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Inseguendo la donna ermetica: verso l’identità tra alia e eadem

PARTE SECONDA

6. LE PAROLE DEL MITO, OVVERO SULLE TRACCE DELLA DONNA PERSEFONICA

6.1 Inseguendo la donna ermetica: verso l’identità tra alia e eadem

L’alterna presenza-assenza di un’immagine, figura muliebre dalla vocazione ctonia, s’insegue e rincorre nei versi e nelle prose degli autori della terza generazione. È già capitato di presentirne la vicinanza nella sera, nel momento in cui l’alabastro del cielo stinge i colori sulla terra e lascia intuire il disegno di un profilo; o quando il crepuscolo, complice il vento, distende sui prati un’increspatura mobile, evocatrice di trame lontane. Abbiamo tentato di decifrarne le tracce nel mutevole volto della luna e sfiorata l’essenza (la connaturata possibilità metamorfica) nel punto in cui l’aria incrocia i vettori della trasparenza; ora non possiamo esimerci dal soffermarsi a descriverla attraverso le parole-chiave che ne compongono l’identikit. Vediamola dunque da vicino.

È una silhouette che si allontana verso le «zone piagate dalla sofferenza»1 (AdS), una forma umana che si aggira per i bui sentieri dell’Ade (AN), un viso di donna «già assente che spazia / sul vetro della sera»2 (AN) o che «tentenna nel limpido topazio / stupito»3

(GS), un personaggio al quale in un gesto di resa sfuggono di mano i fiori raccolti (FdB) e che in un simbolico atto di riparazione continua a reciderne anche nell’Oltretomba (AN); è la «sposa / notturna»4 (FdB), «nera», «scottata»5 (SB), «abbrunata»6 (DM) che, in coerenza con i miti di Proserpina e Euridice, «sostiene come un dono nuziale il tempo che [la] distingue»7, oppure è un monstrum che nella terrificante apparenza richiama l’oscuro destino

di Persefone, regina dell’Averno (DM o FdB); può rivestire ancora una doppia identità in cui la fanciulla e la madre si confondono e travalicano l’una nell’altra, ripetendo l’eterno enigma di Kore-Demeter (BaE e SB) o slittare verso la trascorrenza molteplice stabilendo legami di continuità nell’intermittenza (BaE, DM, SB).

Nel contatto con una realtà intrinsecamente duplice – sia per l’ambivalenza tra apparire ed essere, fenomeno e noumeno, permanenza e mutamento che per il rimando costante da ieri a oggi – tutte le figure di mulier si sdoppiano o rifrangono quasi all’infinito: la donna è insieme alia e eadem, un’unità che tende ad allargarsi a diade o miriade, mantenendo inalterato il nucleo originario. Quando la trascorrenza scorre sul nastro

1 AdS, p. 27.

2 Esitavano a Eleusi i bei cipressi (AN), vv. 9-10. 3 Ragazza pensile (GS), vv. 9-10.

4 Eco in un’eco (FdB), vv. 6-7.

5 Le citazioni sono tratte entrambe da SB, p. 12. 6 DM, p. 27.

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orizzontale (il piano del récit), si attua il transfert; se slitta in un tempo lontano, si instaura la metamorfosi. Si può parlare quindi di transfert come scambio di attributi e potenziamento di connotati (affinità, analogie, isotopie) tra i vari personaggi femminili; di metamorfosi quando la stessa commutazione scatta tra donna e imago leggendaria, facendo retrocedere la fiction nel passato fino a intersecare le fanciulle del mito. Transfert e metamorfosi sono quindi declinazioni dell’assenza, poiché fanno sì che la donna non sia mai nell’hic et nunc ma, per così dire, nell’illic et olim. In questo senso risulta doppiamente assente perché, anche nei momenti di presenza, è contesa dalla sovrapposizione di altre figure che la rendono ambigua e sfuggente.

