’onore della vittima, che verrebbe menomato se il colpevole andasse impunito.»12
3. La volontà per Aristotele.
Aristotele considerò “involontario” ciò che si compie per costrizione o per ignoranza.
Volontario è, di conseguenza, «ciò il cui principio risiede nel soggetto, il quale conosce le condizioni particolari in cui si svolge l’azione.»13 Un atto è costretto quando «il suo principio è fuori del soggetto, tale essendo l’azione nella quale chi agisce non ha nessun concorso»14
. Un atto compiuto per ignoranza è sempre non volontario, poiché il soggetto non sa ciò che compie e si trova a determinare un esito che non corrisponde alle sue intenzioni.15
Bisogna tuttavia distinguere l’atto compiuto “nell’ignoranza” dall’atto compiuto “per ignoranza”.
Quest’ultimo è «l’atto nel quale il soggetto ignora le determinazioni in cui s’individua l’azione»16, ossia, principalmente, l’atto stesso che si
compie ed il risultato.
“Nell’ignoranza” è, invece, quell’atto compiuto senza che il soggetto conosca la regola di condotta: si pensi, ad esempio, alla condotta del vizioso, che ignora le cose che si devono compiere e quelle dalle quali astenersi.17
12 J.M. KELLY, A short history of Western legal theory, Clarendon Press, Oxford,
1994, trad. it. Di S. Ferlini,Storia del pensiero giuridico occidentale, il Mulino, Bologna, 1996, p.52.
13
ARISTOTELE, Etica Nicomachea, trad. it. M. Zanatta, Rizzoli, Milano,2001,,Vol.1,III,3,1111°,20, p.195.
14 ARISTOTELE, Etica Nicomachea, Introduzione, cit,.p.39. 15
Ibidem.
16
ARISTOTELE, Etica Nicomachea, introduzione cit., p.40.
10
Secondo il filosofo, quest’ignoranza non è causa di involontarietà, bensì di malvagità.
Il soggetto infatti conosce tutte le determinazioni nelle quali si svolge l’azione, egli ha, dunque, a disposizione, tutti gli elementi per deliberare riguardo al comportamento da tenere.
Il vizioso, così come l’iracondo o il passionale, quando agisce compie un atto volontario, in quanto egli è in grado di deliberare, nella circostanza data, il comportamento da tenere.18
Senza dubbio infatti non si dice bene che le cose compiute per impetuosità o per brama sono involontarie… ed è comunemente ammesso che le affezioni irrazionali non appartengono meno alla natura umana: di conseguenza sono proprie dell’uomo anche le azioni che provengono da impulsività e da brama.19
Se è involontario solo ciò che si compie per costrizione o per ignoranza, sarà volontario ogni atto il cui principio risiede nel soggetto, il quale conosce anche le condizioni particolari in cui si svolge l’azione.
Virtù e vizio sono per Aristotele entrambi volontari, perché entrambi riguardano il mezzo, la scelta, con la quale raggiungere il fine, la volontà.
Il principio dell’azione risiede allo stesso modo nel soggetto virtuoso ed in quello vizioso; entrambi di conseguenza sono responsabili delle loro azioni.
Parlando degli ubriachi, il filosofo afferma «dell’esser diventati tali essi sono responsabili col vivere in maniera trascurata; sono responsabili del loro essere ingiusti e del loro essere incontinenti»20.
18
Ivi, pag.41.
19
ARISTOTELE, Etica Nicomachea, cit., III,3, 1111°,25,p.197
11
Per l’ingiusto, così come per l’incontinente era possibile non diventare tale, di conseguenza lo è diventato volontariamente; una volta rivestita questa condizione però non si può più tornare indietro.
L’azione di diventare vizioso è, secondo Aristotele volontaria, l’azione commessa nello stato di vizioso è involontaria.
Il soggetto sarà dunque responsabile per aver posto in essere volontariamente un’azione (ad esempio ubriacarsi), che ha comportato il verificarsi di un evento causato da uno stato di ignoranza.
I due tipi di ignoranza per Aristotele trovano, nel nostro ordinamento, riscontro nelle ipotesi di esclusione della colpevolezza.
L’atto compiuto “per ignoranza” trova la sua corrispondenza nella disciplina dell’errore.
All’errore viene equiparata l’ignoranza, in quanto sia la mancata conoscenza che l’erronea conoscenza di un dato elemento provocano il medesimo effetto psicologico, cioè impedire che l’agente si renda conto di commettere un fatto corrispondente ai requisiti previsti da una fattispecie incriminatrice.21
«Sia l’errore che l’ignoranza devono vertere su elementi essenziali del fatto, cioè su elementi la cui mancata conoscenza impedisce che il soggetto si rappresenti un fatto corrispondente al modello legale.»22 «Se la volontà colpevole presuppone la conoscenza degli elementi costitutivi del fatto criminoso, la mancata o falsa rappresentazione di uno dei requisiti dell’illecito avrà come effetto di escludere la punibilità per il venir meno dell’elemento soggettivo del reato.»23
L’articolo 47 del codice penale stabilisce che l’errore sul fatto che costituisce reato escluda la punibilità dell’agente.
21 G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto penale parte generale, Zanichelli, Bologna, 2014,
p.388.
22
Ivi, p.390.
12
L’errore sul fatto costituisce infatti il rovescio sulla componente del dolo. Se l’agente non conosce uno o più elementi del fatto concreto, egli non agisce dolosamente ed il reato viene meno.24
Aristotele sostiene che chi agisce in preda ad un particolare stato emotivo o passionale, compie un atto volontario, è dunque pienamente responsabile del fatto commesso.
Anche l’articolo 90 del codice penale sembra sposare questa tesi, prevedendo che gli stati emotivi e passionali non escludono né diminuiscono l’imputabilità.
La rilevanza scusante degli stati emotivi e passionali può essere ammessa soltanto in presenza di due condizioni: che lo stato emotivo si manifesti in una personalità già debole e che assuma il valore di infermità mentale, seppur transitoria.
In materia di delitti commessi per intossicazione da alcol (ed a causa dell’effetto di sostanze stupefacenti), il codice Rocco prevede una normativa estremamente rigorosa che si articola in base alla causa dello stato di ubriachezza25: l’ubriachezza esclude l’imputabilità solo se è dovuta a caso fortuito o forza maggiore; se l’ubriachezza è tale da far scemare, senza escludere la capacità di intendere e di volere la pena è diminuita, in base all’art. 91 del codice penale.
Non fa invece scemare, né esclude l’imputabilità, l’ubriachezza volontaria o colposa, (articolo 92, primo comma).
Quando l’ubriachezza è preordinata al fine di commettere un reato è previsto un aumento di pena.
