Nel corso degli ultimi duecento anni la nazione ha costituito il modo prevalente in cui lo Stato ha assunto su di sé la legittimità necessaria per esprimere regole condivise. Ecco perché le politiche assimilazioniste sono state una caratteristica storicamente ravvisabile solo presso gli Stati- nazione. Lo Stato non può che regolarsi in base alla sua fonte di legittimità, la nazione, per cercare l’omogeneità sul territorio. Omogeneità significativamente “nazionale”.
95 Kymlicka W., op. cit., p. 150.
Evidentemente lo Stato, nelle sue forme attuali, cioè moderne, non è affatto in crisi, anzi. Mai come oggi lo Stato moderno, grazie alla tecnica e ad una sostanziale abitudine dell’uomo contemporaneo ad una vita associata di tipo stanziale, riesce nei suoi compiti fondamentali, che svolge in Europa sin dall’età moderna, e da solo pochi decenni nel resto del mondo: organizzare e controllare il territorio. Quel che oggi è in crisi è il modo in cui questa organizzazione e controllo si danno, ossia in base a un principio operativo nazionale.
Indebolitosi il legame tra Stato e nazione, quale dovrebbe essere il nuovo principio di legittimità in grado di guidare lo Stato nella sua strategia operativa sul territorio?
Le etnie rispondono in parte a questa domanda, nel senso che quel che le nazioni non riescono più a fare in termini di rappresentatività politica dei gruppi umani, viene svolto a un livello più ristretto, maggiormente locale, dalle etnie.
In fondo, il principio è sempre lo stesso, nel senso che etnie e nazione vanno correttamente intese, perché si tratta di due gradi diversi nella stessa scala di fenomeni, cioè appartenenti alla stessa specie.
Il punto è che non possono esistere più soggetti politici nello Stato e un solo soggetto sovrano, che teoricamente dovrebbe riunirli tutti. La soggettività politica è infatti quel concetto che riunisce al suo interno tanto i fenomeni di autocoscienza, autodeterminazione e sovranità, senza che tra l’uno e l’altro vi sia una distanza, se non in termini di gradi verso una più completa realizzazione della soggettività stessa. Nel momento in cui un popolo dice “io”, ha già compiuto una svolta decisiva nel suo complesso esistenziale, perché affermando di esistere un popolo ha già detto di rappresentare qualcosa di non coincidente con il corpo sovrano dello Stato. Il problema è che l’etnia, ad esempio, pretenderà di partecipare di quella sovranità pur essendosi riconosciuta come soggetto politico differente rispetto alla nazione. Per godere della stessa sovranità il soggetto politico dello Stato dovrà però essere necessariamente uno, senza quale unicità (politica) non esiste neanche uguaglianza di trattamento all’interno dello
Stato. È l’uguaglianza stessa dei cittadini dello Stato che impone che essi costituiscano un solo soggetto politico97.
Oggi non è tanto in discussione il principio che un popolo possa scegliere sotto quale Stato vivere, quanto piuttosto il diritto che un agglomerato di persone possa definirsi popolo. Quando questa prima forma di autodeterminazione è avvenuta, non c’è alcun ostacolo al diritto del popolo di darsi un proprio Stato, se non nella pratica politica. Questo passaggio è immediato perché viviamo nell’era del soggetto, in cui la sovranità appartiene al popolo, che deciderà di esercitarla secondo la propria volontà. A ben vedere anche la rivendicazione della qualità di popolo, con buona pace delle scienze sociali, non dipende da qualche alchimia scientifica, bensì semplicemente dalla volontà dei soggetti.
Un popolo può eventualmente far parte di uno Stato multietnico, il punto è che questa sua partecipazione, che avviene in qualità di etnia, non si distingue in nulla, in linea di principio, dalla piena autodeterminazione nazionale98. Il punto è che se riconosciamo ad un popolo la capacità di autodeterminarsi, quello potrà avere o meno la volontà di partecipare ad uno Stato multietnico, lasciando la decisione ultima sempre alla sua capacità sovrana, che non è in grado di garantire l’unità statale, che invece necessariamente richiede, per poter essere integra, dell’univocità del principio sovrano99.