Sul piano sincronico, e con l’esclusiva della prosa, la connessione una-molteplice dà luogo a transizioni pur nella conservazione dell’identità. Può così accadere che in DM Silvana trapassi in Miriam o che Miriam si confonda con Silvana; che in BaE la giovinetta casuale si sovrapponga alla fanciulla suicida, la donna alla madre, che la sorte incompiuta della protagonista di Estasi si prolunghi in quella diversamente irrealizzata della cugina; che in SB la sposa bambina possa simbolizzare contemporaneamente una figura femminile intravista il giorno delle nozze «contro la porta aperta di una chiesa»8, la nonna paterna

giunta dalla Sicilia sul veliero per congiungersi con il discendente di antichi marinai, la madre Erminia «uscita appena adolescente dalla [...] casa»9 natale che il padre sposò quasi a «soccorrer[e]»10, la compagna con cui condividere l’amore «sino ad esserne abbagliati»11.

Estendendo al personaggio, con i dovuti ‘arrangiamenti’, la tipologia di relazione testo includente-testo incluso proposta da Lucien Dällenbach12 per la mise en abîme, si delineano tre distinti modelli di ‘scorrimento’: la «duplicazione semplice», che instaura un legame di similitudine tra la protagonista della sequenza e la figura in essa incasellata; la «duplicazione all’infinito», dove si verificano nessi di somiglianza fra la donna presente e quella incorporata, a sua volta inglobante il rimando a un’altra e a un’altra ancora; la «duplicità paradossale», se anche la mulier incastonata può contenere quella che la racchiude. Al rapporto diadico stabilito dalla prima e ultima accezione si oppone la serie di identificazioni plurime della seconda, che realizza una sorta di amplificazione orizzontale sistematica, trasferita dallo statuto retorico a quello ontologico.

8 SB, p. 15. 9 SB, p. 260. 10 Cfr. SB, p. 24. 11 SB, p. 12.

12 Lucien Dällenbach, Il racconto speculare: saggio sulla mise en abîme [Le récit spéculare. Essai sur la mise en abîme,

1977], Parma, Pratiche, 1994, p. 47; su cui si veda Umberto Curi, Endiadi. Figure della duplicità, Milano, Feltrinelli, 1995, p. 74.

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Il primo caso trova esemplificazione in BaE nell’analogia tra la donna e la madre, la ragazza di Stasi e la giovinetta di Estasi, o nel rinvio perenne tra le protagoniste di DM; il secondo nell’incessante ‘stringa’ transitiva donna-madre-giovinetta-cugina-Elena-Renata- ‘tu’ allocutorio di BaE, sposa bambina-ava-madre-amante di SB, o nella lapidaria affermazione di DM «Tu cambi all’infinito»13; il terzo nel rispecchiamento binario tu-Elena, giovinetta-Renata (BaE), sposa bambina-Giulia (SB).

Nella «duplicazione semplice» è un oggetto concreto, di preferenza lo specchio, la cui funzione riflettente è simbolo di endiadi e apparenza, a innescare il parallelismo; ma può essere anche una chiera, un vetro, un prisma, un cristallo colorato, una porta a lasciar trasparire un’immagine affine eppure diversa da quella che si riflette o si sporge, un particolare del volto (lo sguardo, la fronte) a racchiudere la cifra di un’isotopia; nella «duplicazione all’infinito» è un sentimento condiviso (dolore, ansia), un riflesso attitudinale (modo d’incedere o di abbandonarsi su una poltrona), una manifestazione emotiva (singhiozzo, sorriso, pianto) a trasmettere la consegna analogica; nella «duplicazione paradossale» una condizione esistenziale (ambascia, febbre), un gesto estremo (suicidio), un nome proprio a schiudere la coincidenza identificativa.

Tra la diade riconducibile alla «duplicazione semplice» e quella catalogabile sotto la voce «duplicazione paradossale» sussiste un sottile confine. Si tratta di gradazioni ontologiche o di variatio esegetiche, che indirizzano al collocamento dei vari rapporti entro l’una o l’altra categoria. Perché la scelta cada sull’ultima opzione è necessario che entrambe le figure si riflettano e compenetrino a vicenda e che il secondo termine del parallelismo sia rappresentato da un nome proprio (Elena, Renata, Giulia) agganciato a precise referenze autobiografiche14. Il discrimine è proprio qui, nella fusione tra personaggi reali e

immaginari.