La condizione di ubriachezza abituale (e di abituale intossicazione da stupefacenti) non solo non esclude o non diminuisce l’imputabilità, ma comporta un aumento di pena e l’eventuale applicazione di una misura di sicurezza presso una casa di cura o la libertà vigilata.26
24 Ivi, p.389. 25
S. CANESTRARI, L. CORNACCHIA, Manuale di diritto penale Parte generale, il Mulino, Bologna, 2015, p.609.
13
L’articolo 95 del codice penale prevede la possibilità di far scemare gradatamente la capacità di intendere e di volere soltanto il caso estremo di cronica intossicazione.
È definibile “intossicazione cronica” da uso di alcol, quella «condizione di alterazione patologica permanente tale da far apparire indiscutibile che ci si trovi di fronte ad una vera e propria malattia psichica»27.
La ratio della norma è evidente: chi si è ubriacato volontariamente o con leggerezza non può essere scusato, di conseguenza, se realizza un reato, deve rispondere come se fosse pienamente capace di intendere e di volere28.
Il codice dunque non si allontana eccessivamente dalla visione aristotelica sul punto; anche per il legislatore del 1930 infatti “l’essersi procurato” l’alterazione psichica a causa dell’alcol è motivo di piena applicazione della pena.
Il soggetto viene trattato giuridicamente come se fosse capace di intendere e di volere, di conseguenza è riconosciuta la sua non imputabilità, tuttavia gli si irroga la pena per punirlo di essersi ubriacato, cioè dell’azione che ha causato la sua alterazione psichica. La conclusione a cui addiviene Aristotele è senza dubbio significativa: egli collega la responsabilità del soggetto alla sua imputabilità ma, sostiene anche che non è imputabile solo chi agisce per ignoranza o costrizione.
Poiché chi agisce per ignoranza o costrizione agisce non volendo, egli lega indissolubilmente responsabilità e volontà.
È dunque responsabile chi agisce volontariamente, cioè scevro da ignoranza o costrizione.
Non è dunque imputabile chi ha agito involontariamente, ossia sotto costrizione fisica o “per ignoranza”.
27
Ivi, p.360.
14
Chi agisce in preda ad impulsi o vizi, cioè “nell’ignoranza”, agisce volontariamente, dunque può essere considerato responsabile.
La “scelta deliberata”, la proàiresis, si colloca tra gli atti volontari, ma non ne esaurisce la categoria.
Ora, è evidente che la scelta deliberata è atto volontario; però non vi si identifica, ma il volontario ha maggiore estensione. Infatti del volontario partecipano anche i fanciulli e gli animali, della scelta deliberata no. Inoltre le cose che si compiono in modo immeditato diciamo che sono volontarie, ma non che sono secondo scelta deliberata.29
La scelta deliberata consta di un momento aggiuntivo rispetto alla volizione; essa è infatti un atto volontario, ma in più comporta una deliberazione preventiva.
Oggetto della deliberazione sono «le cose che possono essere diversamente da quelle che sono e che possono essere oggetto d’azione».30
Il «deliberato progettare»31 non avviene sui fini, che sono dettati dalla volontà, bensì sui mezzi per raggiungere tali fini; il mezzo è allo stesso tempo oggetto della scelta dell’agente.
L’oggetto della scelta è dunque determinato dalla deliberazione e si sostanzia nella preferenza tra alternative.
Deliberiamo non sui fini, ma sui mezzi per raggiungere i fini. Né infatti il medico delibera se guarirà, né l’oratore se convincerà, né il politico se costituirà un buon ordinamento, né nessuno degli altri delibera sul fine; ma, posto il fine, esaminiamo il come, ovvero con quali mezzi sarà realizzato.32
29 ARISTOTELE, Etica Nicomachea, III,4, 1111b,5-10, cit., p.199. 30
ARISTOTELE, Etica Nicomachea, introduzione, cit., p.42.
31
H.ARENDT, La vita della mente, cit., p.375
15
La “preelezione”, così come spesso viene tradotto il termine
proàiresis, per quanto possa essere considerata «il principio costitutivo
dell’uomo»33
non è dunque l’unica scaturigine della responsabilità. Se si riconosce solo nella scelta deliberata il libero arbitrio, poiché solo essa è frutto di una ponderazione razionale scevra da impulsi o vizi, constatando che si può essere ritenuti responsabili anche per atti volontari, ma non determinati da una scelta deliberata, si deve concludere che il libero arbitrio non è per Aristotele un elemento necessario per ritenere un soggetto responsabile.
La lode ed il biasimo accompagnano il volontario, ma il volontario non solo non implica la libertà del volere, ma neppure la facoltà di operare delle scelte razionalmente determinate.34
Seppur superflua per fondare la responsabilità umana, la libertà del volere sembrerebbe coincidere con la volontà razionale.
La facoltà di scelta subentra nel momento in cui l’uomo deve deliberare circa i mezzi per raggiungere uno scopo.
Quanto al fine ultimo degli atti umani, esso non è mai soggetto a scelta, poiché necessariamente consiste nell’eudaimonia, la felicità intesa come “viver bene”.
Tutti gli atti sono mezzi per arrivare ad essa.35
È evidente che il fine non possa mai essere oggetto di giudizio morale, al contrario del mezzo per raggiungere il fine che, essendo frutto di una scelta, potrà essere virtuoso o vizioso, a seconda che sia o meno adeguato al fine, il che ovviamente non potrà che dipendere dalle “compentenze” dell’agente, ossia dalle sue cognizioni circa l’utile e il
dannoso, ossia, come afferma Aristotele, riguardo al giusto o
all’ingiusto.
33 A.LEVI, Delitto e pena nel pensiero dei greci, cit.,p.193. 34
L. MILAZZO, Legge, ragione, volontà. Sul fondamento teologico del diritto in Tommaso d’Aquino, Giappichelli, Torino, 2009, p.65.
16
Quel che è chiaro, in ogni caso, è che l’errore che è causa del male morale, non può scusarlo, altrimenti ogni male sarebbe di per sé scusato.
L’atto virtuoso è dunque una scelta virtuosa, l’atto vizioso è una scelta viziosa.
Non è detto inoltre che l’eudaimonia sia ambita da tutti gli uomini allo stesso modo; è possibile che il percorso che ognuno compie individualmente per raggiungere la felicità sia costellato di “cattivi fini”, come ad esempio gli atti viziosi.
La scelta deliberata non si identifica dunque nella virtù, anche in ragione del fatto che la scelta è un atto, la virtù invece è «un’abitudine, che si acquista nella società, alla quale giova.»36
4. Cenni a Tommaso d’Aquino.
Tommaso d’Aquino, come Aristotele, sostiene che esiste una felicità che si identifica con il sommo bene e che corrisponde alla volontà ultima degli uomini (e nel caso di Tommaso di Dio).