Il processo funziona in questi termini: la sovranità, cioè la capacità di legittimazione dello Stato, appartiene al popolo. Se una parte di questo si stacca, decidendo di trovare per sé un’espressione collettiva di dimensioni inferiori, allora ecco che in seno al nuovo popolo si costituisce un nuovo principio di sovranità, eventualmente confliggente con il principio del primo popolo. Questo accade perché lo Stato contemporaneo è fondato sul soggetto, ovvero sulla legittimazione dei suoi contraenti. Se una parte dei contraenti decide di non legittimare più, o di non legittimare allo stesso modo della maggioranza lo Stato, allora siamo in presenza di un’entità diversa. Perché quest’entità ha il diritto di definirsi popolo? Perché
97 Habermas J. e Taylor C., op. cit., p. 104.
98 Kymlicka W. e Pföstl E. (a cura di), op. cit., p. 45. 99 Kymlicka W. e Pföstl E. (a cura di), op. cit., pp. 51-54.
nell’epoca contemporanea è l’individuo che si organizza nelle strutture politico-comunitarie (“si organizza” è da intendersi non come scelta individuale, bensì, al contrario, collettivizzante), non viene più organizzato. L’individuo contemporaneo è il soggetto, che in base alla propria volontà metafisica costruisce il suo mondo, quindi anche le sue appartenenze politico-comunitarie. Questo accade perché il popolo nasce nel momento in cui un gruppo di persone decide di darsi da sé la propria legge. Nei tempi antichi, benché vi fossero comunità “costruite”, non c’era l’idea che queste si dessero da sé la propria legge, quanto piuttosto queste ricevevano la legge dal sovrano, che era colui che deteneva la sovranità. Nell’epoca contemporanea, essendo il popolo a darsi da sé la propria legge (in quanto sovrano), può benissimo pensarsi che una parte del popolo si separi, per creare da sé un altro popolo. Tutto questo porta a riferirci sempre al ruolo del soggetto: sarà infatti sulla base della sua metafisica che un gruppo possa pensare di definirsi come popolo, cioè abbia la capacità di autodefinirsi100.
Trovando decisamente problematiche sia la prospettiva autonomistica che quella assimilativa, proveremo qui a discutere dell'integrazione. Il problema dell'integrazione è il problema di trovare un principio di armonia tra maggioranza e minoranza.
Il problema è che lo Stato moderno è uno Stato territoriale, quindi opera attraverso una legislazione che ha legittimità e riconosce principi di uguaglianza a scala territoriale, di conseguenza uniformando tutti coloro che si trovano in uno stesso territorio. Lo Stato moderno mal tollera che si venga meno al principio dell'uniformità della sovranità, ossia che la sovranità non sia una e omogenea. Ciò che è in gioco non è tanto un abito istituzionale, più o meno federale, quanto piuttosto l'anima che indossa quell'abito, dunque la ragione d'essere dello Stato, ancora, il criterio politico che regola la sovranità. E' stato possibile pensare di concedere diritti alle minoranze etniche, tramutandole così in etnie minoritarie, essenzialmente per tre motivi:
1) crisi dello Stato moderno per via della globalizzazione.
2) carattere territoriale del diritto concesso; ossia la sovranità, più che spezzarsi, si riconfigura dal punto di vista funzionale. Nascono così regioni e province autonome, a cui è demandato il compito unitario della sovranità. 3) trasmutazione del principio di sovranità, che da nazionale diventa sempre più economico-sociale-giuridico, ossia legato a un plesso di diritti concernenti il soggetto101.
Il terzo punto indica il sorgere di un nuovo principio di armonizzazione dello Stato moderno, concorrente e contiguo al tempo stesso rispetto alla logica dei flussi globali. Lo Stato trova, cioè, un nuovo criterio per uniformare e omologare, sulla base del plesso dei diritti soggettivi, riferiti all'individuo inteso come soggetto, dunque al di fuori della stessa logica comunitaria propria ai diritti della minoranza. Ogni minoranza, d'ora in poi, dovrà guadagnarsi una propria franchigia autonomistica sulla base del rispetto del principio di integrazione nuovissimo affermantesi. E' lecito chiedersi cosa ne sia della sovranità, pretesa dalla minoranza, se questa stessa sarà dovuta passare al vaglio preventivo del controllo di legittimità politico legato al principio sovrano nuovissimo. Ogni possibilità di espressione per la minoranza dovrà inquadrarsi all'interno del rispetto della nuova formula di sovranità, di fatto svuotando il concetto stesso di "riconoscimento".
