Capitolo 4. Chi nel Faust ha visto una vera e propria opera filosofica
4.3. L’interpretazione di Böhme
Dulcis in fundo ci troviamo con il filosofo che, analizzando il Faust,
ne ha tratto le conclusioni più paradossali: Gernot Böhme. Egli ha
dedicato un suo libro, Goethes Faust als philosophischer Text153, ad analizzare il testo di Goethe considerandolo un vero e proprio testo
filosofico.
Per prima cosa, vediamo lo scheletro dell’opera: il testo è suddiviso in undici capitoli, ognuno dei quali ha lo scopo di descrivere una specifica
sfera del sistema filosofico di Goethe. Dopo un primo capitolo che si
interroga se il Faust vada inserito nel filone educativo della letteratura del
suo tempo, l’autore entra più dettagliatamente nelle varie concezioni filosofiche, riguardanti molti campi del sapere, presenti nell’opera teatrale. Quindi troviamo una vasta gamma di disparati argomenti che vanno da
Cosa possiamo sapere? (Capitolo 2) a Metafisica dei sessi (capitolo 11),
passando per Tecnica e violenza (capitolo 7).
Tutte queste varie concezioni filosofiche andrebbero, secondo
l’autore, a formare il quadro unitario della Weltanschauung di Goethe. D’Angelo, sorvolando sull’analisi puntuale di ogni capitolo, preferisce mostrarci due esempi tratti dalla tragedia stessa e ripresi dal testo di
Böhme: La creazione in laboratorio di Homunculus, da parte del pedante
153
G. Böhme, Goethes Faust als philosophischer Text, Die Graue Edition, Kusterdingen 2005.
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Wagner (scene: Laboratorio e Notte classica di Valpurga), e il progetto di
prosciugamento del mare, che è, di fatto, l’ultima azione di Faust in vita. Per comprendere meglio i due esempi descriviamoli brevemente:
nel primo episodio ci vengono descritte le prime ore di vita di Homunculus.
Questo è un essere creato in laboratorio dall’ex assistente di Faust, Wagner. Appena la creatura prende forma nella provetta inizia a
confabulare con Mefistofele decidendo infine di recarsi, insieme a Faust,
alla Notte classica di Valpurga. Arrivati alla meta, trovano una festa di
spiriti e anime appartenenti alla storia antica, in particolar modo greca, i tre
si dividono ognuno per la sua strada.
Mefistofele semplicemente parla con il resto degli spiriti,
riconoscendo tra l’altro qualche lontano parente; Faust vaga disperatamente alla ricerca di Elena di Troia, dichiarandosene innamorato;
Homunculus gira in lungo e in largo per cercare di capire la maniera di
nascere, azione che ancora non è riuscito a compiere in quanto è appena
stato creato. Egli, dopo un lungo girovagare, incontra Galatea e, in un
impeto d’amore, la sua fiala, dentro cui è costretto a stare perché il contatto con la natura lo danneggerebbe, si rompe e lui muore.
Homunculus potrà tornare alla forma umana solo dopo aver attraversato
tutte le dovute fase dell’evoluzione.
Il secondo esempio su cui D’Angelo vuole attirare l’attenzione è il progetto faustiano di costruire una grossa diga in grado di annullare
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senza la capacità di vedere. Questo suo monumentale progetto,
completamente contro natura, è l’unico pensiero che riesce a tirarlo su di morale in questo suo tramonto della vita.
È proprio contemplando le conseguenze che questa operazione
avrà sulla società futura, che egli arriva a chiedere all’attimo di fermarsi, e, quindi, muore di colpo.
È evidente che queste due scene hanno una caratteristica comune:
vi appaiono due sistemi, seppur diversi, di violenza contro la natura da
parte della tecnica umana. La loro stessa fine tragica ci potrebbe
suggerire come in realtà Goethe non parteggi per questo specifico
atteggiamento violento, caratterizzante il carattere di Faust, bensì sia
fortemente contrario.
Leggiamo la dura considerazione che Böhme fa riguardo alle
metodologie usate per il progetto di colonizzazione faustiano, che avrà
come vittime i poveri Filemone e Bauci:
La tecnica viene intesa come una relazione naturale, che appare violenta. Il progetto di colonizzazione in sé, è un progetto spietato dal punto di vista umano, con delle forme organizzative brutali154.
Sono proprio questo tipo di riflessioni, presenti in tutto il testo di
Böhme, che ci rendono chiara la tesi di quest’ultimo: Goethe ha scritto un
154
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libro con Faust come protagonista, non per mitizzarne i comportamenti,
ma per criticarli; in altri termini. Goethe ha scritto un libro anti-faustiano!