Essa contiene molte cose e perciò non è «mossa necessariamente verso questo o quel bene.»37
La volontà si indirizza “liberamente” verso il bene particolare, essendo l’uomo libero di scegliere ciò che è buono per un verso anziché per un altro, ma è necessariamente incline a volere ciò che è in sé e per sé buono.38
La nozione di bene generale è quindi un contenitore di singoli e particolari beni, rispetto ai quali nessuna volontà è determinata.39
36
A.LEVI, Delitto e pena nel pensiero dei greci, cit., p.190.
37
TOMMASO D’AQUINO, Quaestiones disputatae de malo, in Sancti Thomae de Aquino Opera omnia iussu Leonis XIII P.M. edita, t.23, Commissio Leonina-j Vrin, Roma-Paris, 1982, q. 6, ad 6., trad. it. F. Fiorentino, Il Male, Bompiani,Milano,2001, cfr. L.MILAZZO, Legge, ragione, volontà. Sul fondamento teologico del diritto in Tommaso d’Aquino, cit., p.25.
38
L. MILAZZO, Legge, ragione, volontà. Sul fondamento teologico del diritto in Tommaso d’Aquino, cit., p. 26
17
La volontà, per Tommaso come per Aristotele, seppur ordinata ad un bene supremo ed incontrovertibile, comunque è dotata di un momento deliberativo, dunque è libera.
L’agire umano diventa moralmente rilevante proprio quando l’uomo, operando liberamente, scegliendo in concreto di orientarsi in un modo piuttosto che nell’altro.
Il “male”, in questo senso, per Tommaso non è mai veramente “voluto”, in ragione del fatto che ciò che è voluto dagli uomini, così come da Dio è, “per definizione”, il bene formalmente inteso.
Il male corrisponderà allora a ciò che non si è voluto, ad una sorta di bene non attuato.40
Nessuno, agendo, tende verso il male, quasi che lo volesse principalmente […] La volontà si volge principalmente sempre verso un determinato bene e a causa di questo movimento verso un determinato bene accade che essa sopporti il male che è congiunto con quel bene.41
In ogni azione libera, anche la più cattiva che si possa immaginare, ciò che l’agente persegue direttamente è sempre un valore fondamentale.42
La felicità è, in definitiva, il fine ultimo e l’oggetto della volontà. Il bene assoluto si sottrae però alla scelta, e, secondo Tommaso, sarebbe dettato non dal libero arbitrio, ma all’istinto naturale.43
40 L. MILAZZO, Legge, ragione, volontà. Sul fondamento teologico del diritto in
Tommaso d’Aquino, cit., pag.27.
41
TOMMASO D’AQUINO, Quaestiones disputatae de malo, in Sancti Thomae de Aquino Opera omnia iussu Leonis XIII P.M. edita, t.23, Commissio Leonina-j Vrin, Roma-Paris, 1982, trad. it. F. Fiorentino, Il Male, Bompiani,Milano,2001, cfr. L. MILAZZO,Legge, ragione, volontà. Sul fondamento teologico del diritto in Tommaso d’Aquino, p.25.
42 F.DI BLASI, Dio e la legge naturale. Una rilettura di Tommaso d’Aquino, ETS, Pisa,
1999, p.78.
43
L. MILAZZO, Legge, ragione, volontà. Sul fondamento teologico del diritto in Tommaso d’Aquino, cit., p.37.
18
Non si può non volere la felicità e, d’altra parte, «se l’uomo non volesse la felicità perfetta non avrebbe alcuna ragione per compiere le proprie scelte».44
Se la sola scelta possibile è quella che ha ad oggetto i mezzi necessari per conseguire un fine che non si può non volere, allora l’unica libertà possibile sarà rappresentata da una necessità alla quale soggiace la volontà umana.
Una notevole differenza si apprezza, nei due filosofi, rispetto all’attribuzione del biasimo e della colpa morale.
Per entrambi la volontà attiene al fine da raggiungere, mentre la scelta ha per oggetto il mezzo per conseguire il fine; tuttavia Tommaso identifica l’atto volontario con l’atto razionale e consapevole, cioè con l’atto moralmente buono, mentre Aristotele distingue, tra gli atti volontari, quelli frutto di una scelta deliberata (proàiresis) e quelli privi del momento deliberativo, tipici anche dei bambini e degli animali.
Il biasimo di Tommaso raggiunge solo gli uomini razionali che non hanno voluto il bene, mentre Aristotele ritiene degni di punizione anche coloro che hanno agito in virtù di scelte irrazionali.
5. Obiettivi.
La tragedia costituisce lo strumento che, più della filosofia, è in grado di fotografare la società del tempo, è specchio del suo patrimonio valoriale e ne rappresenta il comune sentire.
L’analisi che di essa si fa, corrisponde ad un’indagine del punto di vista non solo dei suoi autori, ma del pubblico di spettatori, dunque dell’intera polis.
Per tale ragione essa costituirà l’oggetto del presente studio, finalizzato a problematizzare alcune interpretazioni consolidate.
44
L. MILAZZO, Legge, ragione, volontà. Sul fondamento teologico del diritto in Tommaso d’Aquino, cit., p.42.
19
Per interrogare i testi tragici in modo consapevole sarà prima necessario dotarsi di adeguati strumenti di analisi, tentando di
ricostruire le categorie dalle quali dipendono le nostre
precomprensioni.
Si vuole, nello specifico, adoperare “il filtro” interpretativo del pensiero moderno sul libero arbitrio.
Questa scelta è determinata dal fatto che risulta molto difficile, se non impossibile, una immedesimazione totale nella società del V secolo a.C, dunque, una comprensione completa dei valori ad essa sottesi; di conseguenza, l’unico modo per avere delle risposte dai testi tragici sembra essere quello di utilizzare il sistema concettuale moderno come parametro di riferimento.
I principi posti alla base della società descritta nelle tragedie sembrerebbero infatti, estremamente diversi da quelli fondanti la società moderna.
Ci si deve confrontare, ad esempio, con una cultura che utilizza la vendetta come strumento giuridico per dirimere le controversie e che prevede l’assunzione della colpa per via ereditaria.
I figli infatti scontano le pene per i torti commessi dai loro padri; la colpa dunque non ha il carattere della soggettività ma a risentirne è l’intero ghenos, il gruppo familiare.
Si vuole dunque comprendere se, pur così diversa, questo tipo di società possa prestarsi ad un dialogo con il pensiero moderno e se, pur arrivando a risposte differenti, l’eroe tragico si ponga gli stessi quesiti dell’uomo contemporaneo.
Il primo obiettivo del presente lavoro è dunque quello di ricostruire analiticamente le teorie filosofiche moderne sul libero arbitrio.