Il fatto è che lo Stato, sebbene abbia trascolorato il proprio criterio di sovranità da nazionale a soggettivo, non per questo ha abiurato, almeno non in toto, al proprio carattere territoriale, che si mantiene come altro elemento fondante della legittimità politica102.
E si faccia caso che lo Stato Soggettivo e Territoriale è spesso confermato, piuttosto che smentito, dalle norme che stabiliscono una differenza, ad esempio di genere nel caso delle cosiddette quote rosa. In questo caso, infatti, il principio di eguaglianza di fronte alla legge solo apparentemente viene infranto, perché in realtà lo scopo della norma è di realizzare un'uguaglianza...più uguale, sempre all'interno del principio di territorialità della sovranità.
101 Ibidem.
In questo senso si può rivolgere una domanda provocatoria: è ancora attuale parlare di minoranze?
Sembra esserci una divaricante ragione tra Stato e minoranze, che impedisce una reale comunicabilità tra i due. Lo Stato, infatti, può riconoscere diritti e autonomie piuttosto ampie ai gruppi minoritari, ma sembra perseverare nel monopolio, fattivo, della sovranità. Questo rende inutile il principio di autonomia.
Una comunità, che sia minoranza o meno, assume dignità politica nel momento in cui può regolare la vita e la morte dei propri contraenti, e qui non facciamo tanto riferimento alla pena capitale, quanto ai diritti della persona e alla funzione di difesa e sicurezza della comunità. Al di fuori di questo non c'è vera sovranità.
Lo scontro, se proprio di scontro vogliamo parlare, non è tra civiltà differenti, perché queste per secoli hanno trovato equilibri e principi di convivenza affatto funzionanti. Piuttosto, lo scontro è tutto interno alla civiltà occidentale, tra istanze sovrane contrapposte costrette a convivere su un territorio per definizione uno e indivisibile. Quanto detto è vero sia per le minoranze etniche, sia per le minoranze migratorie. Entrambe mettono in crisi, ma anche vengono poste in crisi, dalla unicità della sovranità.
Nazione, minoranza e Stato sono uniti dal paradigma della sovranità, ossia dalla volontà di organizzazione e controllo del territorio in senso esclusivo e autofondato.
Possiamo affermare che la multietnicità di uno Stato può benissimo rappresentare una ricchezza, un’opportunità di accrescimento reciproco, a condizione che il patto che fonda lo Stato non abbia né un carattere nazionale né un carattere etnico103. In questo caso infatti le norme dello Stato avrebbero un carattere teso a favorire, a riconoscere, il solo gruppo dominante, con gli altri costretti sulla difensiva. Le contraddizioni da risolvere nella nostra modernità non mancano: se è vero che si possa proporre un patto fondativo in grado di riunire gli uomini intorno ad una serie di principi non aventi un carattere nazionale, è però d’altra parte vero
che le etnie, ad oggi così forti, non rispondono esattamente alla logica dei diritti dell’uomo ma (e questo è essenziale) ad una difesa di gruppo di quei principi stessi. Le etnie cioè non rivendicano diritti per il singolo, bensì per la comunità intera. Questa precisazione è fondamentale quando si voglia pensare alla recente richiesta di alcune comunità musulmane in Quebec di poter applicare al proprio interno il diritto della shari’a, in modo tale da poter configurare diritti etnici in grado di confliggere con diritti individuali104.
In questo senso le etnie sembrano anche una risposta alla frammentazione individualista della nostra epoca, riscoprendo la comunità a dimensioni più ridotte di quella nazionale ma con forte capacità identificativa105.
Il problema è il seguente: lo Stato, per poter funzionare, abbisogna di qualcosa di più di un contesto di regole condivise, ossia di un aspetto animico, che in un certo senso giustifichi la stessa necessità di condividere un certo tipo di regole, ma soprattutto dica che tipo di regole darsi.
104 Kymlicka W., op. cit., p. 178.
105 Che le etnie abbiano un significato sostanzialmente diverso nella modernità rispetto ad un
ambiente pre-rivoluzionario è confermato da Crawford Young, che sostiene la particolare rispondenza della politica delle etnie con un sistema di pluralismo culturale. Si veda Young C. (a cura di), "The rising tide of cultural pluralism: the nation-state at bay?", The University of Wisconsin press, Madison, 1993.
L'ASSENZA DEL SULTANO. CENTO ANNI DI STORIA