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L’ERMENEUTICA DI PAUL RICOEUR 1 Giulio Moraca

Nel documento www.sfi.it Registrazione: ISSN 1128-9082 (pagine 119-122)

La realtà culturale dei nostri tempi, dominati dalla frammentazione e da una estrema pluralità di correnti, di interessi e di ambienti spesso autoreferenziali, è molto variegata e complessa. Non è più possibile parlare di egemonia culturale. È necessario, però, individuare alcune priorità intellettuali, fra le quali l’ermeneutica, ultima spiaggia di approdo del ‘900. Dopo la traumatica fine delle ideologie, dopo il fallimento di escatologie politiche, che pretendevano di trasformare l’uomo e il mondo in senso salvifico su un piano immanentistico, la religione, sia per i credenti sia per i non credenti, è ritornata a costituire un argomento forte e prioritario. E la filosofia non a caso sembra rimandare a testi sacri, oggetto di svariate interpretazioni. Di qui l’importanza dell’ermeneutica di Gadamer, capace di spaziare dalla poesia alla narrativa all’arte, alla filosofia antica e moderna, caratterizzata da un pensiero piuttosto conciliante. L’ermeneutica di Ricoeur, però, è, a mio avviso, più complessa, più approfondita, più conflittuale, figlia probabilmente di una maggiore inquietudine.

Paul Ricoeur (1913-2005), francese, cristiano protestante, rinvia esplicitamente ai testi del cristianesimo. Anche se ha sempre dichiarato con forza di distinguere l’attività di filosofo da quella di uomo di fede, la sua radice cristiana risulta evidente in una pur laica sobrietà. Ricoeur rifiuta l’etichetta di “filosofo cristiano” per professare un “cristianesimo da filosofo”. La sua è una testimonianza cristiana al di là di ogni clericalismo, di ogni schematismo politico, oltre la sfera istituzionale, in quanto l’ermeneutica frantuma tutte le chiusure ideologiche unilaterali. Il filosofo francese da Heidegger riprende la concezione di esistenza quale interpretazione, con un forte senso di drammaticità spirituale. “Homo viator = Homo hermeticus”. L’uomo che è viandante è l’uomo interpretante, che conosce “la gioia del sé nella tristezza del finito”. “Chi sono?” è la domanda di fondo eterna, sempre valida, che nel presente è posta in un mondo di simboli da decifrare, in una realtà ambigua, dai molti sfumati significati. Il filosofo francese prende in considerazione la polisemia del linguaggio, non ignora l’importanza della filosofia analitica, ma pone la necessità di saltare dal “cerchio incantato” del semantismo fine a se stesso per attingere al piano umano ed ontologico. La sua è una filosofia molto articolata, permeata da polarità e dialettiche.

Due poli si presentano in fraterna tensione:

a) la vocazione del cristiano nella comunità profetica; b) la vocazione del cristiano nella politica laica. È l’antica polarità fra la montagna e la città.

Il Polo profetico

Esaminiamo il polo profetico.

Saliamo in montagna, ove ci imbattiamo in altre dialettiche.

Da una parte si erge Cartesio, il filosofo della modernità per antonomasia, della costruzione del soggetto e della verità epistemica forte. Dall’altra Nietzsche, la decostruzione del soggetto e di tutte le sicurezze cristallizzate. Nella contemporaneità pulsioni e contro pulsioni sono alle spalle della coscienza in una visione debole di verità. Ricoeur, però, supera la prospettiva nichilistica, dopo aver diligentemente frequentato “la scuola del sospetto” e le lezioni dei suoi grandi Maestri: Marx, Nietzsche, Freud, che hanno insegnato a diffidare della falsa coscienza. La scuola del sospetto rappresenta il capovolgimento del fare filosofia, il radicale capovolgimento del vecchio processo logico. Un tempo il filosofo dimostrava ed argomentava, dopo averla presentata, la sua tesi. L’avversario faceva altrettanto con la sua antitesi; traeva, per dirla con un linguaggio giuridico, le sue

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controdeduzioni. Oggi, in un mondo di tante verità deboli e di nessuna verità, non si contesta più il senso veritativo di una argomentazione. Si può tranquillamente ammettere il valore retorico e letterario del discorso dell’avversario, ma non la sua verità, né gli si contrappone un’altra verità, in quanto non esiste più alcuna verità. Ogni senso veritativo è andato perduto. Si sospetta piuttosto che dietro la posizione dell’altro ci sia un vantaggio inconfessato, un giuoco di potere, una celata intenzione di inganno. Dietro il concetto di ideologia di Marx, quale falsa coscienza, si nasconde l’interesse della classe dominante. La repressione sessuale, insegna Freud, si trova sotto le belle ed ipocrite vesti della morale. Ma è forse Nietzsche, forse il più terribile esponente di questa scuola, a mascherare la millenaria mistificazione dietro i valori della civiltà occidentale, evidenziando come le forze nichilistiche della storia abbiano ingabbiato, soprattutto con i falsi valori della trascendenza cristiana, la vita e l’immanentismo dello spirito dionisiaco.