Un’importante contrapposizione teorica che emerge nel dibattito è quella tra compatibilisti ed incompatibilisti, i quali forniscono soluzioni differenti circa la compatibilità tra determinismo e libero arbitrio.
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Gli incompatibilisti affermano che, il determinismo impedisce l’esistenza della libertà e che, se essa esiste, è compatibile solo in un contesto indeterministico; mentre i compatibilisti, negando che la libertà possa esistere in un contesto indeterministico, riconoscono, per larga parte, il determinismo come condizione necessaria della libertà. Queste teorie e le loro declinazioni sono fondamentali per indagare il ruolo che il libero arbitrio assume nel sistema penale moderno.
Il secondo obiettivo si sostanzia infatti nell’analisi dei principi del diritto penale moderno che coinvolgono la libertà del volere, dunque del sistema di valori sotteso all’elemento della colpevolezza.
Il libero arbitrio non fa ingresso, sin dal principio, nel giudizio di colpevolezza.
Attraverso lo studio dell’evoluzione del pensiero giuridico, si osserverà come, inizialmente, l’unico fattore determinante fosse l’esistenza di un nesso psichico tra autore e fatto, tale da poter ritenere che il soggetto avesse posto in essere un comportamento avendolo voluto o, pur non avendolo voluto, avesse potuto impedirne il verificarsi osservando l’ordinaria diligenza.45
La colpevolezza dunque coincideva, per la teoria psicologica, con l’elemento soggettivo del dolo e della colpa.
Per giudicare un soggetto colpevole era, dunque, sufficiente che intercorresse tra l’agente e la sua condotta, causa dell’evento un nesso psichico.
Per fondare la responsabilità colpevole dell’agente non veniva dunque tenuto in considerazione l’elemento dell’imputabilità e dell’esigibilità della condotta in base alla sua condizione psichica
Il superamento della teoria psicologica, nasce proprio dall’intuizione che non possa essere sufficiente giudicare un soggetto colpevole sulla base della volontarietà dell’atto; è necessario assicurarsi che
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l’atteggiamento dalla volontà fosse tale da potersi assumere diversamente.
Il soggetto, in altri termini, per essere considerato colpevole deve aver potuto, nella commissione di quell’atto specifico, desiderare di non commetterlo; non devono esserci state delle condizioni tali per cui il soggetto non potesse essere in grado di non delinquere.
Nel codice Rocco la capacità di autodeterminarsi da parte del soggetto e la conseguente esigibilità della condotta conforme al precetto normativo ricevono spazio, innanzitutto, all’interno delle disposizioni dedicate all’imputabilità, o capacità di intendere e di volere.
Il passo successivo si sostanzierà nell’esposizione della disciplina dell’imputabilità, la cui assenza corrisponde, secondo l’ideologia del codice, all’assenza di libero arbitrio.
Dopo aver delineato il rapporto tra libero arbitrio e diritto penale nel sistema moderno, l’obiettivo successivo sarà quello di utilizzare questo sistema concettuale come base a cui potersi riferire nella rilettura dei tragici.
Si tenterà, in altri termini di comprendere se e quali principi del diritto penale moderno, siano riscontrabili nel diritto punitivo della società descritta dai tragici, e quale ruolo assuma la libertà del volere nella formazione del giudizio di colpevolezza.
Nei due capitoli successivi saranno oggetto di studio le tre tragedie di Eschilo che costituiscono il ciclo dell’Orestea , due tragedie di Euripide che raccontano le stesse vicende, Elettra ed Oreste e le opere di Sofocle sul ciclo tebano: l’Edipo re e l’Edipo a Colono e l’Antigone.
La scelta di questi testi è stata determinata dal fatto che sembrano problematizzare, più di altri, la questione del libero arbitrio dei personaggi, nonostante contengano tutti quei “fattori tragici” che indurrebbero a ritenere il contrario.
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La vicenda del ghenos di Agamennone infatti è ricca dei tratti caratteristici della dimensione tragica: una colpa ereditaria che si tramanda di padre in figlio da numerose generazioni, un codice comportamentale al quale l’eroe tragico deve omologarsi ed una costante ingerenza degli dei nella vita degli uomini.
Agamennone infatti paga le colpe di suo padre e, a sua volta farà pagare a suo figlio le sue.
Oreste, invece ucciderà sua madre dietro ordine del dio Apollo e per tale ragione verrà perseguitato dalle Erinni, furie vendicatrici dei delitti tra consanguinei.
Anche la storia di Edipo e di sua figlia Antigone ha in sé gli elementi tipici della tragedia greca: Edipo infatti viene destinato dal volere degli dei ad uccidere, a sua insaputa, suo padre e a sposare sua madre.
Verrà allontanato ed emarginato dalla città e, per la vergogna di aver commesso atti così atroci, seppur inconsapevolmente, si accecherà gli occhi e trascorrerà il resto della sua vita in solitudine, accudito e ristorato solo dall’amore delle sue figlie.
La più giovane, Antigone, morirà suicida sacrificando la sua vita in nome di valori che ritiene irrinunciabili ed ai quali non può sottrarsi per imposizione altrui.
Analizzando il dispiegarsi degli eventi ci si chiederà se il sistema concettuale che sembra sotteso agli esiti delle vicende sia assimilabile ad una delle impostazioni teoriche emerse dallo studio sul dibattito riguardo il libero arbitrio: se, cioè, ci siano delle comunanze tra il pensiero dei tragici sul tema della libertà del volere e quello della società moderna.
Il passo successivo sarà quello di scoprire se questo pensiero si concretizzi con l’assunzione di categorie penalistiche uguali o simili a quelle utilizzate da diritto penale moderno.
Non si intende ovviamente “riprocessare” i personaggi in base ai moderni criteri di attribuzione della colpevolezza; bensì valutare se il
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giudizio a loro riservato nella tragedia, aderisca ai principi che caratterizzano il nostro sistema punitivo.
L’obiettivo del lavoro è dunque quello di chiedersi tra le fila di quale schieramento teorico in materia di libero arbitrio si posizionerebbero oggi Eschilo, Sofocle ed Euripide e quali principi in merito alla colpevolezza giudicassero irrinunciabili nelle loro tragedie.
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Il libero arbitrio: il dibattito
Sommario: 1. Il determinismo; 1.1. Il determinismo c.d. limitato; 2. I conflitti tra obblighi; 3. L’indeterminismo; 3.1. L’indeterminismo radicale; 3.2. L’indeterminismo causale; 4. La teoria della c.d. Agent Causation; 5. L’incompatibilismo; 5.1. L’incompatibilsmo morale; 6. Scetticismo; 7. Il compatibilismo; 7.1. Il Consequence Argument; 8. La teoria psicologica della colpevolezza; 9. La teoria normativa della colpevolezza;10. Il libero arbitrio nel Codice Rocco; 11. L’imputabilità; 12. Nullum crimen, nulla poena sine culpa; 13. La responsabilità; 13.1. Forme di responsabilità; 13.2. L’elemento “oggettivo” della responsabilità.
