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Intorno al costo sociologico del protezionismo

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L'articolo del Carli che qui di seguito si pubblica è uno dei tanti sintomi che si possono osservare in Italia della decadenza di quello spirito protezio-nistico il quale, vigoroso prima della guerra, aveva apparentemente tratto partito dalla esperienza bellica per fare affermazioni di vittoria definitiva, simili in tutto a quelle che tante volte udimmo risonare sulle labbra degli imperatori e dei cancellieri germanici. Invece, non è ancora firmata la pace, e già la sparuta schiera dogli economisti si vede ringagliardita dal consenso anzi dall'opera vigorosa ed indipendente degli agricoltori ed i progetti di riformare le tariffe doganali in senso protezionistico con decreti-legge vengono meno ed il governo prende impegno di far discutere la nuova tariffa dal parla-mento. Dinanzi al vento contrario che spira, i siderurgici cambiano tattica e pare si osservi un orientamento verso forme miste di statizzaz-one delle impreso necessarie alla difesa del paese. Lo sciitto del Carli si aggiunge a questi sintomi di un mutamento profondo negli spiriti, il quale fa sperare bene per l'avvenire del paese.

Ma poiché lo scritto vuole avere carattere esclusivamente scientifico, nou è forse inopportuno premettervi qualche breve osservazione. Come tutti co-loro, i quali hanno formato la propria mentalità nello studio degli economisti classici e dei loro diretti continuatori, io non vedo la necessità di coniare nuove parole per esprimere vecchi concetti. Specialmente i tentativi di dare una veste di u sociologismo » a ragionamenti antichi e pacifici mi sono sempre sembrati privi di sostanziale utilità scientifica.

Che un provvedimento una linea di condotta, libcristica o protezionistica, utile economicamente possa produrre danni politici o viceversa, era verità notissima da almeno cent'anni innanzi che si inventasse la sociologia. Che bisogno perciò, c'è di dire c h e l a nozione del «costo sociologico n ò recente, quando in fondo tutto si riduce a notare che, facendo una esemplificazione doganale, il costo o la perdita economica provocata da un dazio protettivo può essere compensata dal van*aggio politico, dalla sicurezza del paese o dalla conservazione di una data classe sociale? Ver tà risaputa, scritta in tutti i trattati economici ed a cui non si aggiunge nulla dandole un palu-damento di parole vagamente sociologico.

Tanto più l'uso di questa termiuologia — il « recente » sta tutto nella terminologia — parmi scarsamente consigliabile, in quanto esso può essere l'occasione, sebbene non la causa necessaria, di equivoci intorno all'intima sostanza del pensiero economico classico. Colla contrapposizione del costo economico a tutti gli altri costi si viene involontariamente a restringere

troppo il contenuto del criterio economico, anzi a svuotare questo quasi di ogni conteuuto. Parrebbe che sia « economico » il costo o il vantaggio del-l'individuo e « ion economico * il costo o il vantaggio della collettività, considerata in un momento presente o futuro o nella continuità delle gene-razioni. Sarebbe economico l'interesse dell'industriale o dell'operaio ad otte-nere profitti o salari più alti grazio alla protezione doganale e non sarebbe economico Fintereste della collettività ad ottenere, con un dato costo, che fra dieci o venti o trent'anni una industria, oggi debole, sia capace di ba-stare a sè stessa. Vale la pena di ricordare che in tal modo si confonde il punto di vista « individualistico * con il punto di vista u economico * e che nessuno degli economisti classici, nessuno degli economisti di grido che vera-mente sono penetrati nello spirito della scienza si è reso colpevole di questa confusione? Qua e là, i soliti epigoni, coloro che scrivono secondo la moda del giorno, hanno immaginato che l'economia fosse una scienza individua-Ustica; ma è anche chiaro che di tale credenza arbitraria non è da fare nella storia della scienza nessun conto. S'intende che, coli'alternarsi delle correnti del pensiero filosofico, la economia si è colorata a tratto a tratto di tendenze individualistiche o socialistiche o protezionist:chc; ma questo colo-razioni esteriori possono avere abbagliato solo i laici, incapaci di discernere attraverso alle parvenze accidentali il nucleo centrale della verità insegnata da una scienza. La sci nza economica non ò una scienza dell'individualismo, perchè è la scienza della convenienza in generale, degli individui, dei gruppi, delle collettività libere coattive, della convenienza presente e della conve-nienza futura, della conveconve-nienza del presente e del futuro legati insieme. Concepire l'individuo come il fine della scienza economica è un errore; quando esso è solo uno degli oggetti del suo studio, al quale, come agli altri, l'economia applica i criteri logici che sono la sua essenza vera, la sua gloria imperitura, criteri logici che sono quelli che, in maniera imprecisa, ora si vorrebbe far credere inventati dal sociologismo confusionario. Perchè, ad esempio, dovremmo considerare come sociologico e quindi di tipo nuovo il ragionamento che il Carli fa intorno al tentativo di trattenere, collo strumento del protezionismo doganale, in patria gli emigranti italiani? Questo medesimo ragionamento poteva ben farsi, e fu fatto infinite volte, senza uopo di ricorrere ai diversi « ritmi • della nazione e rimili sociologismi. Che cosa c è di più consueto dell'osservare che l'emigrazione fa perdere i beni che sarebbero stati prodotti in patria dagli emigranti ; che quindi i dazi doga-nali possono consentire di trattenere gli emigrati garantendo salari suffi-cientemente alti nell'industria protetta; ma per necessario contraccolpo i salari nelle industrie non protette debbono salire se non si vuole che l'emi-grazione, soppressa in un campo, si intensifichi in un altro; e tuttavia il rialzo dei salari provoca un rialzo dei costi ed un ostacolo alle esportazioni? Di qui crisi economiche, o rivoluzioni interne o guerre di espansione. Se noi facciamo astrazione da questi amminnicoli politici e bellici, i quali erano stat;, del resto, insistentemente inculcati dai libero-scambisti pratici, tipo Cobden e Bright — quante volte in Italia non disse Giretti e non dicemmo