Si tratta di un radicale ribaltamento del vecchio procedimento logico. Le tensioni polari non sono terminate. Ricoeur realizza anche un percorso archeologico, rinviando ancora una volta a Freud, alla dimensione inconscia onirica e notturna delle pulsioni e della libido. Dopo gli scavi archeologici si ritorna alla luce del sole, al percorso teleologico della coscienza, ben rappresentato dalla “Fenomenologia” di Hegel, dalla sua luminosa autocoscienza, dal suo forte senso della storia. Siamo noi, secondo il filosofo francese, che diamo senso alla storia, nello svelamento della verità cristiana. Lo storicismo hegeliano viene integrato dalla escatologia cristiana vissuta nell’ambito della fede. Infine il coronamento dell’intero viaggio è la Bibbia con la sua interpretazione. L’uomo si confronta con il linguaggio biblico, un linguaggio simbolico, che favorisce il pensiero profondo, mirando ad un significato di trascendenza e rendendo nello stesso tempo la persona conscia della dimensione spirituale del suo essere. Dagli scritti biblici emerge la centralità del paradosso delle parole di Gesù . Il paradosso, l’ossimoro immette in una ricerca di senso che non ha fine. È attesa di una pienezza che ci sfugge. Il cristianesimo è la religione maggiormente incentrata sull’ossimoro. Si pensi al Vangelo. Dio fatto uomo, il crocifisso risorto e vivente, amore del non amabile, sperare l’insperabile (la morte della morte), credere l’incredibile (quel cadavere risorgerà), i primi diventano gli ultimi e gli ultimi i primi, i poveri beati, chi perde la vita la guadagna. Il paradosso rompe ogni linearità, ogni chiusura pregiudiziale, disorienta per riorientare.

Ora scendiamo dalla montagna per giungere in città. Analizziamo il polo politico-sociale, per imbatterci nella responsabilità del filosofo nella società degli uomini.

Il polo politico

La dimensione distopica di Ricoeur è piuttosto aspra. Il nostro mite professore di filosofia con molta durezza e franchezza parla della nostra società iper-capitalistica, iper-consumistica e globalizzata come di un inferno in una stupidità di massa tecnocratica dilagante. È il lupo di Hobbes ad aver caratterizzato la modernità. Di contro si rende assolutamente doveroso il riconoscimento dell’immenso popolo degli oppressi e degli sfrattati, delle vittime della storia. Stridente appare il contrasto fra la formale attribuzione dei diritti e la disuguale attribuzione dei beni. Colpisce brutalmente non solo la violenza fisica o la tortura, ma anche il misconoscimento morale dell’altro. Una società che concepisce il progresso in base alla produttività e che considera le persone in base alle loro capacità produttive accentua le disuguaglianze fra nazioni e all’interno di una stessa nazione. Per dirla con Max Weber, la nostra è una società dominata dalla ragione calcolante e strumentale, non dalla ragione finale. È un mondo fatto di edonismo vuoto e fittizio. Il vero progresso è etico. Alla “pars destruens” succede la “pars costruens”. Non possiamo e non dobbiamo rassegnarci al lupo di Hobbes. Dopo la modernità è auspicabile la configurazione della “trans-modernità”. È possibile un mondo altro, in una lotta non violenta? Interrogativo filosofico drammaticamente problematico, ma non privo di speranza, anzi fondatore di speranza, nonostante le smentite della storia, nonostante la coscienza della finitezza e fragilità dell’umano. Si delinea una escatologia, al di là di tutti i fallimenti storici. È un percorso etico dinamico verso la “vita buona”, con e per l’altro all’interno di istituzioni giuste. Bisogna costruire una comunità civile ed umana dal volto solidale e umano, in grado di fare della pace un valore irrinunciabile, con un alto grado di responsabilità verso la vivibilità del pianeta terra e verso le future generazioni, come sostiene Hans Jonas. Solo all’interno di istituzioni giuste l’individuo può trovare una sua realizzazione, con un certo ordine di costumi, non certo con regole coercitive. Si può parlare di liberalismo inteso non come particolarismo oligarchico di origine anglosassone, che pure si è poi storicamente universalizzato, ma come rispetto e riconoscimento delle minoranze. Ricoeur riprende da John Rawls la tesi della giustizia quale eguaglianza proporzionale capace di equilibrare l’aumento dei vantaggi dei più favoriti con la diminuzione degli svantaggi dei meno favoriti. Massimizzare la parte minimale. È l’equa distribuzione dei beni, molto distante da

