DAL REALISMO GNOSEOLOGICO AL REALISMO INTERNO
FONDAMENTO, DISSOLUZIONE E RIVALUTAZIONE DEL CONCETTO DI REALTÀ
Pierluigi Morini
Premessa
Data la buona riuscita dell’intervento svoltosi l’anno passato al Liceo Classico Galvani di Bologna, ho pensato di proporre anche per quest’anno, A/S 2009-10, un Laboratorio di Filosofia che mettesse a tema il significativo concetto di Realtà - attorno al quale si sono espressi filosofi ed autori – introducendo alcune delle loro più importanti interpretazioni accompagnate dalla visione e dall’analisi di una pittura o di alcune sequenze di film.
Si tratta di brevi esperienze estetiche, che non hanno tolto nulla all’autonomia disciplinare della Filosofia ma che, a mio avviso, ne hanno potenziato la valenza e la portata proprio attraverso quel dialogo con le forme dell’arte, o con le scienze, dando luogo così ad una modalità didattica che altrove ho già denominato “introduzione estetica alla filosofia”.
In questo articolo espongo il contenuto del Modulo laboratoriale, così come è stato fruito dagli alunni di una Terza Classe, sotto forma di fascicolo. Dalla lettura, dallo studio e dagli ulteriori approfondimenti consigliati, gli studenti hanno poi desunto i modelli di razionalità che gli autori citati hanno espresso. Le pratiche didattiche che hanno loro permesso di farlo, verranno esposte in un articolo successivo a questo.
Per dare continuità alle esperienze laboratoriali di filosofia che si svolgono nell’Istituto Scolastico, si è scelto di avviare i lavori a partire da una domanda sulla nozione di realismo, riferita a Platone ed Aristotele, formulata l’anno scorso da un alunno di Prima Classe, al termine del Laboratorio Tematico di Filosofa a cui aveva
partecipato. Proprio dagli sviluppi della risposta data a tale domanda1, nasce il Modulo che qui si presenta. La
domanda dello studente Dario Drudi (IF) era la seguente: “Si può istituire un rapporto tra il realismo gnoseologico
di Platone e quello di Aristotele?”
< Risposta >
Sia il termine “realismo” che il termine “gnoseologia” sono stati coniati dalla filosofia moderna, estranei a Platone ed Aristotele.
I primi a parlare di “realtà” sono stati i filosofi scolastici medievali quando hanno inteso indicare l’esistenza degli universali (i generi e le specie di cui aveva parlato Aristotele nelle Categorie) come delle realtà che esistono al di fuori dell’anima (sono esterni a chi li pensa).
Nel Settecento, Baumgarten introduce il termine “gnoseologia”, con il significato di teoria della conoscenza, e Kant parla per la prima volta di “realismo” (ancora nel senso scolastico di autonomia della realtà dal pensiero) in contrapposizione all’ “idealismo” (dipendenza della realtà dal pensiero).
Se analizziamo il termine “realismo” assumendolo nel suo senso più esteso, sia Platone che Aristotele possono dirsi realisti, infatti per entrambi il pensiero riflette la realtà esterna, cioè l’ “essere”; ma se invece approfondiamo di più, troviamo che Platone intende la realtà come la dimensione ideale ed extra-sensibile, mentre per Aristotele la realtà incomincia ad essere tale già nella dimensione dell’esperienza sensibile.
1
La domanda e la risposta in questione erano già state pubblicate nell’articolo di G. Miranda – P. Morini, L’esperienza didattica del
Laboratorio tematico di Filosofia, contenuti in «Comunicazione Filosofica» n. 24 – maggio 2010, alle pp. 70-72. Per motivi funzionali alla
A partire da quest’ultima considerazione, che tiene conto della storia del concetto di realismo ed individua nella modernità la sua genealogia, l’interpretazione kantiana può essere assunta come il paradigma razionale per l’impostazione del problema:
1) la posizione di chi si dice realista consiste nel considerare la realtà esterna indipendente da chi la osserva; per un realista le percezioni sensoriali ci forniscono le immagini degli oggetti esterni a noi, le cui proprietà sono
indipendenti da noi che le osserviamo, pertanto tali proprietà sono dette oggettive;
2) invece l’idealista che osserva i medesimi oggetti esterni, considera le percezioni sensoriali inadeguate a fornire una vera e propria comprensione della realtà; secondo questa prospettiva, che è quella assunta da Platone, i sensi ci presentano solo illusioni create da noi e dipendenti da noi, pertanto soggettive.