Non è escluso poi che due tipologie confluiscano nello stesso esempio o che la medesima somiglianza possa essere etichettata sotto differenti formule, a seconda che si allarghi o si restringa l’angolo visuale15.

A livello diacronico, estensibile a prosa e poesia, la dialettica una-plurima favorisce invece l’identificazione con Proserpina e Euridice, metafore di morte: simili per età, status, destino, calamitano nell’orbita luttuosa la donna ermetica, provocando una scissione tra

13 DM, p.27.

14 Elena Monaci, moglie di Luzi; Renata, sorella maggiore di Elena, morta suicida nell’autunno del 1933;

Giulia Veronesi, legata a Gatto negli anni della comune collaborazione a «Casabella».

15 È per esempio il caso dell’identificazione mater-mulier di Stasi, rubricabile sotto «duplicazione semplice» e

«duplicazione all’infinito» o quello della ‘sposa bambina’ che, nell’identità tu-Giulia, fa scivolare la «duplicazione all’infinito» verso quella «paradossale» (cfr. infra, paragrafo 6.4 Epifanie muliebri nella prosa: trascorrenze orizzontali e verticali).

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realtà e visione, piano temporale del nunc e scarto dell’olim, significato stricto sensu e valore polisemico.

Come se si sollevasse la tela di una rappresentazione o si cambiassero i fondali a scena aperta, a un certo punto del testo poetico-narrativo un indizio (la sera che cala), un presagio (il vento che increspa l’erba, il cielo che diviene opalescente, il bosco che si popola di spettri e di sembianze mutevoli), un richiamo (i fiori che cadono o resistono alla presa, l’insidia di un serpente, il vetro o lo specchio16 che sfumano le immagini) avverte che tra le

pieghe del reale si sta insinuando il virtuale: dietro la sembianza che si affaccia sul proscenio si può intravedere un’altra, un’ombra antica; al di là della mise-en scène si può scorgere un contesto diversificato, allusivo di valenze mitologiche e il segno linguistico è spia di significazioni più complesse.

Si compie così il processo di ‘divinizzazione’ della femminilità che addita nella discesa ad Inferos la possibilità di recupero di una verità primigenia, forse il sensus mortis immanente alla vita o la continuità che sopravvive alla lacerazione e all’addio.

Ogni esemplare aggiunge una variazione al tema: in Luzi prevalgono gli elementi legati a Persefone, spesso intrecciati o sostituiti dal culto eleusino17; con Parronchi si

verifica un rovesciamento di genere poiché è il giovane, anziché la fanciulla, a recare i fiori e il bosco assume la dimensione raffinata della serra o del giardino; in Bigongiari è Euridice- Miriam a voltarsi e a perdere il poeta, novello Orfeo novecentesco; con Gatto tornano il motivo notturno della «sposa nera» e la trascorrenza mater-puella, condensata fin dal titolo della Sposa bambina.

16 Tra i termini indicati come medium specchio e vetro ricorrono tanto nelle transizioni orizzontali che in quelle

verticali. Li possiamo trovare, soprattutto in Luzi, alla stregua di oggetti ‘transazionali’ per ritagliare la diade entro l’unitarietà identificativa; in questo caso prevalgono i particolari esterni o tattili: la ‘cornice’, l’‘ebano’, il ‘frigore’. Quando l’accento cade sulla trasparenza e sulle facoltà ‘illusioniste’ della lastra, gli stessi vocaboli trasformano la riflessione ottica in rifrangenza mitica. I due lemmi sono così forme di modulazioni mentali (presentimenti, presagi, preterizioni) che consentono la conoscenza anticipata degli eventi. Se nella fanciulla casuale si specchia la ragazza suicida, la sorte della prima non potrà rivelarsi che infelice; così, se il profilo che si staglia sul vetro risulta già assente, non sarà possibile fermare l’immagine oltre quell’attimo o tradurla in presenza effettiva.