concezioni collettivistiche e livellatrici, sfociate in regimi totalitari e tirannici. Lo stato deve essere garante dei diritti civili, politici e sociali, mentre l’individuo è libero di potersi determinare da sé. Evidente il rimando alla grande tradizione giusnaturalistica e alla concezione della società civile di hegeliana memoria. Ma sul piano morale vi è un ulteriore oltrepassamento, nel ritornare ai precetti kantiani che ha loro volta risentivano della visione evangelica. “Non fare agli altri quello che non vuoi sia fatto a te”; “Rispetta sempre l’umanità, in te e negli altri, come un fine, e non servirtene mai come di un semplice mezzo”. Sono queste le regole auree della tradizione giudaico-cristiana. Sono messe a confronto due logiche, quella dell’agape e quella della giustizia. L’agape è la logica della giustizia; la giustizia la logica della equivalenza. Fra amore e giustizia sussiste una sproporzione. L’agape sovrasta e trascende la giustizia, senza rinnegarla. L’agape rende la giustizia capace di superare i suoi limiti storici e culturali, costituiti dai pregiudizi etnici, razziali, di classe. Bellissimo il riferimento del filosofo francese al principe Myskin nell’Idiota di Dostoevskij, come ci riferisce Vereno Brugiatelli nel suo saggio

Potere e riconoscimento in Paul Ricoeur. “Il principe Myskin è l’idiota non perché manchi di intelligenza, ma per il

fatto di non valutare i diversi casi di disputa o contestazione con il metro della giustizia, di non usare la logica della equivalenza” (Vereno Brugiatelli, Potere e riconoscimento in Paul Ricoeur, pag. 127). L’amore tutto incendia, come nel Cantico dei cantici, che è canto nuziale e mistico, in cui cade la stessa opposizione fra agape ed eros. Ma il dono è gratuità laddove non parte dal narcisismo egoico e non arriva ad esso, bensì proviene dal Sé, che è capacità di dire, di agire, di narrare e narrarsi, di assumere responsabilità, di formarsi nella intersoggettività, con l’altro. È creazione di stati di pace, amicizia, amore. Certo, tutto questo operativamente è difficile, implica travaglio, intima sofferenza. “Per l’uomo che agisce e soffre prima di arrivare al riconoscimento di ciò che egli è in verità, ossia un uomo capace di certe realizzazioni, il cammino è lungo” (Vereno Brugiatelli, Potere e

riconoscimento in Paul Ricoeur, pag. 21). Ma, per quanto lungo e faticoso, è un percorso da svolgere. Il discorso

politico è necessario, ma non sufficiente. La città ancora una volta è lasciata alle spalle. Si ritorna in montagna, alla dimensione biblico-profetica.

Conclusione

La Bibbia presenta in tutta la sua forza la qualità poetica ed immaginativa, in quanto non si perde in astratte asserzioni, ma immagina la verità, stimolando la stessa creatività del lettore. Ispirata da una dinamica simbolica e poetica, non si rassegna all’esistente, inventa il futuro. Trascendenza ed escatologia sono le sue cifre di fondo, che però vanno sempre interpretate. Ricoeur preferisce parlare più del Dio onni-amante che del Dio onnipotente. La potenza è una categoria troppo umana e politica.

“Il problema è che il modello di onnipotenza che abbiamo è un modello politico, quello del tiranno che può ottenere tutto ciò che vuole” (P. Ricoeur, La logica di Gesù, pag. 142).

Dopo l’Olocausto è in crisi il concetto di potenza di Dio, soprattutto nell’ambito del terribile e misterioso problema del male, irrisolvibile per la mente umana. Anche la concezione di Provvidenza va rivista. È una Provvidenza che aiuta a resistere alle sventure e alle sofferenze. Credere però che protegga tutti è offensivo nei confronti delle vittime delle tragedie e dei dolori (che da Dio non sono state protette). Anche questa problematica si presta a poliedriche e svariate interpretazioni. L’ermeneutica è frantumazione di ogni teologia dogmatica ed precostituita e di ogni certezza di comodo. È liberazione da letture unilaterali e fondamentaliste, oggi tanto pericolose. Si dischiudono nuovi orizzonti.

Bibliografia

Paul Ricoeur, Il conflitto delle interpretazioni, ediz. Jaca Book, Milano, 1999.

Potere e riconoscimento in Paul Ricoeur, per un’etica del superamento dei conflitti, Editrice Uni Service, Trento

2008.

POSSIAMO CAPIRE L’UNIVERSO?

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