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Reagire alla globalizzazione e al nazionalismo

Se la massa eurasiatica ha conosciuto, fino al termine della prima guerra mondiale, due Imperi di grande tradizione storica che tenevano le redini tanto del Vicino Oriente che dell’area balcanica e centro-europea, la stessa funzione hanno svolto a livello mondiale gli imperi americano e sovietico. Stiamo cioè dicendo che da un punto di vista storico le tendenze centrifughe delle popolazioni locali, tese a dividersi in base a principi man mano sempre più selettivi, sono sempre state cauterizzate da strutture definibili come imperiali, ossia in grado di controllare aree politiche di grandi dimensioni, abitate anche da popolazioni molto diverse tra loro.

Ci si potrebbe chiedere se oggi questo ruolo possa essere svolto da parte degli organismi internazionali; fatto sta, come giustamente nota Lizza, che l’aumentare del numero dei micro-Stati non fa altro che impoverire la capacità politica di agire dell’assemblea generale delle Nazioni Unite ad esempio81.

Parlando delle cause politiche di questo vero e proprio revival etnico, possiamo subito dire che con la fine dell’era bipolare dovremmo parlare di fine dell’accettazione forzata della supremazia delle superpotenze, più che di semplice rifiuto degli Stati Uniti. Ciò che aveva mosso gli attori locali e regionali a schierarsi con questa o con quell’altra delle superpotenze era stato un ragionamento meramente condizionato dalle necessità del momento, ossia dall’impossibilità di fare altrimenti. Venuta meno la logica bipolare, anche la superpotenza rimasta si è vista privare di quel sostegno locale di cui prima godeva in funzione strategica. Sono così riaffiorati gli

antichi sentimenti di contrasto tra popoli, facendo ricredere molti sull’esito stesso della modernità. L’incrinarsi della logica bipolare, ad esempio, era già evidente con quanto avveniva in Iran con la rivoluzione khomeinista del 1979: la religione tornava prepotentemente alla ribalta come fattore aggregativo delle comunità politiche, proprio mentre le “religioni secolari” del liberismo e del comunismo mostravano il loro irresistibile declino82.

Nell’era della globalizzazione, la produzione di una cultura globale che con i suoi codici tende a sovrimporsi su quelle locali, ha portato la sensibilità politica e giuridica mondiale ad evidenziare che la difesa dei diritti umani passa anche per la difesa dell’espressione culturale della persona, ma per il tramite del suo gruppo. Questa nuova sensibilità ha permesso negli ultimi anni di sollevare l’attenzione delle opinioni pubbliche occidentali sulla salvaguardia delle specificità culturali in via d’estinzione, appunto come contro altare del processo omologante globale83.

Il richiamo al principio dell’autodeterminazione dei popoli è però evidentemente insufficiente per regolare ad esempio quel che avviene in certe regioni della Nigeria, ma anche nel più vicino est europeo, dove l’affermazione di una logica di pieno riconoscimento politico comporterebbe sostanzialmente il risorgere di Stati grandi quanto città, data la scarsa consistenza numerica, ancorché ben concentrata, di alcuni gruppi. Il problema politico centrale sollevato dal fenomeno etnico, e con il quale le nostre stesse democrazie cominciano in questi anni a fare i conti, riguarda le difficoltà di una mediazione politica efficace all’interno di un progetto collettivo condiviso. L’economia da un lato integra vaste masse in un contesto ormai globale, mentre a livello locale, indebolitosi il legame nazionale, vanno riscoprendosi dei legami più ristretti, di gruppo, di appartenenza comunitaria.

La stabilità internazionale si trova come stretta in un maglio etnico, che da una parte vede il moltiplicarsi dei focolai di rivendicazione etnica, ridimensionando la capacità coercitiva statale, dall’altra però vede

82 Habermas J. e Taylor C., "Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento", Feltrinelli, Milano,

2008.

inevitabilmente intensificarsi il contrasto tra Stato e minoranze interne, indebolendo ulteriormente il primo.

È quindi necessario inserire il fenomeno del risveglio etnico contemporaneo all’interno della problematica politica più insistente di questo inizio millennio: l’indebolirsi dello Stato-nazione.

La logica della frammentazione, che sul finire del secolo scorso ha avuto il suo epicentro a scala nazionale in Jugoslavia e in Libano, fa temere per quanto potrebbe avvenire in altri Stati a basso tasso di coesione sociale nei prossimi anni84. Questo processo finisce, inevitabilmente, per delegittimare lo Stato-nazione, in quanto ente non più in grado di reggere una piena sovranità sul proprio territorio, principalmente dal punto di vista economico85.

La frammentazione degli Stati, paradossalmente, si origina anche da qui, cioè dall’incapacità dello Stato di farsi carico di quelle aspettative, sempre uguali da parte dei cittadini, che oggi sono però rese più complesse dalla situazione che stiamo vivendo. Risorgono così gli elementi identitari locali, perché non più offuscati da ragioni politiche legate allo scontro delle superpotenze, né a ragioni civili, legate alla necessità dello stare insieme in unità statuali mediamente più vaste.