Ora, se le percezioni sono sempre fuorvianti, come sostiene la tesi idealista, allora la realtà non è come
sembra, e questa è la posizione espressa magistralmente da Platone nel libro VII della Repubblica, attraverso la
celebre allegoria della caverna (514a-517a) dove le ombre proiettate sul muro sembrano la realtà ma non lo sono. Ancora prima, alla fine del libro VI (509d-511e), Platone propone un’articolazione dei vari livelli della realtà, immaginando una linea divisa in segmenti di lunghezza differente ma proporzionali tra loro; la ripartizione separa appunto in due sezioni la linea: la prima rappresenta l’oroménon génos e la seconda il noouménon génos. Così l’aspetto “visibile”, cioè sensibile, della realtà (prima sezione) viene differenziato dall’aspetto “pensabile”, cioè ideale (seconda sezione), e solo penetrando quest’ultimo si accede alla conoscenza della realtà. Inoltre, un’ulteriore suddivisione della seconda sezione interviene ad indicare le specificità del pensiero matematico (che procede per postulati) e del pensiero dialettico (che procede per ipotesi), decretando la superiorità epistemica del secondo sul primo. La dialettica è un methodos che procede in modo ascendente verso il “principio” (il Bene) ed il «dialettico è colui che afferra la ragione (logos) dell’essenza (ousia) di ogni singola cosa»; viceversa non è dialettico «chi non sa delimitare razionalmente l’idea del bene isolandola da tutto il resto e, come in battaglia (en
máche) superando ogni confutazione e sforzandosi di argomentare non secondo l’opinione, ma secondo
l’essenza, non riesce tuttavia a superare con la sua ragione infallibile tutti gli ostacoli e *…+ non conosce il bene in sé né alcun altro bene» (Ibidem, VII, 534a-c). Il Bene, pertanto, è e resta «il limite estremo del pensabile» (532b).
Aristotele non condivide questa idea puramente intellettuale ed assoluta del bene, ma gli preferisce una concezione legata all’azione ed alla vita pratica. Salvo poi recuperarla nel finalismo cosmologico: in questo senso l’Atto puro o motore immobile concepito da Aristotele non si discosta di molto dall’idea del Bene che aveva prima espresso Platone.
Qui certo, in questa teleologia, può essere rilevata una convergenza tra la filosofia di Platone e quella di Ari-stotele.
Tutt’altro rilievo invece dev’essere fatto per quanto riguarda la teoria della conoscenza. Infatti per Aristotele
le percezioni degli uomini non sono sempre errate, come per Platone, ma sono a volte errate ed a volte corrette, e
il compito del filosofo consiste nell’individuare i casi di correttezza e di errore. Quindi si può dire che, per la tesi
realista espressa da Aristotele, non tutta la realtà è come sembra e che le percezioni sono preziose informazioni
sensoriali che l’intelletto può e deve elaborare per conoscere il mondo e farne esperienza.
Per Aristotele l’organo attraverso cui l’uomo conosce la realtà è l’anima. L’anima è una sostanza che informa e rende vivo un corpo (questo vale per i corpi di tutti i viventi), essa è «L’enteléchia di un corpo naturale che possiede la vita in potenza. Tale sostanza è atto» (L’anima, 2, 412a, 20). Con il termine entelechia Aristotele intende «l’atto in rapporto all’operazione [enérgeia katà to érgon]» (Metafisica, IX, 8, 1050a, 23). Delle tre funzioni dell’anima (vegetativa, sensitiva ed intellettiva), con cui l’uomo vive e conosce (si nutre, si riproduce, percepisce, immagina, ragiona e coglie i concetti), quella intellettiva è la più importante in quanto è adibita alle operazioni logico-cognitive ed al giudizio. Ma,
«poiché non c’è nessuna cosa, come sembra, che esista separata dalle grandezze sensibili, gli intelligibili si trovano nelle forme sensibili [sono immanenti ad esse], sia quelli di cui si parla per astrazione [gli enti matematici, che sono caratterizzati dal fatto di non essere sostanze] sia le proprietà [essenziali] e le affezioni [accidentali] degli oggetti sensibili. Per questo motivo, se non si percepisse nulla non si apprenderebbe né si comprenderebbe nulla, e quando si pensa, necessariamente si pensa un’immagine» (Aristotele, L’anima, 3, 432a, 5-10).