In questo capitolo si ricostruiranno alcune delle principali teorie filosofiche sul libero arbitrio: si partirà dalla nozione di “determinismo” e dalla sua negazione, l’indeterminismo, per poi analizzare il dibattito tra compatibilsti e incompatibilisti in modo da comprendere le varie declinazioni del rapporto tra determinismo e libero arbitrio, fino ad arrivare all’impostazione teorica che nega quest’ultimo totalmente, cioè lo scetticismo. Tale lavoro è funzionale ad inquadrare il ruolo del libero arbitrio nel diritto penale ed in particolare il modo in cui esso fa ingresso nella categoria della colpevolezza attraverso la teoria normativa, giungendo poi all’odierno rapporto tra libero arbitrio e colpevolezza attraverso uno sguardo al codice Rocco e ai suoi principi ispiratori.
1. Il determinismo.
Con il termine determinismo si fa riferimento «ad una tesi concernente
il mondo»46. La tesi deterministica sostiene che ogni evento sia determinato da «condizioni sufficienti per il suo accadere»47.
46
M. DE CARO, Il libero arbitrio, cit., p.11
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Quando si discute in merito al rapporto tra determinismo e libero arbitrio, ci si riferisce in genere alla famiglia di teorie riconducibili al cosiddetto determinismo causale; secondo tale concezione ogni evento è causalmente determinato «se e solo se, esso è causato da altri eventi che ne sono cause efficienti»48.
Ogni evento è necessitato dalle sue cause e dalle leggi di natura, così che tutto quello che accadrà nel futuro è determinato dalle leggi fisiche dell’universo.
1.1. Il determinismo c.d limitato.
Secondo Alf Ross sarebbe possibile considerare il determinismo come il presupposto sul quale si basa la scienza moderna.
La scienza è alla ricerca di un principio causale ed il criterio per stabilire se si sia riusciti a trovare e a formulare una legge, è che questa consenta di ricostruire retrospettivamente e di spiegare ciò che è successo e di prevedere cosa accadrà in futuro.49
Prevedibilità e calcolabilità sono i criteri decisivi per la determinatezza di un settore di fenomeni.
Ma se si afferma che il “determinismo” comporta la prevedibilità del futuro, allora bisogna riconoscere che determinismo ed biasimo morale sono inconciliabili.
Non si può negare tuttavia che, anche in un’ottica di completa prevedibilità, rimanga un’incognita costante: l’effetto che genera nell’agente la consapevolezza delle modalità con cui si dispiegherà il futuro.
Con il nome di “effetto di Edipo” Popper allude al ben noto fenomeno della profezia che si auto avvera: il padre di Edipo, influenzato dall’oracolo che gli predisse il futuro, si comportò in maniera tale da far avverare ciò che era stato predetto.
48
Ivi, p. 12
49
A. ROSS, Skyld, ansvald, og straft, Berlingske Forlag, Kobenhavn, 1970, trad. it. B. Bendexen e P.L. Lucchini, Colpa, responsabilità e pena, Giuffrè, Milano, 1972, p.177.
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È ancora Ross a ricordare che ricorrendo a questo esempio Popper tenta di dimostrare che nessun predictor (agente premonitore) è in grado di rispondere a tutte le domande che gli si potrebbero porre circa il futuro e ciò indipendentemente da quante informazioni gli si forniscano.
Ci sono, in altri termini, avvenimenti che possono essere predetti, e che perciò si dicono “determinati”, ed altri che non possono essere predetti e perciò si dicono “indeterminati”.50
Secondo Popper, un approccio determinista di tal genere (determinismo c.d. limitato51), negando l’idea che il determinismo comporti che il futuro sia in tutto e per tutto determinato, e quindi prevedibile, non solo non è inconciliabile con la morale, ma ne è il necessario presupposto.
La “limitazione” di tale determinismo attribuisce senso alla morale intesa come esperienza interiore della riflessione e della scelta dell’agente; il principio di causalità nel comportamento umano garantisce il senso della morale come tecnica pragmatica avente lo scopo di influenzare il comportamento umano stesso.
Così come è la nostra conoscenza delle leggi naturali che determina la nostra capacità di controllo fisico della natura, così è la nostra conoscenza delle leggi di causalità nel comportamento umano che condiziona la nostra capacità di controllo sul comportamento degli uomini stessi.52
È la morale, secondo questa ricostruzione, ad orientare il comportamento del soggetto, a prospettargli un percorso da seguire. L’agente non è in grado di conoscere totalmente il dispiegarsi degli eventi, dunque compie delle scelte.
50POPPER, Indeterminism in quantum physics and in classical physics, in british
journal of the philosophy of science, 1950, p.188, cfr. ROSS, Colpa responsabilità e pena, cit. p. 179.
51
ROSS, Colpa, responsabilità e pena, cit., p.182 .
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Non si è troppo distanti dalla definizione di “agente” che Vernant ha dato a proposito dell’eroe tragico, definendolo come colui che sa soppesare i pro e i contro delle sue azioni, effettuando una «scommessa sull’ignoto e sull’incomprensibile»53.
L’uomo della tragedia sa che il suo vivere deve confrontarsi con eventi imprevedibili, generati dal fato o dagli dei e molto spesso è mosso da forze che superano la sua volontà.
Tali agenti soprannaturali sono, in altri termini, fattori che influenzano l’agire umano e talora lo determinano.
L’eroe tragico è ben consapevole di essere coinvolto in un gioco di forze che ha inizio con la sua nascita, a volte ancor prima, e dal quale non sa se uscirà perdente o vincitore.
2. I conflitti tra obblighi.
Nella vicenda di Edipo, così come in tutte le altre vicende “tragiche”, c’è, inoltre, la consapevolezza che qualunque cosa si faccia, qualunque decisione venga presa, si sbaglia, poiché gli imperativi etici ai quali si è soggetti sono in conflitto tra loro, e nessuno di essi è in sé tale da prevalere sugli altri.
L’agente, all’esito della sua scelta, saprà di aver ottemperato ad una esigenza morale, ma non potrà fare a meno di provare un profondo senso di rincrescimento perché avvertirà l’altra opzione come un obbligo disatteso.