A questa interpretazione, però, D’angelo ribatte, a ragione, che questa considerazione non tiene conto degli ultimi eventi della tragedia.
Se Goethe veramente non fosse stato d’accordo con il comportamento del suo protagonista e, di conseguenza, fosse stato
contrario a tutto quello che egli rappresenta, lo scrittore tedesco avrebbe
fatto terminare la storia in una maniera diversa: sicuramente gli angeli non
avrebbero strappato Faust dalle grinfie di Mefistofele, privandolo della
ricompensa pattuita tanti anni prima.
Nella confutazione della tesi di Böhme anche D’Angelo –notando che, comunque, in tutte le sue peripezie l’unica situazione che ha fatto desiderare a Faust di fermare un attimo per goderne, è stata il pensiero
dell’ipotetica società futura che sarebbe nata in seguito al suo spietato piano di colonizzazione – non solo ha le nostre stesse perplessità riguardo l’ultima affermazione di Faust, ma anche riguardo tutta l’interpretazione dataci da Böhme:
Non si tratta, del resto, solo di una frase. Se Böhme avesse ragione, sarebbe tutta la morale faustiana della ricerca incessante, del continuo oltrepassamento, di una felicità che consiste solo nell’avanzare verso nuove mete, tutto il suo valore di immer
strebend che dovremmo rigettare come non goethiano. Zum höchsten Dasein immer fortzustreben sarebbe la divisa del
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francamente, qualcosa che non crediamo possibile. Per amore della propria tesi Böhme si è spinto troppo avanti155.
E con questo passaggio con cui D’Angelo conclude il suo articolo, noi concludiamo la sezione dedicata a Böhme.
Ricapitolando i passi compiuti in questo capitolo, abbiamo
osservato tre diverse letture filosofiche del Faust di Goethe, ognuna delle
quali effettuata con la prospettiva di vedere in questa splendida tragedia
tedesca una vera e propria opera filosofica.
Le letture di Santayana e Böhme ci hanno suggerito che questo
libro volesse descrivere uno specifico sistema di pensiero. La differenza
tra i due sta nel fatto che il primo non è riuscito a chiarire in maniera
esplicita i connotati dell’argomento di questa ipotizzata descrizione; mentre il secondo, invece, è arrivato a dichiarare che Goethe ha voluto
scrivere questa sua opera, per screditare duramente il comportamento del
suo protagonista principale. Questa lettura, però, si scontra con il testo
teatrale stesso, in quanto non appaiono così evidenti questi indizi di critica
così marcati verso Faust.
Un discorso a parte merita la seconda interpretazione, Freschi ha asserito che nel Faust si trovi espressa tutta la cosmologia dell’autore. Per quanto risulti interessante questo spunto di lettura, è anche vero che
questa non può essere la sola chiave di lettura con cui approcciarsi
all’opera, e, secondo chi scrive, probabilmente nemmeno Goethe avrebbe
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voluto che questo testo venisse letto solo con gli occhi puntati alla sua
visione cosmologica. Perciò si può asserire che questa particolare lettura
coglie un aspetto importante che, però, non è l’unico da considerare del
Faust.
In definitiva nessuna di queste tre letture ci convince
completamente.
Ciò, probabilmente, è dovuto anche al fatto che, volendo per forza
costringere un testo letterario così variopinto in una sola cornice filosofica,
si è costretti a praticare delle forzature che risultano poco convincenti
verso il lettore.
Ciò non toglie che, per quanto non ci troviamo d’accordo con questo approccio al testo goethiano, anche questa “corrente” di pensiero ha fornito spunti utili per chi ha l’ardire di buttarsi nell’affascinante sfida che scaturisce dall’interpretazione di questo complessissimo testo. Anzi, proprio sviscerando queste letture così radicali, possiamo, dopo averne
scoperto le discrepanze, iniziare ad apprezzare veramente la molteplice
varietà di temi trattati da quel genio unico che fu Johann Wolfgang von
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Conclusioni
Giunti ormai alla fine del nostro viaggio, non ci resta che girarci
indietro ad osservare il cammino appena compiuto, cercando di tirare le
somme finali della nostra piccola avventura. Per comprendere al meglio la
strada percorsa, conviene ripercorrerla un’ultima volta mentalmente, ricapitolando le tappe più importanti.
Siamo partiti da un’osservazione oggettiva e da un articolo scientifico che si basava sulla stessa intuizione: da quando Goethe ha
pubblicato il suo Faust, molti pensatori hanno letto filosoficamente
quest’opera.
Leggendo attentamente il suddetto articolo, ci è sembrato degno di
interesse provare ad analizzare, in maniera più approfondita, le letture
suggerite da D’Angelo, aggiungendo qualche altro esempio che ci è sembrato pertinente ai fini di fornire un quadro, speriamo abbastanza
completo, della storia della ricezione dell’opera goethiana nell’ambito filosofico.
