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Il pregiudizio sugli inosservabili

Nel documento PERCEZIONI, CONOSCENZA E COMPRENSIONE (pagine 173-177)

SEZIONE IV PERCEZIONI E CONOSCENZA

20. Cosa rende possibile l’oggettività?

20.1. Il pregiudizio sugli inosservabili

Un ultimo punto che vorrei toccare di sfuggita, perché anch’esso conseguenza diretta della visione crossmodale dell’esperienza, è quella degli oggetti osservabili e non osservabili. Se gli oggetti d’esperienza sono effettivamente costruzioni, mi pare assolutamente razionale metterli tutti sullo stesso piano. Ho affermato che i concetti si formano essenzialmente dall’esperienza, puntando l’attenzione sull’interazione dei sistemi sensoriali, ma ho anche mostrato come di fatto la nostra percezione sia guidata e plasmata a più livelli dalle conoscenze già acquisite. Ho aggiunto inoltre che l’affidabilità della percezione è dovuta, non tanto alle esperienze in sé, quanto al modo in cui le acquisiamo, sfruttando canali sensoriali diversi e indipendenti. Ma allora che fine ha fatto il pregiudizio positivo degli empiristi (come ad esempio quello di van Fraassen ) nei confronti degli osservabili? Per comodità, distinguiamo la 23

questione in vari casi:

1. Enti osservati dagli uomini senza l’ausilio di strumenti. 2. Enti osservabili come nel caso precedente, ma non osservati. 3. Enti non osservabili dagli esseri umani con i soli sensi.

4. Enti non osservabili in linea di principio, secondo gli stessi principi della teoria che li postula.

Purtroppo non posso occuparmi dell’ultimo punto, che ho aggiunto solo per completezza concettuale, perché una discussione mirata sulla conoscenza scientifica ci porterebbe troppo lontani, anche se sarebbe estremamente interessante. In (2) si fa riferimento a quegli enti che siamo in grado di osservare ma che non abbiamo osservato, magari perché lontani nello spazio o nel tempo. Da un punto di vista

van Fraassen (1985).

epistemologico, c’è davvero un differenza irriducibile fra accettare enti non osservati e non osservabili? In fondo in entrambi i casi si tratta di inferenze ampliative e ipotesi sottodeterminate. Se così fosse, perché non dovrebbero essere accolti anche gli enti non osservabili all’interno di una teoria scientifica o della conoscenza comune? Credo che questo pregiudizio derivi, anche questo, dal vizio di considerare la percezione come un’unica questione.

Pensiamo ad una specie con un’intelligenza paragonabile alla nostra, proveniente dal pianeta «GB», dotata di 7 sistemi sensoriali (non importa specificare se siano sensi più o meno simili ai nostri). Chiamiamo questa specie «Epta». Immaginiamo anche che su GB esistano altri esseri senzienti del tutto simili agli Epta, ma appartenenti ad una razza diversa, dotata degli stessi sensi, tranne uno. Li chiameremo «Eksi». Se consideriamo gli Eksi capaci di conoscenza, vista l’acquisizione di esperienza attraverso i loro sei sensi, cosa dire degli enti per loro inosservabili che però sono osservabili per gli Epta? Anche gli Epta hanno una conoscenza del mondo, ed è molto simile a quella degli Eksi, visto che hanno sei sensi in comune, ma è anche vero che esperiscono enti che all’altra razza sono naturalmente inaccessibili (chiamiamoli «Z»). Supponiamo inoltre che gli Eksi siano riusciti a costruire un dispositivo che gli permetta di registrare indirettamente la presenza degli Z e che li abbiano così inseriti coerentemente nel loro sistema di conoscenze (sono cioè enti non osservabili, postulati da una loro teoria scientifica). A questo punto la domanda da porsi è: perché gli Epta sarebbero legittimati a credere nell’esistenza degli Z e gli Eksi no? E la stessa cosa varrebbe se gli Eksi riuscissero a costruire un rilevatore di Z e lo impiantassero come protesi, integrandolo a livello cerebrale con gli altri sistemi sensoriali? Si tratta di una situazione simile a quelle discusse in §4.6 a proposito della mente estesa (ora credo dovrebbe risultare più chiaro perché là ho insistito sull’importanza dell’integrazione informazionale, come elemento essenziale per poter parlare concretamente di estensione cognitiva). Se la teoria degli Eksi «è utile» alla conoscenza, tanto quanto le percezioni degli Z da parte degli Epta, non vedo perché dovremmo pensarle come situazioni eterogenee. D’altronde, specularmente, esistono tanti casi inversi, mi pare, in cui alcuni enti percepiti da un senso devono essere considerati non reali all’interno di una visione scientifica (ad esempio la natura continua della materia).