I conflitti tra gli obblighi hanno la caratteristica di presentarsi come conflitti tra azioni specifiche e determinate; i conflitti tragici tra gli obblighi hanno, in più, la caratteristica di trascendere i tragitti consueti del pensiero morale.54
53
B. WILLIAMS, Vergogna e necessità, cit., p.24.
54
B.WILLIAMS, Moral Luck, Cambridge University Press, Cambridge, 1981, trad. it. di R. Rini, Sorte morale, Mondadori, Milano 1987, p.102.
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L’ uomo effettua una scelta e viene assalito dal senso di colpa per ciò che non ha fatto.
Nel momento in cui l’alternativa disattesa si ripercuote nella sfera del soggetto come un obbligo violato gli si sta chiedendo di subire le conseguenze di ciò che egli non avrebbe potuto fare.
Le vicende tragiche sono tutte contraddistinte dall’imposizione di obblighi ai quali il singolo non avrebbe potuto adempiere e dalla conseguente irrogazione di sanzioni.
Bisognerà invece chiedersi, durante l’analisi dei testi tragici che si compirà nel prossimo capitolo, se anche per i Greci dovesse considerarsi inesigibile un comportamento che l’agente non poteva non tenere.
3. L’indeterminismo.
Negazione concettuale del determinismo è l’indeterminismo.
Tale concezione comporta la semplice casualità degli accadimenti e non garantisce la libertà (contrariamente a quanto prima facie si potrebbe credere), anzi la rende impossibile.
«Se fosse vero l’indeterminismo le azioni umane, al pari di tutti gli altri eventi, sarebbero indeterminate; nulla quindi ne determinerebbe il verificarsi, neanche gli agenti, i quali non eserciterebbero nessun controllo sulle loro azioni: la libertà collasserebbe sul caso»55
.
3.1. L’indeterminismo radicale.
Nella discussione contemporanea la tesi dell’indeterminismo radicale viene presentata sostenendo che tra l’agente e le sue azioni, se libere, intercorrono nessi indeterministici non causali. Le azioni, in altri termini, sono eventi senza cause56 e le spiegazioni delle azioni non sono causali, bensì intenzionali.
55
M. DE CARO, Il libero arbitrio, cit., p.19.
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Un elemento indeterministico interviene in qualche punto cruciale del processo che conduce al compimento dell’azione ed in forza di questo elemento l’azione, che è di fatto compiuta, avrebbe potuto non essere compiuta.
L’indeterminismo radicale deve tuttavia spiegare, a parere dei più, come un agente possa esercitare un controllo adeguato sulle proprie azioni.
Se infatti, come già si è visto, un evento è indeterminato, il suo controllo sfugge anche all’agente.
Carl Ginet ha tentato di sciogliere tale nodo affermando che il controllo necessario per spiegare le azioni, l’agente lo esercita quando compie un’azione.57
Il fatto che chi compia un’azione ne controlli l’esecuzione è sufficiente per considerare l’agente responsabile dell’azione che compie, senza bisogno del nesso causale tra agente e azione.
Le spiegazioni delle azioni per Ginet non hanno carattere causale, ma soltanto intenzionale.
La tesi forse non è particolarmente convincente in ragione del fatto che se un’azione è un evento incausato, seppur provvisto di un’intenzione che lo riguarda, scaturisce dal nulla, trova la sua origine nel nulla. Un evento del genere accade casualmente, e la nozione di controllo richiede che l’agente sia causa dei suoi atti.
Se un atto “libero” fosse qualcosa di assolutamente nuovo, che non viene da me, dall’io che ero prima, ma ex nihilo, e semplicemente si attacca a me, come posso io, l’io che ero prima, essere responsabile? Come posso avere un carattere permanente che persista abbastanza per essere retribuito con la lode o con il biasimo?58
57
C. GINET, Reason explanations of action. Causalist versus noncausalist accaunt, in Kane (a cura di), 2002, pp.386-405
58 W. JAMES, Pragmatism: a new name for some old ways of thinking (1907) p.69.,
trad. it. il Saggiatore, Pragmatismo: un nome nuovo per vecchi modi di pensare, Milano 1994, cfr. D.C. DENNET, Freedom evolves, Viking Press, New York, 2001, trad. it. M. Pagani, L’evoluzione della libertà, Raffaello Cortina, Milano, 2004, p. 11.
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Rinunciare al nesso causale sembrerebbe compromettere non solo il concetto di azione libera, ma di azione tout court59.
3.2. L’indeterminismo causale.
«I fautori dell’indeterminismo causale recepiscono la critica mossa all’indeterminismo radicale circa l’incapacità di spiegare come gli agenti esercitino il controllo sulle loro azioni»60 e perciò sostengono che in realtà una forma di controllo più spiccata ci sia nel momento in cui l’agente soppesa diversi ordini di ragioni e, privilegiandone alcuni, agisce di conseguenza61.
In questo modo, almeno in apparenza, si attribuisce al soggetto la capacità di fare altrimenti, conditio sine qua non del libero arbitrio, e non si sconfessa il principio di causalità.
La causalità di questi teorici è una “causalità indeterministica”62
, perché risente del c.d. momento indeterministico che interviene lungo la catena causale che conduce al compimento dell’azione.
È proprio tale momento a garantire la possibilità di fare altrimenti: grazie ad esso, infatti, le azioni non sono il prodotto di una causazione deterministica; potrebbero non accadere, anche in presenza delle medesime condizioni in cui l’agente o il mondo circostante si trovano al momento dell’azione.
Tale tipologia di causalità non necessita che si produca un effetto, ma è sufficiente che aumentino le probabilità che esso accada.
L’effetto, in questo modo, non è determinato dalla propria causa. L’azione è causalmente influenzata, ma non determinata, dalle ragioni che spingono l’agente a compiere certe scelte senza renderle necessarie.
59 M.DE CARO, Il libero arbitrio, cit., p.44. 60
Ibidem.
6161
Ivi, p.47.
31
Il metodo valutativo che l’agente utilizza consta quindi di due momenti: uno indeterministico, poiché il peso delle ragioni per agire non è predeterminato; l’altro causale, in quanto la particolare valutazione operata dall’agente ha come effetto l’azione che questi compie.
«La critica più insidiosa che viene mossa all’indeterminismo causale è di non essere riuscito a spiegare, al pari dell’indeterminismo radicale, come gli agenti possano esercitare il controllo sugli specifici corsi d’azione che intraprendono»63
.
Ammesso e non concesso che un soggetto scelga quale delle opzioni assecondare, gli indeterministi causali non sono in grado di chiarire in che modo la scelta, in quanto esito di un evento indeterministico, possa essere attribuita all’agente.
