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Capitolo II. Szeemann curatore indipendente

5. Intensive Intentionen

Nella sua citata bozza di autobiografia, Szeemann scrive che durante il suo soggiorno a Parigi, quando vive nel capannone di proprietà di Günther Grass, passa le sue giornate alla Bibliothèque Nationale, «finally reading everything I could find by Baudelaire, Warburg, Saxl, and Panofsky»311. Rimprovera ai professori dell'università di Berna di impedire agli studenti di interpretare i fenomeni visivi, spiegando così la sua fame di letture di iconografia e iconologia. L'episodio di studio che ricorda come maggiormente rivelatore è l'interpretazione di un quadro di Niklaus Manuel: «These studies helped me considerably in my interpretation of a painting

309 D. Chon, G. Phillips, P. Rigolo, "Introduction - My Ray is My Castle", in Harald Szeemann: Museum of

Obsessions, cit., pp. 1-8, qui p. 4.

310 S. Sackeroff e T. Velàzquez, “Poetry, Photographs, and Films”, in Marcel Broodthaers – A Retrospective,

catalogo a c. di M.J. Borja-Villel e C. Cherix, MoMA Publications, New York 2015, pp. 52-75, qui p. 60.

311 «Finalmente potei leggere tutto ciò che potevo trovare di Baudelaire, Warburg, Saxl e Panofsky». T. Bezzola,

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by Niklaus Manuel as the product of a Mercurian constellation created at the same time that Dürer focused on the Saturnian era in Melancolia»312.

Szeemann si dedica in seguito più alla pratica che alla teoria, ma gli strumenti teorici acquisiti nel periodo di studi e continuamente usati e messi in discussione nel corso della sua carriera daranno al suo lavoro un’impronta personale che rimarrà sempre presente. Si sono viste le formulazioni delle attitudini, delle mitologie individuali, delle ossessioni. Il Museum der Obsessionen però si basa soprattutto su un’altra formulazione, quella delle Intensive Intentionen, le intenzioni intensive.

Riflettendo criticamente sulla storia dell’arte evoluzionista che si apprende sui libri, Szeemann comincia ad interessarsi ad una linea cronologica alternativa, che non considera le proprietà formali delle opere ma i fattori psicologici originari che sussistono in esse. Ragiona sulla possibilità di riscrivere la storia a partire da un comune denominatore che avvicina artisti distanti nel tempo, come Leonardo, Poussin, Beuys o Broodthaers, ma potenzialmente anche personaggi non dediti alle arti visive ma che hanno contribuito con la propria attività allo sviluppo della creatività umana (da qui le mostre negli anni ’70 dove le opere d’arte non sono le protagoniste, o sono addirittura assenti). Il comune denominatore sono le Intensive Intentionen.

Il concetto di Intenzioni può essere visto come un’evoluzione delle attitudini che già nei primi anni alla Kunsthalle di Berna interessano a Szeemann. L’attributo intense indica la manifestazione in esse dell’ossessione (intesa in senso szeemanniano) dell’artista. Nel complesso suggeriscono la partecipazione psicologica dell’artista nelle proprie creazioni, che acquisiscono lo status di opere d’arte quando sono in grado di conservare ed esprimere la sentita adesione dell’autore. Il compito che di conseguenza il curatore si prefigge è di fare emergere tutto ciò. Szeemann scrive: «Rifiuto l'allestimento che non libera l'ossessione del creatore e le intense intenzioni dell'opera, riducendosi quindi a una funzione decorativa. Ed è in questo senso che dico sì all'allestimento che riesce a liberare in modo non verbale strati significativi e nuove energie nella ricezione»313. Non interessandosi primariamente alle qualità formali delle opere, Szeemann non distingue fra creazioni finite e incomplete, in quanto non risiede nella compiutezza la capacità di fare emergere le Intensive Intentionen.

312 «Questi studi mi hanno aiutato considerevolmente nella mia interpretazione di un quadro di Niklaus Manuel

come un prodotto della costellazione di Mercurio creata nello stesso momento in cui Dürer si focalizzava sull’era saturnina nella Melancolia». Ibidem.