17 Il periodo festivo si apriva ad Atene il 16 di Boedromion (1 ottobre) con la convocazione degli iniziati e

proseguiva il 17 con la cerimonia di purificazione nella baia di Falero; il 19 la processione partiva per raggiungere Eleusi nella notte. Il rito di iniziazione vero e proprio si svolgeva all’interno del santuario nelle notti tra il 21 e il 23 e si concludeva con un grande fuoco e una luce sfolgorante. L’esperienza eleusina cominciava dunque nelle condizioni della «tristezza, della peregrinazione e della ricerca – che corrispondevano alla plane, all’errare e alle lamentazioni di Demeter; […]. Eleusi era il luogo della euresis, del ritrovamento della Kore» (Carl Gustav Jung, Károli Kerényi, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, Torino, Boringhieri, 1972, p. 204). Rispecchiandosi in quella vicenda, ogni iniziato poteva rappresentarsi la propria continuità, che è poi la continuità di ogni essere vivente. Nell’aspetto della maternità e nella rievocazione del mito si univano infatti morte e nascita, perdita e ritrovamento, fine e inizio: gli iniziati ottenevano così la certezza della vita dopo la morte.

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6.2 Per una semantica trasversale

Nella ‘triade fiorentina’ il processo di coagulazione delle immagini segue la stessa traiettoria in prosa e in poesia strutturando gli ordini lessicali intorno a tre categorie: CADUTA/RACCOLTA, FIORI, MANI per Proserpina; RESPICERE, OPHIS, PASSUS per Euridice. Non è raro che a questi paradigmi concettuali si aggiunga per Proserpina MONSTRUM, con allusione alla triste funzione di amministratrice della giustizia sotterranea, per entrambe LAPSUS, sotto cui si riuniscono gli effetti di trascinamento verso gli Inferi e le connotazioni notturne.

Nel caso di Kore sono i particolari, o meglio i dettagli a margine dell’intreccio, a condensare il senso; così l’antefatto, quello che nelle Metamorfosi e nei Fasti di Ovidio18

corrisponde al ludus floreale intorno al lago Pergo, diviene il fulcro che innesca il parallelo. Ci aspetteremmo di trovare, come parole-chiave i vocaboli indicativi dei punti di svolta: rapimento19, ardore20 con riferimento a Dite, inabissarsi21 per il viaggio verso gli Inferi, tracce22 per l’infaticabile inseguimento di Demetra23; troviamo invece fiori con maggiori accenni alla

caduta che non alla raccolta. È singolare che sia un elemento periferico a racchiudere il segreto della metamorfosi: deve esserci allora una valenza simbolica, verso la quale indirizza lo spoglio lessicale.

Nel campo semantico di Proserpina balzano in primo piano (soprattutto con Bigongiari) i verbi cedendi (CADUTA) allusivi alla perdita del mazzo, alla preclusione della vita e del destino, per cui i fiori che si sparpagliano a terra sono specchio di esistenze divelte o disperse, ma anche humus da cui germoglieranno altri semi, altri fiori e quindi possibilità di rinascita. All’alterna vicenda stagionale è così affidata la doppia istanza degenerativa/rigenerativa del ciclo vitale: e forse è in questo incessante movimento, condensato anche nel rito eleusino, che va ricercata la ratio che elegge i FIORI a monogramma di Persefone24.

18 Cfr. Ovidio, Metamorfosi, libro V, vv. 385-394 (da ora Met.) e Fasti, libro IV, vv. 425-444.

19 Cfr. «paene simul visa est dilectaque raptaque Diti» (Met., V, v. 395); «raptor agit currus» (Met., V, v. 402);

«hanc videt et visam patruus velociter aufert» (Fasti, IV, v. 445), «io, carissima mater, auferor» (Fasti, IV, v. 448). Nel passaggio dalle Metamorfosi ai Fasti si attenua l’impronta della violenza, contenuta già nella trama fonetica di «raptor/rapta», mentre «aufert/auferor», che esprimono il senso del portare o dell’essere portata via, lasciano affiorare una sorta di fatalità.