L’agente, si dice, nella stessa situazione, avrebbe potuto decidere diversamente; se così non fosse la scelta sarebbe stata determinata; dunque in quel momento, dagli stati d’animo, dalle credenze e dalle intenzioni del soggetto, sarebbero potute discendere scelte e azioni diverse.64
Non sono state allora queste contingenze ad orientarlo verso quel tipo di azione; in questo modo si ritorna con evidenza all’accusa principale mossa alle tesi libertarie: «l’indeterminismo impedisce il controllo dell’agente sulle proprie azioni»65
4. La teoria della c.d. Agent Causation.
Esiste poi un terzo gruppo di tesi libertarie, riconducibili alla cosiddetta teoria dell’agent causation, secondo la quale la libertà dipende dai poteri causali degli agenti, incompatibili con il determinismo. 63 Ivi, p.48. 64 ibidem 65 Ibidem.
32
«L’idea fondamentale è che esiste uno speciale fattore di controllo causale, rappresentato dallo stesso agente, al quale viene attribuita la capacità di autodeterminare la propria volontà originando nuove catene causali.»66
«La teoria fa perno sull’idea che esista una forma del tutto peculiare di causazione, che entra in gioco quando si considerano gli agenti razionali.»67
Gli agenti, infatti, possono originare nuove catene causali e non possono essere causati, contrariamente agli eventi.
Gli agenti decidono quali corsi d’azione avviare, determinando liberamente la propria volontà.
Sicuramente vengono influenzati dalle esperienze passate, dal carattere, dagli stati d’animo, tuttavia è fondamentale comprendere che tale influsso non ha carattere deterministico.
«La libertà è un potere causale dell’agente, che si rivolge in primis verso la volontà, determinandola, e solo indirettamente alle azioni che ne discendono.»68
Kane sostiene che “libertà” sia un termine polisemantico e che esistano libertà compatibili con il determinismo e libertà che lo trascendono. In particolare, il “potere di essere i creatori ultimi e i sostenitori dei nostri fini o scopi”69
può dispiegarsi solo in una realtà che contempli l’indeterminismo.
Egli inoltre afferma che solo le tesi libertarie siano compatibili con il concetto di “responsabilità”, poiché se le decisioni, le scelte umane «fossero a loro volta causate da qualcos’altro, in modo che la catena
esplicativa si potesse ricondurre ulteriormente al passato,
all’ereditarietà o all’ambiente, a Dio, o al Destino, allora la
66 Ivi, p.49. 67 Ivi, p.50. 68 Ivi, p.51
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responsabilità ultima non ricadrebbe sugli agenti, ma su qualcos’altro.»70
L’indeterminismo in senso libertario è circoscritto, per Kane, in pochi cruciali episodi che si prospettano in una data unità di tempo; egli colloca tali episodi all’interno dell’agente, nel suo ragionamento pratico, in modo che le sue scelte possano “dipendere” da lui.71
Tale forma di autodeterminazione è necessaria e fondante della responsabilità.
Il ragionamento pratico di ogni agente si compone delle interazioni tra
input e output: ogni output (decisione ponderata) corrisponde alla
risposta di un input (credenza, desiderio). “Da qualche parte, tra input e output”72
c’è l’indeterminismo.
L’indeterminismo, trovandosi in questa posizione, sarebbe una sorta di generatore casuale che, pur collocandosi in un procedimento causale, conferisce all’ingranaggio delle variazioni, impedendo al soggetto di agire in seguito ad un meccanismo deliberativo determinato; sarebbe, in altri termini, l’elemento che attribuisce all’agente la possibilità di (scegliere di) fare altrimenti.
Compatibilisti del calibro di Dennet confutano la tesi libertaria affermando che, in realtà, una “scintilla indeterminista”73
, collocata “dentro” l’agente, non potrebbe in alcun modo rendere l’essere umano più libero di quanto non sia in un universo determinista.
La catena causale che Kane reputa impediente dell’attribuzione di responsabilità all’agente, è in realtà piena esplicazione di tale responsabilità, in quanto procedendo a ritroso, gli eventi di un passato recente sono, per così dire, ”figli” di eventi più risalenti, fino a giungere ad un’estensione temporale sufficientemente ampia, da far sì che ci sia un “io” da cui possano dipendere le decisioni dell’agente.74
70 Ivi, p.4.
71 D.C. DENNET, L’evoluzione della libertà, cit., p.180. 72
D.C. DENNET, L’evoluzione della libertà, cit., p.150.
73
Ivi, p.182.
34
La più grande obiezione che viene mossa alla teoria dell’agent
causation è, infatti, quella di rappresentare una sorta di eccezione
all’ordine naturale, dato che l’universo sembrerebbe scandito dalle leggi sulla causazione degli eventi.
Sembrerebbe inoltre impossibile individuare la “mente” che si autodetermina, e quale sia il suo nesso con gli enti naturali.
I difensori della teoria hanno rievocato le nozioni di dualismo
ontologico e di interazionismo75, asserendo l’incompletezza fisica di
tutti gli esseri viventi e assumendo un’interazione di stati fisici e mentali. Il rifiuto della chiusura causale del mondo fisico e l’insistenza sul carattere pluralistico della realtà rappresentano il tentativo di conciliare la formula teorica dell’agent causation con la visione scientifica del mondo.
Dopo aver chiarito il concetto di determinismo ci si appresta ad osservare come questo interagisca con il libero arbitrio nelle moderne teorie analitiche.
5. L’ incompatibilismo.
Una contrapposizione teorica adiacente a quella tra deterministi ed indeterministi che, tuttavia, è necessario tenere ben distinta da quest’ultima, è quella tra compatibilisti/incompatibilisti.
Tanto i primi quanto i secondi tentano di offrire soluzioni convincenti circa la compatibilità del determinismo con il libero arbitrio, rispondendo in modo contrario alle domande: “se l’universo è dominato da leggi causali ed il verificarsi degli eventi ha un corso necessitato, c’è spazio per la libertà? Che ruolo riveste il giudizio morale? Si può essere ritenuti responsabili delle azioni compiute?” Gli incompatibilisti rispondono negativamente affermando che il determinismo impedisce l’esistenza della libertà e che essa, se esiste, è possibile soltanto in un contesto indeterministico.
35
Gli incompatibilisti libertari (vi sono, ben inteso, incompatibilisti
anche fra gli indeterministi), assumono nei confronti
dell’indeterminismo un approccio radicale o causale: secondo il primo la libertà si lega all’indeterminismo attraverso una concezione non causale dell’azione; il secondo invece coniuga l’indeterminismo con una concezione causale dell’azione.
5.1. L’ incompatibilismo morale.
Se si riconosce che il determinismo è vero si deve smettere di formulare giudizi morali; questa idea è posta alla base del c.d.
incompatibilismo morale.
Hedenius muove una critica alla morale occidentale, improntata sul valore irrinunciabile del giudizio, condannando il fatto stesso che si condanni.