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L’apparato teorico che supporta il lavoro di Szeemann non sorge dal nulla, ma da una reinterpretazione personale del pensiero di studiosi che già negli anni universitari il curatore ha avuto modo di apprezzare. Il concetto di intensità è di esplicita derivazione warburghiana. Il curatore svizzero è affascinato dalla ricerca di Warburg delle Pathosformeln, le "formule patetiche" che sopravvivono nei secoli grazie all'intensità rappresentativa che veicolano, viaggiando attraverso i secoli dall'antichità al Rinascimento. Szeemann talvolta recupera l'espressione esplicitamente, per esempio in riferimento alla mostra sull'opera d'arte totale, quando parla del bisogno di analizzare la Pathosgeschichte (storia del pathos) degli ultimi 200 anni per fare emergere le formule patetiche che caratterizzano la storia della Gesamtkunstwerk. È attratto dall'idea di formule atemporali che possano riscrivere l'ordinaria linea evoluzionistica con cui si studia l'arte per studiare il movimento ritmico e pulsante della Lebensenergie (altra formulazione warburghiana) delle immagini, l'energia vitale in grado di rimanere latente e riemergere con intermittenza.

Didi-Huberman parla dello studio di Warburg come di una ricerca dei «movements and temporalities of the image-as-symptom [l’image-symptome]: occurrences of survival and critical points in the cycles of the contretemps»314. Immagini sintomatiche, sopravvivenza del pathos: dall’eredità warburghiana Szeemann recupera l’attenzione agli aspetti psicologici e antropologici che determinano l’originarsi e lo svilupparsi delle arti visive. Si appropria degli strumenti teorici dello storico dell’arte di Amburgo, ma non per condurre a sua volta ricerche storico-artistiche. Se Warburg prosegue con l'ideazione di un Dynamogramm, per tracciare la vita delle immagini, della loro Lebensenergie315, Szeemann vuole fare emergere nelle proprie mostre la carica emotiva delle opere d'arte, dimostrando come immagini di origini temporali e geografiche anche molto distanti, possano avvicinarsi perché ricettive di una stessa energia primordiale. I due condividono inoltre un approccio interdisciplinare, e un interessamento a un’arte potenzialmente popolare e naïve (come gli Ex voto).

Nella formulazione szeemanniana accanto a Intensive compare un secondo termine: Intentionen. Non è un sostantivo casuale, e il curatore svizzero potrebbe essersi ispirato a Panofsky nel suo utilizzo. In Meanings in the Visual Arts lo storico dell’arte scrive:

The objects of art history, then, can only be characterized in a terminology which is as re-constructive as the experience of the art historian is re-creative: it must

314 «Movimenti e temporalità dell’immagine-sintomo: occorrenze di sopravvivenza e punti critici nei cicli di

controtempo.». G. Didi-Huberman, The surviving image, tr. ing. di Harvey L. Mendelsohn, Pennsylvania State University Press, Philadelphia 2017, p. 108.

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describe the stylistic peculiarities, neither as measurable or otherwise determinable data, nor as stimuli of subjective reactions, but as that which bears witness to artistic "intentions". Now "intentions" can only be formulated in terms of alternatives: a situation has to be supposed in which the maker of the work had more than one possibility of procedure, that is to say, in which he found himself confronted with a problem of choice between various modes of emphasis.316

Intensive Intentionen è una delle tante formule che dimostrano la consapevolezza teorica di Szeemann, in questo caso in un incrocio fra le riflessioni di Warburg e una terminologia panofskiana.

Nello studiare i meccanismi originari dell’arte, Szeemann non è lontano dalla mentalità di Marcel Broodthaers. Nel capitolo a lui dedicato si è visto come l’artista belga si possa definire warburghiano, per come, per esempio, armonizzi il pensiero figurativo a quello discorsivo, crei atlanti di immagini, o si avvicini nel suo lavoro all’idea di memoria di Warburg. Szeemann e Broodthaers svolgono professioni diverse, ma usano per esse simili strumenti teorici. Osservano il mondo delle immagini con lo stesso interesse, con gli stessi occhi. Ne studiano le funzioni, le declinazioni e i ruoli che assumono nella società che vivono. Rincorrono i miti e la loro capacità di impadronirsi, di sopravvivere e di adattarsi. E mettono in discussione il modo di guardare all’arte acquisito e socialmente accettato.