20 Cfr. «usque adeo est properatus amor» (Met., V, v. 396.)

21 Cfr. «stagna Palicorum rupta ferventia terra» (Met., V, v. 406), «panditur interea Diti via» (Fasti, IV, v. 449). 22 Cfr. «vestigia plantae» (Fasti, IV, v. 463), «noto pondere» (ivi, v. 464), «signa reperta» (ivi, v. 466), «hac

gressus ecqua puella tulit?» (ivi, v. 488).

23 Cfr. «concita curso/fertur» (Fasti, IV, vv. 461-462).

24 «Le vicende di Proserpina valgono insomma a inverare la natura caotica del cosmo, costantemente sull’orlo

della dissipazione, della caduta e del disfacimento, ma anche, allo stesso tempo, a certificare un’ansia di ri- nascita interamente affidata allo Streben creativo» (R. Donati, Introduzione cit., p. XVIII).

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Per la RACCOLTA l’esiguo numero di voci fa slittare sullo sfondo la lievità del passatempo puntando l’attenzione sulla fatica gestuale; in un caso il verbo carpendi («strappa»25) crea un collegamento con lo ‘strappo’ della vita perpetrato dal raptus. I fiori

sono straniati e resi inquietanti dagli attributi: appaiono «strani»26 in AdS, «stralunati»27 in

GS; «lancinanti»28 e «pungenti»29 in FdB, trasformati in «muti fiorami»30 o in tardivi «fiori d’ottobre»31 in DM, «neri», «ghiacciati viscidi di brina»32 in AN, specificati, quasi equiparati a

«crisantemi»33 in BaE.

Si verifica una sorta di contrappasso in cui viene ribaltata la scena classica: le fanciulle immortalate da Ovidio, attratte dalla futile ma allettante preda, non avvertono la fatica34, mentre la donna persefonica ha le mani «nervose»35 (AdS) percorse da presentimenti; «lente»36 (AN), affaticate dalla selezione di bizzarri fiori (AN). I colori37 sono

annientati e spenti dal nero («neri fiori»), negativa dei «candida lilia»38 o «lilia alba»39; delle

specie40 precisate da Ovidio «violaria» trapassano in «viole»41 (DM) e «viola trafelata»42 (AN); «papavereas» nei «papaveri»43 di BaE e nei «papaveri [che] ardono ai confini / tra i

tonfi solitari dei meriggi»44 di FdB; «thyma» nei «timi»45 di AdS e nei «timi che avvolge la

musica»46 di GS. Perfino le rose, le rose prescelte dalle ancelle di Proserpina («plurima lecta

rosa est»)47, appaiono limitate da un senso di costrizione («prigioniere»48), ridotte a brandelli

(«i lembi delle rose»49) o già consunte e assurte a emblema di lutto («sono appassite le

25 Pietre e musica (GS), v. 18. 26 AdS, p. 28. 27 Caducità (GS), v. 10. 28 Dismisura (FdB), v. 17. 29 Fuoco di parole (FdB), v. 6. 30 DM, p. 40. 31 DM, p. 55.

32 Già colgono i neri fiori dell’Ade (AN), vv. 1-2. 33 BaE, p. 28.

34 Cfr. «praeda puellares animos proctat inanis,/ et non sentitur sedulitate labor» (Fasti, IV, v. 434). 35 AdS, p. 28.

36 Già colgono i neri fiori dell’Ade (AN), v. 3.

37 Cfr. «Tot fuerant illic, quot habet natura, colores / pictaque dissimili flore nitebat humus» (Fasti, VI, vv.

429-430).

38 Met., V, v. 392. 39 Fasti, IV, v. 442.

40 Cfr. «calthas, violaria, papavereas, hyacinthe, amarante, thyma, rhoean, meliloton, rosa, crocos, lilia» (Fasti,

IV, vv. 437-442).

