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Paradigma subsimbolico

Nel documento PERCEZIONI, CONOSCENZA E COMPRENSIONE (pagine 135-140)

SEZIONE III IL SIGNIFICATO DELL ’ INTERAZIONE TRA I SENS

15. Traduzione

15.3. Paradigma subsimbolico

Abbiamo parlato delle differenze tra il paradigma cognitivista classico e quello connessionista, ma ora è necessario soffermarsi su un aspetto delle reti neurali che qui non è ancora emerso esplicitamente. Per ogni teoria, scientifica o filosofica, è importante riuscire a definire un corretto livello di analisi su cui muoversi per studiare fenomeni e testare ipotesi. In questo lavoro si sono portati esempi che indagano il funzionamento cognitivo del cervello a partire non dal singolo neurone, ma da unità funzionali costituite da molti neuroni (in alcune proposte un centinaio). Quindi, il singolo neurone resta l’unità minima di trasmissione dell’informazione, ma da solo non è in grado di determinare pensieri o comportamenti, che sono invece espressi dalle unità funzionali più ampie. Una tale strategia distributiva è presente massicciamente anche in altri aspetti del funzionamento del nostro corpo (ad esempio, tratti fenotipici molto complessi sono espressi da svariati geni collocati in diversi cromosomi). Per questo, il paradigma connessionista non si situa a livello neuronale,

ma neppure a livello simbolico come quello del cognitivismo classico, dove le entità cognitive sono simboli (semanticamente interpretati perché riferiti ad oggetti esterni e sintatticamente manipolati). Nei modelli dell’IA classica, si ha quella che Andy Clark chiama «semantica trasparente» , caratterizzata da operazioni su stati interni 29

determinati sintatticamente, che corrispondano a concetti e relazioni esprimibili mediante il linguaggio naturale. Le reti neurali, al contrario, hanno entità cognitive dinamiche costituite da «microtratti» e non manipolabili sintatticamente come i simboli. Per questo motivo, il significato di un concetto è sempre sfumato e contestuale, visto che può essere rappresentato da svariati schemi di attivazione che possono avere in comune tra loro alcuni tratti ma non altri (cioè l’attivazione di alcuni nodi e non di altri). Questo significa che un sistema connessionista subconcettuale «non ammette una descrizione completa, formale e precisa a livello concettuale» . Il livello di descrizione corretto per comprenderne il funzionamento è 30

dunque più basso di quello simbolico e più alto di quello neuronale.

È mia opinione che questo modello possa dar conto in modo eccellente e dettagliato della distinzione vista poc’anzi tra ambiguità di referenti e disparità concettuale. Prendiamo il caso della parola «boa»: una rete neurale non ha problemi a distinguere il caso in cui si riferisca a un serpente costrittore da quello in cui si riferisca ad un galleggiante, perché le caratteristiche della loro rappresentazione distribuita sarà estremamente diversa. L’attivazione di altre parole legate alle foreste tropicali, agli animali, ecc. faranno propendere per la prima possibilità; parole legate al mare, alla navigazione e simili, alla seconda. Ma questo risultato può essere ottenuto anche con un approccio convenzionale, dove la parola è collegata ai diversi significati e guidata nella scelta da regole euristiche . La differenza si fa notare 31

quando la discriminazione fra i diversi significati è molto sottile, cioè quando deriva da «disparità concettuale». Per mostrarlo prenderemo in esame due esempi: uno descrive la capacità delle reti neurali di discriminare sfumature all’interno di uno stesso significato, l’altro la capacità di dar conto della disparità concettuale.

Clark (1994), pag. 10.

29

Smolensky (1992), pag. 70.

30

In tale approccio sussiste però il problema di dover specificare in anticipo le possibili connessioni.

Il primo esempio è tratto da «Microcognizione» di Andy Clark, con piccole 32

modifiche, e mostra la capacità di disambiguazione delle reti. Si considerino i seguenti enunciati:

1) Il bambino ha lanciato la palla molto in alto. 2) La palla ha rotto il vetro.

3) Egli sentì una palla dura nello stomaco.

Nel primo caso è facile immaginare che con il termine «palla» si intenda una palla morbida, magari di spugna. Nel secondo, al contrario, è lecito pensare ad un pallone di cuoio. Nell’ultimo si tratta di una metafora e quindi la palla sta per una sensazione di gonfiore. Eppure, tutti questi casi potrebbero essere rappresentati in una rete da configurazioni di attivazione solo in parte differenti. Ad esempio, il caso (1) e (2) avrebbero in comune l’essere sferico e il servire per giocare, mentre il (2) e il (3) l’essere duro.

Il secondo esempio è quello in cui «esprit» può essere sostituito, a seconda del contesto (quindi del significato che ha in un certo enunciato), da «attitudine», «mente», «intelligenza», «ingegno», ecc. Anche qui, il termine darà vita a schemi di attivazione che saranno diversi a seconda delle sfumature di significato, ma si tratterà di differenze molto sottili e non esprimibili di per sé attraverso altri concetti, perché subsimboliche. Si tratta di schemi di attivazione molto più simili tra loro rispetto a quelli dell’esempio precedente.