Da queste considerazioni mi pare emergano almeno due aspetti significativi: da una parte la relatività dell’ontologia, che dipende tanto dalla molteplicità dei sensi, quanto dall’apparato conoscitivo nel suo insieme; dall’altra che i dubbi sugli enti inosservabili sono estensibili a quelli osservabili. Ciò che colpisce in questo esperimento mentale non è tanto la presenza o meno di un senso naturale per cogliere l’esistenza di una categoria di enti; piuttosto colpisce, a mio avviso, la similitudine del ruolo dei sensi e degli strumenti che costruiamo per registrare informazioni. Ciò che poi importa veramente è se, e come, queste informazioni vengono inserite all’interno del corpus conoscitivo preesistente. Detto in altri termini, il fattore essenziale è quello di come integrare le informazioni provenienti da un senso (o da uno strumento) con quelle ottenute dagli altri (assieme alle ulteriori conoscenze e informazioni già possedute, o alle teorie formulate). Nella conoscenza scientifica, tutto questo avviene con grande fatica intellettuale e appoggiandosi fortemente a strumenti matematici; nella conoscenza quotidiana avviene tutto, magari con altrettanta fatica, ma in modo molto meno controllato, spesso non esplicito e non verbale, proprio come avviene nell’addestramento delle reti neurali.

Forse può risultare più chiaro ciò che ho in mente aiutandoci con Sellars. Sono d’accordo con il suo pensiero secondo il quale è erroneo e fuorviante descrivere la conoscenza umana come fondata su un livello di resoconti osservativi privilegiati.

Soprattutto, è a causa del suo carattere statico che l’immagine è fuorviante.

Sembra di essere costretti tra l’immagine di un elefante che poggia su una tartaruga (che cosa regge la tartaruga?) e l’immagine di un grande serpente hegeliano della conoscenza che si morde la coda (dove comincia)? Nessuna delle due può andar bene. Perché la conoscenza empirica, come la sua estensione raffinata, la scienza, è razionale, non in quanto ha un fondamento, ma perché è un’impresa autocorrettiva, che può mettere qualsiasi tesi a repentaglio, ma non

tutte allo stesso tempo. 24

Proprio per non cadere in una delle due visioni fuorvianti descritte da Sellars, l’idea della conoscenza che ho cercato di delineare, che ha alcuni tratti coerentisti, necessita

«Empirismo e filosofia della mente», in Sellars (2013), pagg. 222 e 223. Enfasi dell’autore.

di un’uscita verso l’esterno, cioè verso ciò che non sia solo soggetto conoscente. Ciò che va cercato non è un inizio per quel serpente (come non ha senso cercare un ulteriore fondamento su cui far poggiare la tartaruga: come ci mostra la metafora si tratta di due regressi all’infinito); l’accesso a ciò che è altro dal soggetto conoscente non avviene attraverso un senso né attraverso più sensi, ma attraverso l’interazione dei sensi, cioè dal loro «dialogo» . Solo dalla loro integrazione, dal loro reciproco 25

confronto, dalla loro coordinazione, è possibile giungere ad una conoscenza che abbia un certo grado di oggettività e affidabilità. Si possono così ammettere condizioni di giustificazione della conoscenza sia internaliste (non inferenziali nel senso classico, visto che il modello a cui faccio riferimento è quello connessionista) che esternaliste. Da questa visione discende, mi pare in modo naturale, la conclusione secondo cui la differenza tra enti osservabili e non osservabili non è dirimente nel discorso epistemologico, perché non sono le informazioni sensoriali in sé a rendere possibile la conoscenza, ma la loro reciproca interazione. Per questo, ciò che importa delle informazioni raccolte è la loro mutua indipendenza da una parte e la loro possibile integrazione dall’altra. In definitiva, non posso essere d’accordo con van Fraassen quando afferma che «la credenza insita nell’accettare una teoria scientifica è relativa solo al fatto che essa “salvi i fenomeni”, cioè descriva correttamente ciò che è osservabile» . Il suo pregiudizio positivo nei confronti degli enti osservabili è ai miei 26

occhi ingiustificato perché tra la conoscenza comune e quella scientifica c’è una differenza di grado più che di genere. Per dirla con Sellars, se facciamo prevalere l’immagine manifesta del mondo, si finisce per approdare ad una visione strumentalista della scienza , che finirebbe per precluderci ogni possibile 27

comprensione.

Il fatto che l’accesso all’esperienza non sia unico è uno degli elementi decisivi nel mostrare che il

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piano osservativo non possa essere fondazionale, neppure nel modo pensato dalla concezione standard delle teorie scientifiche dell’empirismo logico.

van Fraassen (1985), pag. 28.

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«La filosofia e l’immagine scientifica dell’uomo», in Sellars (2013).

Nel documento PERCEZIONI, CONOSCENZA E COMPRENSIONE (pagine 173-177)