41 DM, p. 47.

42 (Se musica è la donna amata) (AN), v. 9. 43 BaE, p. 26. 44 Balcone (FdB), vv. 13-14. 45 AdS, p. 15. 46 Concerto (GS), v. 9. 47 Fasti, IV, v. 441. 48 Veglia in Arcetri (GS), v. 9. 49 Pietre e musica (GS), v. 18.

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rose»50, «putre una rosa»51, «rose funerarie»52, «rose […] estenuate»53, «rose róse»54, «rose

riverse»55, «rose serali»56, «inattuate rose»57). Non manca una nota d’infrazione al consueto accordo tra flora e gamma cromatica in «Violavano le rose l’orizzonte»58 e la gradazione tra

rimpianto e ritardo è ancora affidata ai fiori: «ritardo / delle rose nell’aria»59, «rose [che]

tardavano al loro rosa»60.

I segmenti della figura riferibili a Kore, indicati sinteticamente con MANI, sono in prevalenza quelli connessi a stringere-trattenere o lasciar sfuggire-cadere (mani, braccia, palme), ma anche gli attributi della bellezza femminile consacrati dalla tradizione (chioma, occhi, sorriso, collo), investiti del malinconico risvolto dell’assenza. Talvolta, al posto del sostantivo, si trova il verbo (ad esempio «sorridevano» anziché «sorriso»), o compaiono le azioni che esprimono l’evoluzione di un movimento progressivo, sfumato tra erranza e dissolvenza («t’aggiri»61, «allontanantisi»62, «fuggita»63, «dileguavi indocile»64 in GS; «partì»,

«s’incamminò», «si stava allontanando», «inoltrò»65, «dileguare in punta di piedi»66 in AdS; «parti»67, «fuggivi»68 in FdB; «allontanandoti»69, «ti allontani»70, «è partita»71, «fuggivi»72,

«fuggi»73, «dileguava»74 in DM; «allontanarti»75, «ti avesse allontanata»76, «ti allontanavi»77,

«non sfuggire»78, «fuggita via»79 e «non lasciarti dileguare di nuovo»80 in BaE81). Gli

50 AdS, p. 31. 51 Distanza (GS), v. 10. 52 Dismisura (FdB), v. 9. 53 Albìreo (FdB), v. 13. 54 Trama (FdB), v. 7. 55 DM, p. 27. 56 Passi (AN), v. 2.

57 (Se musica è la donna amata) (AN), v. 16. 58 Avorio (AN), v. 14.

59 Già colgono i neri fiori dell’Ade (AN), vv. 11-12. 60 DM, p. 22. 61 Bosco sacro (GS), v. 8. 62 Veglia in Arcetri (GS), v. 3. 63 A un’adolescente (GS), v. 2. 64 Eclisse (GS), v. 16. 65 AdS, p. 27. 66 AdS, p. 31. 67 Fuoco di parole (FdB), v. 8. 68 La notte canterà (FdB), v. 1. 69 DM, p. 5. 70 DM, p. 54. 71 DM, p. 39. 72 DM, p. 3. 73 DM, p. 36. 74 DM, p. 20. 75 BaE, p. 55. 76 BaE, p. 81. 77 BaE, p. 84. 78 BaE, pp. 29, 30, 31. 79 BaE, p. 92. 80 BaE, p. 94.

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appellativi e i vocativi variano da formule insolite, imparentate o attinte dal linguaggio liturgico («Ostia di malinconico giardino»82, «sposa raggiunta e sola»83, «solinga e pia»84) a prevedibili iponimi («brune / giovani»85, «fanciulle», «giovinette», «adolescente»).