L’anima, quindi, riceve le sensazioni che giudica con l’intelletto; essa è, per se stessa, una tabula rasa su cui si possono incidere le sensazioni e da cui si possono produrre i concetti. Le sensazioni si sviluppano quando gli
oggetti sensibili “propri” vengono colti dagli organi di senso corrispondenti, cioè quando i colori, i suoni o i sapori, vengono percepiti dalla vista, dall’udito o dal gusto. Quando poi ogni senso specifico si mette in collaborazione con gli altri sensi, si produce una percezione “comune” dell’oggetto sensibile, ovvero il suo movimento, la sua stabilità, il suo numero e la sua grandezza. Nell’anima si forma così un’immagine dell’oggetto che lascerà traccia di sé nella memoria e potrà essere riprodotto attraverso l’immaginazione. I concetti, o intelligibili, vengono formati dall’intelletto (e quindi non sono innati, come sosteneva Platone) che li astrae dal mondo sensibile, dove essi esistono solo potenzialmente (intelletto potenziale; l’analogo di «una tavoletta per scrivere dove non ci sia attualmente nulla di scritto» ibidem, 3, 430a), per poi comprenderli e penetrarli (come «la luce rende i colori, che sono in potenza, colori in atto» ibid., 3, 430a 18) in tutta la loro verità (intelletto attivo). L’anima è la forma di un corpo a lei appropriato, la forma essenziale, il principio d’organizzazione di un corpo che con essa fa un tutt’uno. Perciò, anche se l’intelletto attivo è «separabile, impassibile e non mescolato, essendo atto in potenza» (ibid.), esso non comprenderebbe nulla se ciò che comprende non fosse stato prima percepito dai sensi.
Da quanto detto, l’idealismo platonico ed il realismo aristotelico sembrano divergere sul ruolo dato all’esperienza sensibile; tuttavia resta la comune appartenenza ad un pensiero speculativo che considera
l’apparenza sensibile come un fenomeno causato da una realtà metafisica che esiste in modo indipendente (Bene, Atto puro) da essa. Forse allora si può parlare anche di un realismo che mette in rapporto Platone con Aristotele. Vediamo come e quando.
In epoca medievale (sec. XII-XIII) i filosofi scolastici aprirono un lungo dibattito sul problema degli universali, in riferimento a quanto detto a tal proposito da Socrate, Platone ed Aristotele, ma soprattutto in relazione alla teologia creazionistica cristiana.
La questione concerne il modo della relazione tra le cose particolari e l’insieme omogeneo che le contiene e che, nel linguaggio, prende il nome di concetto. I principali termini del problema possono essere contenuti in una domanda che poniamo qui a titolo di esempio: “per conoscere un cavallo di nome ‘fulmine’ è necessario conoscere il cavallo in generale, o viceversa?”
Per la corrente platonico-agostiniana (Anselmo d’Aosta) bisogna partire dal concetto, dal suo legame con la struttura ideale (e teologica) che fonda il mondo (l’essenza universale del cavallo ovvero il cavallo in generale, le caratteristiche di quella specie). Così la conoscenza vera è solo ante rem (occorre sapere del cavallo) e precede sempre la conoscenza della cosa particolare (un cavallo detto ‘fulmine’).
Tra coloro che invece risentirono maggiormente del rinnovato interesse per Aristotele, vi furono alcuni (Alberto Magno e Tommaso d’Aquino) che giustificarono sia l’esistenza dei concetti che quella degli oggetti particolari, collocandone l’esistenza in piani differenti dell’essere. Allora i concetti (il cavallo in generale) esistono nella mente di Dio prima della creazione (sono ante rem); esistono nel mondo degli individui (i singoli cavalli) creati (sono in re); infine esistono anche come nomi (il nome ‘fulmine’) e cioè come risultati linguistici delle operazioni cognitive dell’uomo, le quali richiedono l’uso dei sensi, delle immagini mentali, dei concetti che la mente astrae per induzione dalle esperienze particolari (sono post rem).
Pertanto, proprio nel contesto della scolastica medievale, è pertinente parlare di realismo in riferimento al platonismo, purché si specifichi che si tratta di quel particolare platonismo di matrice cristiana, per il quale i concetti corrispondono alle realtà trascendenti (idee) già presenti nella mente di Dio, che fungono da modelli per la creazione.
Solo a partire da Cartesio sarà possibile formulare il dubbio ontologico sulla realtà intera. Ma per potersi chiedere se la realtà c’è davvero o se è tutto un sogno (io sogno o son desto?) occorre che vi sia un soggetto (io) a formulare questa domanda, il concetto di soggetto prodotto dalla filosofia moderna con Kant. Concludiamo con Cartesio:
«Ripensandoci attentamente mi ricordo di essere stato spesso ingannato nel sonno e fermandomi su questo pensiero vedo chiaramente che non ci sono segni sufficienti per distinguere nettamente il sogno dalla veglia, e me ne stupisco» (R. Cartesio, Meditazioni sulla filosofia prima intorno all’esistenza di Dio e all’immortalità dell’anima, 1641; I Meditazione).