Si considerino infine elementi vecchi e nuovi che determinano l’accentuarsi dell’appartenenza etnica: da una parte sicuramente la guerra e lo scontro in genere, dall’altro i fenomeni migratori, che comportano una risposta da parte della comunità ospitante così come della comunità dei nuovi arrivati86.

Per quel che riguarda l’aspetto linguistico, risulta utile svolgere alcune riflessioni per notare le grosse differenze che si sono introdotte con la modernità. È chiaro che nel terzo millennio il rapporto tra etnie e lingue è destinato a cambiare profondamente. La globalizzazione, cioè il processo di

84 Di Peri R., op. cit., pp. 75-89.

85 La stabilità dei luoghi è stata potentemente messa in discussione dalla globalizzazione, nel senso

che i primi hanno perso organicità. La rivoluzione informatica ha fortemente relativizzato le relazioni fra luogo e tempo, oltre che tra luogo e cultura, potendo avvenire gli scambi tra gli uomini a velocità impensate prima e in luoghi virtuali, diversi da quelli a cui i dialoganti appartengono.

contaminazione delle culture locali da parte di una cultura globale, sta imponendo un’unica lingua veicolare per le comunicazioni, ossia l’inglese. Questo processo non è in contraddizione, né ostacolato, dalla crescita di lingue di importanza regionale, favorite dalla crescita demografica dei gruppi che le usano, come il cinese, l’arabo o lo spagnolo. Anche in questo caso però è necessario constatare come la riscoperta di lingue che sembravano destinate a scomparire si accompagna all’estensione della lingua della globalizzazione. L’inglese impartisce una cultura omogenea, che per sua spinta interna cerca un’accoglienza globale, inevitabilmente basandosi su messaggi culturali i più generici possibili. Le lingue minoritarie che sembravano sul punto di scomparire ritornano allora in voga, vengono sbandierate come segno di un’identità in grado di garantire quei significati esistenziali che per consunzione interna la dimensione nazionale non è più in grado di offrire87.

Esemplificativo di questo ragionamento è il caso dei berberi. Questa popolazione, originaria del nord-Africa, ha subito nel corso dei millenni notevolissime influenze da parte della civiltà romana prima e di quella arabo islamica poi. Nonostante questo ha sempre mantenuto vivo il senso di una propria disparità, evidenziato al meglio dal carattere linguistico, agglutinazione di radici semitiche e camitiche, tenacemente ancorato alle regioni interne dell’Algeria e del Marocco, favorito dai contrafforti montuosi dell’Atlante, su cui ha conservato una lingua non scritta. Le prime sistemazioni scientifiche della lingua berbera avvengono da parte della comunità stessa negli anni sessanta del Novecento, con la redazione dei vocabolari ma soprattutto di una lingua scritta. Il cambiamento di una pratica millenaria, quella della cultura orale, si giustifica a partire dal tentativo, non a caso, di insediare lo Stato-nazione in vicino oriente. Tanto il Marocco che l’Algeria post-coloniale si dotano di strutture centrali di gestione del potere che non tengono in dovuta considerazione l’etnia berbera, che per difendersi dall’aggressione culturale e politica dei rispettivi Stati, nonché dalla laterale disgregazione sociale interna, cerca di mantenersi in vita rendendo stabili, ma anche statiche, le sue forme espressive.

Quel che vale per i berberi con riferimento al periodo coloniale e dello Stato-nazione, può ripetersi più in generale per il rapporto tra etnia e globalizzazione. C’è in ogni caso un fenomeno più vasto che tende a modificare forme e simboli politico-culturali, con una risposta da parte dell’etnia, che in alcuni casi diventa più conscia di se stessa appunto perché posta di fronte al pericolo di poter vedere scomparire quelle particolarità prima date per scontate. Dato che la geopolitica non può fare a meno, per dotarsi di una propria specificità, di gettare uno sguardo sul domani, allora possiamo osservare che la globalizzazione mette in questione le appartenenze etniche, creando un fenomeno di risposta, quel che i sociologi hanno chiamato il risveglio etnico, che però rappresenta solo la prima parte della risposta88. Sopravvivranno le etnie in grado di rispondere alla globalizzazione, nel senso di individuare una propria risposta che tenga conto della prima, mentre scompariranno quelle forme culturali che non faranno altro che rinchiudersi in un tradizionalismo folkloristico. Attenzione però, perché questo non significa che le etnie debbano necessariamente giungere a patti con la globalizzazione stessa: fare i conti con i fenomeni nuovi che la storia ci impone significa dare una risposta completa alle esigenze dell’uomo, che eventualmente, per alcune piccole comunità, potrà significare anche rigetto totale89.

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