SEZIONE III IL SIGNIFICATO DELL ’ INTERAZIONE TRA I SENS
15. Traduzione
15.2. Indeterminatezza della traduzione
In un testo molto importante degli anni Sessanta, Quine enunciò la sua tesi della indeterminatezza della traduzione . Egli propose un esperimento mentale in cui un 25
linguista antropologo si trovi a dover comprendere il linguaggio di un popolo che sia rimasto completamente isolato dagli altri, quindi del tutto sconosciuto. L’unico modo che ha per decifrarlo è cercare di collegare il comportamento verbale manifesto degli indigeni con l’ostensione. Ammettiamo dunque che durante lo studio l’antropologo veda correre qualcosa tra l’erba e l’indigeno dica, indicando: «Gavagai». Lo studioso nota un coniglio e cerca di approfondire la traduzione provvisoria di «Gavagai» con «coniglio». Ma anche se in tutti i casi in cui lo studioso vedesse un coniglio l’indigeno pronunciasse quella medesima parola, in realtà non potremmo essere certi della bontà della traduzione. Quine fa notare come un coniglio intero è presente quando e solo quando è presente una parte non staccata di coniglio, e lo stesso vale ad esempio per una sua fase temporale. Quindi non c’è modo di decidere se «Gavagai» voglia dire «coniglio» o «parte non staccata di coniglio», soltanto tramite ostensione. La conclusione da trarre è che nell’indigeno si trova un dato percettivo simile al nostro che lo porta a dire «Gavagai», senza essere in grado di specificarne il significato. Quindi, in qualunque manuale di traduzione sussisterà sempre un margine di arbitrarietà. Se Quine ha ragione, allora non c’è modo di stabilire un criterio generale per determinare a cosa si riferiscono le parole, e proprio da questo dato sorge quella che Quine chiama «inscrutabilità del riferimento, cioè l’impossibilità di determinare univocamente il riferimento senza specificarne il dizionario con cui si sta operando.
«Commensurabilità, compatibilità, comunicabilità», in Kuhn (2000), pagg. 35-37.
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Quine (2008).
Kuhn fa però notare che in realtà la situazione immaginata da Quine non è propriamente un caso di traduzione, perché tradurre da una lingua A ad una lingua B implica la conoscenza di entrambe, in modo da poter trasformare un enunciato di A in un enunciato di B, mantenendo lo stesso significato. Al contrario, l’antropologo descritto da Quine non conosce affatto la lingua dell’indigeno.
[Molti fraintendimenti dipendono] dall’aver posto sullo stesso piano interpretazione e traduzione. […] Ritengo sia un’equazione sbagliata, e che l’errore sia importane. […] La confusione è facile perché la traduzione di fatto implica spesso, o forse sempre, almeno una piccola componente di interpretazione. 26
A differenza della traduzione, l’interpretazione è un’attività in cui l’artefice non conosce una delle due lingue coinvolte, che imparerà alla fine del processo. La possibilità di ottenere una traduzione è una questione ulteriore. Riprendendo l’esempio di Quine, l’antropologo si trova di fronte a «Gavagai» come un bambino che debba imparare ad usare un nuovo termine della propria lingua. Qualora riuscisse a esprimere i referenti del termine indigeno con parole della propria lingua, si tratterebbe di una traduzione riuscita, e queste potrebbero essere abbreviate con un nuovo termine o introducendo nella sua lingua il termine indigeno «Gavagai». Ma se accadesse che l’interprete, avendo imparato ad usare e riconoscere i gavagai, si rendesse conto che fosse inesprimibile in modo corretto attraverso le parole della propria lingua, allora il termine rimarrebbe come termine indigeno intraducibile. È questo tipo di difficoltà che porta all’incommensurabilità. Per comprendere meglio da cosa dipenda questo fenomeno, Kuhn ci invita a pensare alla parola francese «pompe» [pompa]. In certi casi il suo equivalente inglese è «pomp» [pompa, sfarzo], mentre in altri l’equivalente è «pump» [pompa, macchina idraulica]. Questo è un caso di ambiguità di referenti e non è problematico. Ma prendiamo ora il termine «esprit» [spirito] che può essere sostituito, a seconda del contesto in cui è inserito, da «aptitude» [attitudine], «mind» [mente], «intelligence» [intelligenza], «wit» [ingegno], e così via . Qui siamo di fronte a qualcosa di diverso: una disparità concettuale, che è 27
«Commensurabilità, compatibilità, comunicabilità», in Kuhn (2000), pag. 38.