L’autore ammette che la riprovazione morale, così come l’ira e l’indignazione sono momenti necessari per la vita sociale e ne riconosce l’irrinunciabilità, tuttavia individua una ristretta cerchia di soggetti in grado di liberarsi di questo errato retaggio sociale: le “persone illuminate”.
Una tale impostazione, come rilevato da Ross, sembra piuttosto elitaria nelle conclusioni a cui addiviene, riconoscendo solo in pochi eletti, probabilmente i colti, i dotti, o i possessori di mistiche qualità, la capacità di confrontarsi in maniera corretta con il corpo sociale.
Un’ulteriore critica può essere mossa a tale teoria, cioè di condannare se stessa, nascendo da un giudizio morale.
Se si ammette che le condizioni poste dalla legge morale per condannare non possono essere soddisfatte, è allora contrario alla morale emettere giudizi morali. La condanna della morale colpisce anche se stessa, la condanna del condannare: «È immorale emettere i giudizi morali, riprovevole il riprovare».76
36
C’è da chiedersi tra l’altro se Hedenius abbia ragione nel prospettare un mondo del tutto privo di giudizio morale (perché immorale); se un’ipotesi del genere sia giusta, e cioè positiva da un punto di vista valoriale, morale, e se sia possibile. È giusto, in altri termini, non formulare giudizi morali? Qualora sia giusto astenervisi, gli uomini ne sono o ne saranno mai capaci?
Di certo se lo stesso Hedenius qualifica coloro che ne sono capaci come pochi ed “illuminati” il quadro che si prospetta non è in questo senso confortante.
Un autore scettico rispetto alla capacità dell’uomo di rinuciare a formulare giudizi morali è P.F. Strawson.
Secondo Strawson i concetti di libertà, responsabilità sono inscindibili dagli “atteggiamenti reattivi” (reactive attitudes) e dai sentimenti morali, come il risentimento, l’indignazione, la gratitudine, mediante i quali gli uomini rispondono ai comportamenti degli altri individui.
Tali atteggiamenti strutturano socialmente la nozione di
responsabilità77.
Qualsiasi concezione utilitaristica, che fonda la ratio della riprovazione e dell’attribuzione di responsabilità su ragioni esterne ai sentimenti morali reattivi non centra, secondo l’autore, l’origine della responsabilità stessa, la quale nasce proprio dai sentimenti morali e ne è espressione.
Nella nozione di responsabilità non c’è nulla oltre alle pratiche umane. Abbandonare il patrimonio morale di sentimenti reattivi sarebbe, in quest’ottica, non solo irrazionale, ma anche innaturale.
Perfino la prospettiva deterministica più radicale di totale assenza della capacità di scelta comunque non potrebbe alterare il naturale coinvolgimento nella rete degli atteggiamenti reattivi.
77
STRAWSON P.F., Freedom and resentment, in Proceedings of the British Academy, 1962, trad. it. M. De caro, in Il libero arbitrio, (pp.77-116) cfr. M. DE CARO, Il libero arbitrio, cit., p.109.
37
La realtà potrebbe essere questa, ma altrettanto convincente è chi sostiene che tali atteggiamenti reattivi non sono poi così naturali e che, se si accettasse come verità conclamata il determinismo causale, abbandonando il dogma dell’irrinunciabilità della libertà, il mondo si trasformerebbe radicalmente e con lui tutta la dimensione umana dell’interazione sociale.
Chi ha forgiato la morale? Chi ha stabilito quali azioni umane siano “giuste” o “sbagliate”?
Nietzsche, come è noto, sostiene che concetti di “buono” e “malvagio” siano stati elaborati dai nobili, dai potenti, dalla classe privilegiata che ha determinato se stessa e le proprie azioni come buone, in contrasto con tutto ciò che è volgare e plebeo.
Il diritto signorile di imporre nomi si estende così lontano che ci si potrebbe permettere di concepire l’origine stessa del linguaggio come un’estrinsecazione di potenza da parte di coloro che esercitano il dominio: costoro dicono “questo è questo e questo”, costoro impongono con una parola il suggello definitivo a ogni cosa e a ogni evento e in tal modo, per così dire, se ne appropriano.78
Il filosofo tedesco, al contrario dell’inglese Strawson, non rintraccia nulla di umanamente connaturato nella formulazione di giudizi morali o, per meglio dire, nel “vocabolario valoriale” che si tende ad identificare come eterno ed immutabile.
Al contrario ne evidenzia la spiccata artificiosità e la strategia politica di dominio retrostante, funzionale all’aristocrazia per affermarsi sula massa.
L’uomo interiorizza la morale sovraccaricando inutilmente la dimensione intima e coltivando oltremodo “l’anima”.
78
F.NIETZSCHE, Zur Genealogie der Moral Eine Streitschirift”, Dreck und Verlag von C.G. Naumann, Lipsia, 1888, trad. F. Masini, La genealogia della morale, , Adelphi, Milano, 1968 e 1984, p. 15.
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Si rivolge impietosamente verso sé stesso con la crudeltà che naturalmente è indirizzata agli altri e celebrando il “culto” dell’auto inflizione di dolore diventa più mansueto per il corpo sociale, viene “incapsulato nell’incantesimo della società e della pace.”79
Esiste un copioso, esorbitante piacere anche dei propri dolori, del proprio farsi soffrire - e tutte le volte che l'uomo si lascia persuadere all'autonegazione in senso "religioso" o all'automutilazione, come accadde tra i Fenici e gli asceti, o in generale a fuggire i sensi, a disincarnarsi, alla contrizione, alle convulsioni penitenziali dei puritani, alla vivisezione della coscienza e al pascaliano "sacrifizio dell'intelletto", è la sua crudeltà ad attirarlo e a incalzarvelo segretamente, è quel pericoloso brivido di una crudeltà rivolta "contro se stesso".80
L’uomo così percepisce “nuovi” sentimenti, primo fra tutti il senso di colpa, che nasce dal sentirsi debitore, dalla “vergogna dell’uomo dinanzi all’uomo”81
che il filosofo chiama cattiva coscienza.
Il “modello della violenza”, dunque, per Nietzsche, non deve essere estinto.
6. Scetticismo.
Molti filosofi contemporanei sono convinti che libertà e determinismo causale siano incompatibili, altri, più radicalmente, concludono i problemi concettuali posti dalla libertà del volere non siano umanamente risolvibili.
Così, ad esempio, Thomas Nagel:
Al termine del cammino che sembra condurre verso la libertà e la conoscenza si trovano scetticismo e impotenza82.
79 Ivi, p.73
80 F.NIETZSCHE, Jenseits von Gut und Böse, Dreck und Verlag von C.G. Naumann,
Lipsia, 1886, trad. di F. Masini, Al di là del bene e del male, Adelphi, Milano, 1968 e 1977, p. 77.