Ci siamo decisi ad approfondire il lavoro altrui non per arroganza,
ma forti del fatto che avevamo a disposizione molto più spazio per poter
approfondire alcune tematiche che l’autore dell’articolo si era visto costretto a lasciare superficiali per qualsivoglia motivo.
Una volta fissato il nostro obbiettivo, abbiamo scelto la strada che,
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delineato davanti si profilava così: per prima cosa, un capitolo introduttivo
(capitolo primo) in cui descrivendo sia la genesi dell’opera, sia il periodo storico-culturale (in Europa e in Prussia) in cui è stata scritta, si è cercato
di portare alla luce gli eventi e le idee che influenzarono l’autore durante la stesura del suo dramma.
Dopo questa descrizione, abbastanza didattica, ci siamo posti una
domanda indispensabile per poter giustificare l’indagine che ci eravamo prefissi: si può considerare il Faust, nato come testo teatrale, una vera e
propria opera filosofica?
Il secondo capitolo è stato interamente dedicato a questo quesito.
Effettivamente, fin da subito ci siamo trovati di fronte ad uno scoglio
abbastanza duro: non esistono dei criteri precisi per poter determinare
quando un’opera letteraria sia o meno considerabile filosofica. Prendendo atto di questa lacuna, abbiamo dovuto escogitare una maniera per poter
dare una risposta abbastanza soddisfacente, seppur non definitiva, che ci
permettesse di continuare il nostro percorso.
Per fare ciò abbiamo costruito una regola operativa da applicare in
questi casi specifici. Dopo averla formulata e, successivamente, applicata
alla tragedia di Goethe abbiamo potuto concludere che quest’opera letteraria non può essere considerata veramente di filosofia, in quanto non
soddisfa le condizioni che abbiamo posto nel capitolo. Esse sono: 1)
essere un testo che è stato scritto con l’intenzione di essere un’opera filosofica, 2) avere una pretesa di universalità concettuale.
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Dopo tutto, questo era un risultato facilmente pronosticabile. Se il
Faust si fosse potuto considerare un’opera filosofica, non sarebbe
sembrato strano a nessuno che molti filosofi avessero utilizzato come
elemento per le loro argomentazioni, un’altra opera del loro stesso campo. Avendo legittimato l’utilità della nostra indagine, siamo andati ad analizzare, più nello specifico, quali autori avevano letto filosoficamente il
Faust, e in che maniera lo avessero fatto. Trovandoci perfettamente in
linea con l’analisi di D’Angelo, abbiamo suddiviso le letture filosofiche del
Faust in due categorie: chi ha visto nella tragedia tedesca un’opera
contenente solo dei filosofemi e chi, invece, vi ha scorto una completa
opera filosofica.
Il terzo capitolo riguarda la prima delle due categorie. Qui abbiamo
deciso di trattare quattro filosofi, due già presenti nell’articolo di D’Angelo (Spengler e Bloch), più Kierkegaard e Watt, che abbiamo aggiunto in
modo tale da coprire completamente la fascia temporale che va dal
periodo di pubblicazione del Faust fino ai giorni nostri.
Dopo, siamo passati ad analizzare la seconda ed ultima categoria
di letture del Faust: quelle di chi lo ha considerato una vera e propria
opera filosofica.
Anche qui abbiamo seguito la traccia di D’Angelo però con una piccola aggiunta: abbiamo considerato l’interpretazione fornitaci da Marino Freschi. Ciò è stato fatto non solo per fornire un esempio di lettura del
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perché ci sembra che questo autore evidenzi una chiave di lettura
completamente assente in tutte le altre interpretazioni.
Ora che abbiamo ripassato tutte le tappe del nostro viaggio è
arrivato il momento di mettere a frutto le esperienze appena acquisite.
Si nota subito come tutti e due gli approcci all’opera di Goethe abbiano prodotto letture decisamente interessanti. Nonostante ciò, siamo
del parere che è stato indiscutibilmente il filone che nel Faust ha visto solo
filosofemi il più prolifico di risultati.
Ciò è dovuto al fatto che chi la vuole vedere come un’opera filosofica completa non tiene debitamente conto della natura intrinseca del
dramma teatrale: l’opera non possiede un’unità interna ben definita.
Questa particolarità è dovuta alla poliedrica preparazione
intellettuale dell’autore, ma anche alla particolare genesi dell’opera. Essendo stata composta in circa sessanta anni, Goethe non è riuscito – probabilmente nemmeno gli interessava particolarmente– a fornire una rigida coerenza alle pagine da lui scritte. Questo anche perché è molto
improbabile che un qualsiasi intellettuale dello stampo del nostro poeta
tedesco non cambi mai idea su nessun tema in assoluto. Sicuramente in
sei decenni egli avrà avuto modo di sviluppare alcune teorie, ripensarne
altre e di rinnegarne altrettante. Tutto il suo percorso intellettuale di una
vita lo possiamo trovare, a sprazzi, affrescato nelle pagine del Faust.