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Ivi.
la vera responsabile dell’incommensurabilità.
Al di là di cosa si pensi su questa precisazione di Kuhn riguardo agli argomenti di Quine, entrambi sono comunque d’accordo sull’esistenza di uno scarto ineliminabile tra linguaggio e percezione e che tale aspetto porti dritto ad un problema nell’individuazione dei referenti di un termine e del suo significato. Quindi, gli stessi argomenti che spingono Quine ad affermare che possono esistere tanti manuali di traduzione tra due lingue, tutti legittimi e corretti, ma non unificabili, portano anche all’affermazione di Kuhn che un unico manuale generale di traduzione meccanica non può esistere. Si tratta solo di decidere se si crede che debba esistere un linguaggio universale (allora il significato non esiste), o se si pensa che possano esistere tanti linguaggi, nessuno più fondamentale degli altri, e in parte non reciprocamente traducibili. Quello che io affermo è che se questi argomenti sono corretti, allora tale scarto sussiste anche fra i sistemi sensoriali e non esclusivamente tra il livello linguistico e quello percettivo (inteso come un unico ambito generalizzato). La tassonomia che una mente costruisce del mondo in cui vive, i suoi concetti, sono alla base percettivi e composti dall’apporto di ogni singolo sistema sensoriale . Da questa 28
considerazione, mi pare si possa far derivare senza artifici ogni questione sull’incommensurabilità, come sulla relatività ontologica. Infatti appare assai più difficile giustificare l’inscrutabilità del riferimento con in gioco solo due elementi: il linguaggio e il mondo percepito. Se al contrario la partita si svolge fra linguaggio e una quantità di percezioni diverse tutto diviene più naturale.
Questo vuol dire che i concetti di ogni tipo (linguistici e percettivi) possono differire da cultura a cultura e in parte da persona a persona, in modo da costituire menti fra loro localmente incommensurabili. Quindi, almeno in teoria, dobbiamo ammettere anche la possibilità di menti quasi del tutto incommensurabili fra loro, cioè quasi incapaci di comunicare. Ma perché allora accade tutt’altro? In realtà, non solo le persone appartenenti ad una stessa cultura riescono a comprendersi bene, ma ci riescono anche persone di realtà culturali estremamente differenti. Ovviamente, il linguaggio è uno strumento determinante per operare una tale «sintonia mentale»;
Queste affermazioni verranno giustificate successivamente, in §16.
riuscire a tradurre, per quanto possibile, la lingua di uno in quella dell’altro è di grande aiuto per la comprensione reciproca, ma molto dipende anche da un altro fattore che sta a monte: l’esperienza. Di fatto, tutti viviamo in uno stesso mondo e comunque facciamo esperienze per molti aspetti simili (ad esempio, perché descrivibili con le stesse leggi empiriche, a partire da uno stesso apparato percettivo e cognitivo). Prima di provare a spiegare come possa emergere l’oggettività da tale situazione, è necessario capire fino in fondo quanto possa incidere specificamente l’interazione dei sensi nella determinazione di una tassonomia percettiva e nel sistema concettuale in generale. Non si tratta semplicemente di una diversa categorizzazione degli stessi elementi percettivi provenienti dai vari sensi. Per prima cosa, nella mia visione, la concettualizzazione è un tutt’uno con i sistemi percettivi; inoltre esiste un modo più sottile di mischiare le carte in tavola, che può essere illustrato bene dalla visione subsimbolica dell’attività cognitiva, messa in campo dal connessionismo. Iniziamo da quest’ultima affermazione.