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tutti quanti noi liberisti, che il protezionismo era una causa potente di ostilità internazionali e di guerre? — il ragionamento cosiddetto integrale o socio-logico non è altro se non una riformulazione del classico teorema ricardiano degli scambi internazionali. Io preferisco i teoremi ricardiani, stupendi per semplicità e per lapidarietà, che vanno dritti al fondo della questione, che •sprimono in termini generalissimi leggi universali ; e, pur consentendo altrui licenza di esprimersi diversamente, nego che si faccia compiere un passo alla scienza con la mania di demolizione delle teorie vecchie da cui sem-brano guadagnati anche grandissimi uomini a cui la scienza deve molto. Che cosa è quest'aria di disprezzo con cui oggi si parla del « letterato » Ricardo, del « superato » Ferrara, di Adamo Smith, di Stuart Mill, di Cairnes? In nessuna scienza veramente progressiva si buttano da un lato i grandi copritori del passato; e col pretesto che essi non hanno parlato in termini di u equilibrio » si affretta di * riscoprire » ciò che essi avevano già esposto in un linguaggio diverso sia puro meno perfetto e meno moderno. In tutte le scienze si dànno con venerazione i nomi dei primi scopritori e non degli ultimi • riformulatori » ai teoremi della scienza; anche se il teorema oggi è esposto in termini diversi da quelli usati da colui che primo lo affermò. È facile dare un paludamento di equilibrio, estendere, allargare, perfezionare un teorema di Ricardo; era supremamente difficile inventarlo la prima volta. Epperciò, nonostante le sue imperfezioni di linguaggio, nonostante la sua oscurità, la mancanza di premesse e di anelli essenziali nel ragionamento, Ricardo è un genio della taglia dei Newton e dei Laplace; il che non si può dire con altrettanta sicurezza di coloro che oggi lo deridono come un let-terato. Non tutti, per fortuna, gli economisti moderni sono sacrileghi demo-litori del passato. Pantaleoni ha dato in Italia, lui cosi ricco di idee nuove di raccostamenti impensati, di suggestioni feconde, un esempio memorabile di umiltà e di rigore scientifico a quanti si affrettano,Appena hanno conce-pito un'ideetta di nessun conto a bandirla ni quattro venti come una gran-dissima scoperta, a quanti studiatamente nascondono in un piccolo angolo

di una nota invisibile la citazione dell'autore, che ha dato loro lo spunto di una lunga pappardella titolografìstica, quando, nei suoi u Principii di economia pura * di cui uulla di più bello, di più elegante, di più artistico mai vide la luce in Italia, ad ogni teorema diede il nome dell'autore che per il primo l'aveva formulato o per ogni verità indicò in nota il libro dove a parer suo era stata primamente esposta. Nò una delle mipori ragioni del compiacimento profondo che si prova nel leggere i libri di Marshall è la cura meticolosa che questo incomparabile scrittore pone nel trarre alla luce dalla ganga frantumata e corrosa dal tempo la gemma preziosa del pensiero degli scrittori classici e dei loro precursori. È, il suo, un lavorio reverente di ripulitura della dottrina classica e di adattamento ai fatti nuovi ed alle nuove concezioni. Solo cosi, serbando le tradizioni,' perfezionando via via le verità assodate, la scienza progredisce; non mai colla presunzione di in-ventare ad ogni tratto novità mai più vedute, di cui forse la caratteristica

rintrac-ciare, attraverso le nuove formule complicate, idee già conosciute in veste più semplice e snella.