Più coerente rispetto all’originale risulta il trinomio di Euridice, nonostante l’omissione del canto (l’ammaliante voce dell’aedo tracio che incanta le Eumenidi, fa spalancare per la meraviglia le tre bocche di Cerbero e ferma la ruota, patibolo di Issione)86

e la mancanza dei verbi persuadendi, dal momento che quelli presenti rientrano nella sfera del LAPSUS e quindi della devianza e dell’errore. Se la supplica rivolta da Orfeo al re e alla regina degli Inferi si configura in Ovidio come una suasoria ispirata all’amore87, l’effetto

trascinante esercitato dal lapsus88 opera in senso inverso, come suasoria suggerita dalla morte, poiché favorisce l’abiura della vita e lo scivolamento verso il nulla (come nell’«ombra persuade / e il silenzio trascina»89 di AN).

Nella semantica di Euridice90 spiccano il predicato-chiave ‘voltarsi’ che, pur nel variare del soggetto a cui è attribuito, mantiene il senso di perdita irrevocabile; l’ophis, insidia esiziale (nell’allusione al tallone della ninfa ferita dall’aspide) e accessorio che «maliosamente connota la silhouette femminile»91; le metonimie anatomiche collegate al

passo (caviglia, piede, alluce, orma) e le azioni di inciampare («il tuo piede / incespicando allaga»92, «nel passo che incespica»93).

Il significato etimologico di respicere94, tourning point della vicenda, nel richiamare al

contatto e alla cura, crea un legame indissolubile tra amare e voltarsi. Se Orfeo rispettasse la

82 Distanza (GS), v. 35. 83 Evidenza ed oblio (FdB), v. 4. 84 Bosco sacro (GS), v. 29. 85 Veglia in Arcetri (GS), vv. 2-3. 86 Cfr. Met., X, vv. 471-485.

87 Cfr. «vicit Amor» (Met., X, v. 10), «Supera deus [Amor] hic bene notus in ora est» (Met., X, v. 6), «vos

quoque iunxit Amor» (Met., X, v. 29).

88 Per il tema del lapsus in Luzi confrontare S. Ramat, Luzi 1939-'40. Due frammenti, in Mario Luzi. Atti del

convegno di studi. Siena, 9-10 maggio 1981 cit., pp. 22 e 35 da cui si cita; poi in I sogni di Costantino. La poesia testo a testo. Corrispondenze e raccordi otto-novecenteschi, Milano, Mursia, 1988, pp. 115-149.

89 Già colgono i neri fiori dell’Ade (AN), vv. 3-4.

90 Per le articolazioni del sistema linguistico riferibile a Euridice i termini individuati sono presi in prestito dal

latino per sottolineare il valore polisemico che rivestono e le sfaccettature in sinonimi, iponimi e meronimi. Non potranno trovarsi pertanto sic et simpliciter nei testi, ma declinati in almeno una doppia accezione; sotto respicere: girarsi, voltarsi, perdersi, sotto ophis: serpente, aspide, angue, sotto passus: orme, tracce, alluce.

91 S. Ramat, Invito alla lettura di Bigongiari cit., p. 38. 92 La nostra notte (FdB), vv. 10-11.

93 Il ventaglio cinese (FdB), v. 10.

94 Cfr. «flexit amans oculos» (Met., X, v. 56). «Nella lingua latina, il respicere, il “voltarsi indietro”, costituisce

un’immediata manifestazione simbolica dello “stabilire un contatto” con l’interlocutore» che significa anche prendersi cura. «Si parte insomma dal presupposto che chi si volge a guardare, accetta in qualche modo lo “scambio” di sguardi, è disponibile al contatto. Il significato del re-spicere non è dunque coincidente con una localizzazione spazio-temporale nel senso di un “guardare indietro”, che implica il riferirsi a ciò che è “passato”, opposto e insieme simmetricamente corrispondente ad un pro-spicere, come “guardare avanti”, e perciò anche “scrutare il futuro”». In sintesi colui che mette in atto il respicere compie due azioni: stabilisce un

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lex, si verificherebbe la disgiunzione tra i due termini; allo stesso modo, se Miriam o la figlia di Babilonia proseguisse inflessibile verso la notte senza riservare al poeta un ultimo sguardo, si realizzerebbe il paradosso di separare l’inseparabile, poiché il non voltarsi equivarrebbe a negare la dedizione e quindi a non amare. Impossibile allora amare senza