Di ciò non possiamo nemmeno fargliene una colpa, se, come si
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intenzione di scrivere un’opera filosofica vera e propria, non doveva essere sistematico e coerente nelle teorie espresse dai suoi vari
personaggi nel corso della storia. È per questo che, pur essendo
sicuramente degli esercizi intellettuali interessanti, le letture filosofiche che
hanno voluto vedere nel Faust una compiuta filosofia, non ci convincono
pienamente e, probabilmente, non avrebbero convinto nemmeno lo stesso
Goethe.
Preso ciò per assodato, concentriamoci sui risultati di chi ha visto
nel Faust solo una stupenda opera teatrale contenente alcuni filosofemi.
Abbiamo mostrato nel terzo capitolo come questi abbiano prodotto delle
interpretazioni memorabili. Ciò è perché hanno potuto concentrarsi
sull’analisi di un aspetto singolo dell’opera non dovendo spendere energie in arzigogolate spiegazioni mirate a inquadrare tutti i passaggi del libro in
un'unica cornice, che probabilmente unica non è quasi mai stata.
Questo particolare metodo di lettura ha comportato anche una
particolarità importante: i risultati derivati da questo modo di accostarsi
all’opera facilmente trascendono l’argomento specifico dell’analisi filosofica del testo ma, spesso, il particolare filosofema evidenziato diventa
un trampolino di lancio per considerazioni di più ampio respiro.
Un esempio eccellente di tali meraviglie lo si può trovare nelle
letture di Spengler e Bloch: essi, partendo ambedue dall’osservazione del comportamento del protagonista, costruiscono un ragionamento
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essi giungano a conclusioni diametralmente opposte –sempre ponendo come base dei giudizi sull’atteggiamento del personaggio faustiano! – riguardo le speranze da nutrire per il futuro dell’Occidente.
Questa considerazione ci porta all’ultimo punto della questione. Abbiamo visto come molti filosofi abbiano attinto a piene mani dal Faust
spunti rilevanti per le loro particolari considerazioni filosofiche generali.
Come mai quest’opera teatrale si presta così bene per questo tipo di comportamento nei suoi confronti?
Ragionando molto su questa questione, siamo arrivati alla
conclusione che non sia possibile dare una risposta definitiva, ma che,
comunque, ci si possa avvicinare moltissimo alla verità. Questo è stato
possibile grazie a due contingenze tra loro concatenate. La natura dello
scrittore e la natura dell’opera. Sicuramente è stata determinante la sviluppatissima sensibilità di Goethe verso i mutamenti della propria
epoca, un periodo così tumultuoso e pieno di sconvolgimenti radicali.
Con il suo immenso genio lui è riuscito a incasellare in un’opera unica (anche se così sfaccettata che unica non sembra essere) la maggior parte delle questioni che, all’epoca in nuce, sarebbero diventate fondamentali da lì a 200 anni.
Qui subentra la seconda contingenza che consideriamo
fondamentale per il successo tra i filosofi dell’opera. Goethe ha deciso di scrivere un testo che, anche se non prova a esplicare sistematicamente i
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perché no, le inquietudini che il continente europeo stava inconsciamente
covando da anni.
Azzardando un’ipotetica giustificazione al perché le idee espresse nel Faust non siano state scritte in una maniera più rigorosa, ci torna alla
mente un passo dell’incipit di Cent’anni di solitudine: “Il mondo era così recente che molte cose erano senza nome, e per menzionarle bisognava
indicarle col dito”156
.
Quest’impressione di Gabo la si può benissimo applicare al periodo in cui Goethe scrisse la sua opera: ci furono talmente tanti cambiamenti in
così poco tempo, che fu impossibile, anche per un genio come Goethe,
descrivere in maniera sistematica tutto il quadro generale.
È proprio in questi casi che la poesia ci fornisce gli strumenti adatti
per poter comprendere. Le idee che stavano nascendo in quel periodo, e
che oggi sono diventate di fondamentale importanza, non le si poteva
descrivere con la filosofia, bisognava ancora accontentarsi di poetarle,
lasciandogli il tempo necessario per crescere e prendere il proprio posto
nel mondo.
Questa varietà di temi, unita alla forma poetica in cui sono stati
espressi hanno fatto sì che il Faust fosse una miniera d’oro per tutti i pensatori che intendessero cimentarsi nello studio di tale capolavoro.
126
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