Tutto ciò ho scritto a titolo di sfógo generico; non perchè lo ritenga com-piutamente applicabile allo scritto del Carli. Ha bisogno tuttavia anche lui di guarire dalla mania della novità e delle demolizioni. Guardisi, ad esempio, come egli demolisce frettolosamente. Gli ò capitato di osservare ciò che ò uno dei fatti fondamentali, e come tale sempre riconosciuto, dell'economia: che cioò « i costi sono tanti e tanto variabili quanti sono gli imprenditori * e subito ne trae argomento a domandare a sò stesso: « come si potrà par-lare (se i costi sono tanti e variabili) di produzioni più o meno naturali ad un paese ? * — e poi ancora a concludere : « e allora da una parte vediamo precipitare tutta l'argomentazione dei costi comparati e dall'altra vediamo cadere nel vuoto il principio delle naturalità delle produzioni ».

Rispetto a quest'ultima u caduta nel vuoto », non si capisce come possa cadere ciò che non ò mai esistito. Dove, quando e da chi ha mai visto il Carli affermato questo sedicente principio della naturalità delle produzioni? Una leggeuda fu, ò vero, a questo proposito bandita. Parrebbe che, non si sa quando, qualche economista abbia decretato che siano « naturali » solo quello produzioni che si compiono con materie prime del paese. Invano fu chiesto, anche dallo scrivente anni or sono, che si indicasse il nome del col-pevole. Imperterriti gli scrittori protezionisti seguitano a menar gran rumore del teoreticismo degli economisti i quali negherebbero che l'industria coto-niera del Lancashire sia naturale perchè il cotone viene dagli Stati Uniti, dall'Egitto e dall'India, o che sia naturale l'industria della seta in Italia perchè una parte crescente della materia prima viene dall'Asia minore. La verità è che furono precisamente gli economisti — come ha dimostrato il Garino in una nota presentata all'Accademia delle Scienze di Torino — i quali elaborarono il concetto della naturalità delle industrie e misero pro-gressivamente in luce la molteplicità dei fattori di cui si compone, di cui l'esistenza nel paese di adatte materie prime ò uno solo e per giunta fat-tore nè sufficiente nè necessario.

Astrazion fatta da questa, che è una questione storica, si provi il Carli a mettere le sue due « cadute » e « precipitazioni » sotto forma di sillogismo. Cosi:

I costi di produzione sono tanti e tanto variabili come sono gli imprenditori. - Se i costi di produzione sono tanti e variabili, non si può parlare di pro-duzioni naturali ad un paese.

Dunque, l'argomentazione dei costi comparati non ha senso.

La sola affermazione iutelliggibile ò la prima. Come da questa premessa maggiore, che è anche uua verità, discendano la premessa minore e la con-clusione è per me un mistero impenetrabile. Ho il vago dubbio che sia più facile esporre « nuovi » teoremi u sociologici » che far precipitare i « vecchi » teoremi dell'economia classica.

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I.

Tutti coloro che hanno scritto in favore del protezionismo senza un personale interesse, hanno sempre ravvisato in quello un provve-dimento di carattere contingente e giustificabile secondo le condizioni di tempo e d'ambiente. Cosi il List ammette decisamente che la illi-mitata libertà commerciale fu favorevole a Venezia nei primi tempi del suo sviluppo (1), come più tardi le fu favorevole invece la prote-zione; ma di nuovo quest'ultima le fu dannosa quando la sua industria e il suo commercio ebbero raggiunta una supremazia tale che la con-correnza altrui fu impossibile, cosicché cominciò nella Repubblica la indolenza e con essa il decadimento. In sostanza, dice il List, non la introduzione delle restrizioni fu dannosa ai veneziani, ma il loro man-tenimento dopo che era da tempo venuta meno la loro ragion d'es-sere (2). Ancora, egli non nega che la Spagna andò in rovina poco dopo aver adottato il sistema veneziano di protezione, mentre sotto Carlo V essa era più progredita della Francia e dell'Inghilterra sotto ogni aspetto.