In sintesi, nel paradigma subsimbolico non troviamo manipolazioni di simboli che rappresentino in modo netto e preciso le nostre descrizioni di alto livello, e i casi di ambiguità di referenti, metafora e disparità concettuale possono essere posti a livelli diversi di un’unica scala in cui si misura la finezza nella differenziazione dei vari schemi di attivazione di un medesimo concetto. Quello che cerco di sottolineare è che tutto questo non vale esclusivamente quando sono in gioco le parole, ma anche per i concetti cha hanno una base percettiva e per tutti gli altri stati mentali che derivino

Clark (1994), pagg. 151 e 152.

dalle loro interazioni. C’è un esperimento a mio avviso molto istruttivo per comprendere come tale idea sia tanto fondamentale da essere presente anche a un livello molto profondo: è quello compiuto da Fetz e Finocchio negli anni Settanta . 33

Questi due scienziati hanno addestrato delle scimmie a contrarre un solo muscolo del braccio alla volta per poter registrare ininterrottamente un singolo neurone della corteccia motoria primaria (M1). Con varie tecniche volte a rinforzare le contrazioni in ognuno dei quattro muscoli, notarono che molti neuroni singoli erano in grado di aumentare la propria attività prima o durante la contrazione dei muscoli, e molti neuroni venivano coattivati da tutti e quattro i muscoli. Quindi, riuscirono a dimostrare che la correlazione tra l’attivazione di singoli neuroni di M1 e la contrazione dei muscoli non è fissata una volta per tutte, ma muta a seconda del contesto e del tipo di movimento generato. Come riporta Nicolelis, «Fetz in seguito coniò il termine “campo muscolare” per indicare l’insieme dei muscoli coattivati dall’azione di un singolo neurone corticale. Questo campo muscolare metteva in crisi l’idea che “linee contrassegnate” parallele collegassero singoli neuroni individuali della M1 a specifici muscoli del corpo» . Perciò, che l’unità funzionale sia un pacchetto di 34

neuroni molto vicini o che si tratti di popolazioni neuronali più variamente distribuite nella neocorteccia, ciò che qui interessa è mostrare come il funzionamento del cervello non avvenga a livello di unità simboliche stabili e nette. Questo risulta ancora più evidentemente se, come abbiamo appena visto, neppure un singolo neurone ha una connessione univoca con la contrazione di un muscolo.

Qualcosa di molto simile è stato riscontrato dallo stesso Nicolelis negli anni Novanta 35

a proposito delle vibrisse dei topi e i neuroni che le mappano nella corteccia somatosensoriale primaria (S1), come anche nel nucleo ventrale postero-mediale del talamo (VPM). È emerso che uno stesso neurone del VPM rispondeva, seppur in modo diverso per tempistica ed ampiezza, alla stimolazione meccanica di molte vibrisse e non di una sola. Non si tratta dunque di connessioni dirette fra neuroni e vibrisse, ma di un collegamento probabilistico. Una singola vibrissa è collegata solo

Fetz e Finocchio (1971). 33 Nicolelis (2013), pag. 194. 34 Ivi. 35

probabilisticamente ad un campo recettivo neuronale.

Questi esperimenti, se non smentiti, credo riescano a mostrare come finanche nel moto, oltre che nella percezione, ogni funzione non sia espletata in modo univoco, netto e determinato da un neurone o da un numero prefissato di neuroni. Si tratta al contrario di un’attivazione probabilistica di popolazioni di neuroni, influenzata da sfumature sottilissime, sensibili al contesto. A maggior conferma di ciò, Nicolelis riporta ulteriori esperimenti che dimostrerebbero come le proprietà fisiologiche delle risposte sensoriali dei singoli neuroni nella corteccia gustativa differiscano in modo importante a seconda che un animale stia attivamente leccando qualcosa o che quel qualcosa gli venga spruzzato in bocca.

Tali esperimenti, insieme a quelli visti sulla costruzione del corpo e del mondo, mostrano suggestivamente come il cervello operi in modo non così localizzato e predeterminato come si è creduto fino a pochi anni fa. È proprio questa plasticità guidata dall’esperienza che non permette una tassonomia univoca né concettuale, né percettiva del mondo. In altre parole, tutte queste caratteristiche sono le medesime che ritroviamo nella descrizione dei concetti.

Per controbilanciare tutto quello che abbiamo appena considerato, vorrei spendere qualche parola per rimarcare quanto sia stupefacente il fatto che diverse teorie scientifiche, diversi linguaggi e diverse tassonomie percettive, possano fra loro comunicare, cioè essere in parte traducibili. Come anche Kuhn afferma esplicitamente, l’incommensurabilità è spesso confinata entro limiti ristretti e quindi non porta all’incomunicabilità, ma anche dove non è possibile una traduzione diretta è possibile comunque un’interpretazione.

[Q]ualsiasi cosa possa essere detta in una lingua può venire compresa, con un po’ di immaginazione e di sforzo, da qualcuno che ne parla un’altra. Il prerequisito di tale comprensione, comunque, non è una traduzione, ma l’apprendimento della lingua. 36

La fiducia che con queste parole si ripone nella possibilità di apprendere una lingua

«Mondi possibili nella storia della scienza», in Kuhn (2000), pag. 101. Enfasi dell’autore.

straniera (al di là della possibilità di tradurla nella propria, che è questione altra), attraverso metodi del tutto simili a quelli che permettono ai bambini di imparare la propria lingua madre, su cosa si basa, oltre che sul dato di fatto che ciò effettivamente si realizza? Ciò che permette l’organizzazione della struttura di una tassonomia lessicale è limitata al lessico della comunità considerata, ma per Kuhn ha anche alcuni aspetti biologicamente determinati lungo la filogenesi. Nel caso che cerco di sostenere, dove anche la percezione entra nel gioco della costituzione di una tassonomia, come è possibile la comunicazione e addirittura la scienza? Ora posso solo anticipare che la percezione deve davvero far parte di tale costruzione, perché da questa ipotesi discenderebbe in modo naturale anche la difficoltà di dividere efficacemente il contributo linguistico da quello fattuale della conoscenza, tanto bene evidenziata da Quine nella sua critica all’empirismo. 37

Nel documento PERCEZIONI, CONOSCENZA E COMPRENSIONE (pagine 135-140)