Evidentemente non potrebbe essere meglio delineato il carattere contingente del protezionismo. Questo scrittore ha una cosi notevole larghezza di vedute e una tale penetrazione, come riconosce il Mar-shall (3), da affermare che, ad un certo momento, sarebbe stata più utile a Venezia una politica commerciale antitetica a quella di cui pure egli, List, è propugnatore.

D'altra parte tutti coloro che hanno scritto a favore del liberismo senza avere un concetto dogmatico della scienza economica, hanno sempre ammesso che, in certi casi e in certe condizioni, può essere utile ricorrere a misure restrittive della libertà commerciale. Lo stesso Adamo Smith riconosce che « se un'industria particolare fosse

neces-(1) « GUnstig war der Republik unbeachrlinktu Freiheit dea Handels in der erstern Zeiten ihrcs Aufschwungu », Dan National e System der politisehen

Oeko-nnmie. Ed. Fischer, Jena 1910, pag. 85.

(2) « Nicht also dio EinfUhrung der Beschrlikungen, sondern ihre Beibehaltuug nachdein der Grund ihrer EinfUhrung liingst auffgehort batte, ist den Venetianern schit.llich geweseu ». Ibidem, pag. 86.

(3) « He was a broud-minded man, full of knowledge and insight... » MARSHALL,

saria per la difesa della società, non sarebbe sempre prudente di dipendere dai nostri ricini per l'approvvigionamento ; e se tale industria non potesse altrimenti essere mantenuta in patria, potrebbe non essere irragionevole che tutti gli altri rami d'industrie dovessero essere tas-sati per sostenere quella. I dazi d'esportazione sulla tela da vela inglese e sulla polvere da fucile possono forse legittimarsi con tale principio » (1). Queste righe dimostrano quale obiettività e quale penetrazione realistica avesse il fondatore dell'economia politica, obiet-tività e penetrazione realistica che mancarono a molti dei suoi seguaci. Come dice il Marshall, i successori di Adamo Smith ebbero meno di quella larghezza e moderazione che vengono da una lunga consuetu-dine col pensiero filosofico e scientifico (2). Molti dei suoi successori, esagerando la tendenza all'astrazione ed alla semplificazione, accen-tuarono eccessivamente il contenuto individualistico della dottrina, perdendo di vista cosi gli interessi di quel tutto organico di cui gli individui fan parte, la Nazione, interessi che Adamo Smith aveva bene riconosciuti (3) e che possono talora essere contrastanti con quelli degli individui (4). D'altra parte si può dire altrettanto del successori del List: molti dei quali non ebbero la elasticità men-tale propria del maestro, e si irrigidirono in una adorazione degli interessi della Nazione che spesse volte fini in un nazionalismo ag-gressivo e talora servi a coprire i più banali interessi individuali. Evidentemente è ora di far ritorno alla tradizione. Bisogna tornare alle fonti.

* * •

La difficoltà capitale ò quella di trovare un criterio direttivo per la determinazione delle condizioni, del limite fino a quale debba ritenersi legittimo e cioè più utile un determinato sistema di politica commerciale e oltre il quale diventi legittimo e eioè più utile il sistema opposto. Questa difficoltà è tanto maggiore in quanto che le cose sono un poco pregiudicate dalle discussioni finora avvenute :

(1) Wealth of Nation». Ed. do! Canaan, Yol. li, pag. 23.

(2) MARSHALL, O p . c i t . , p a g . 7 4 2 .

(3) « But in fact he had a national apirit hiinself... ». MARSHALL, op. citata, pag. 7 3 0 .

(4) V. CANNAN, The Theoriei of production and diitribution, ecc., 2' Edition, London, 1903.

poiché noi, dico noi nati dopo il '70, siamo vissuti in un'epoca tra-vagliosa, la quale, con le sue turbinose vicende, ci ha spesso offuscata la visione, cosicché talora siamo stati o eccessivamente dogmatici, nella credenza di essere impeccabilmente scientifici, o esageratamente unilaterali, nella volontà di essere severamente realistici. Per fortuna la pace apre un'éra che noi vogliamo più pura, € che tutti gli uomini di buona volontà devono cercare d'aprire col far sacrificio di quegli elementi passionali che avevano formato come un'incrostazione su quanto di più vero e di migliore era in essi. L'importante è di sapersi solle-vare al disopra del proprio pensiero per giudicarlo; l'importante è di non irrigidirsi nelle formule, ben sapendo che la verità scientifica non è monopolio di nessuno, che anzi è in continuo divenire, null'altro potendosi fare che « ampliare il campo delle nostre certezze insieme con quello delle nostre consapevoli incertezze » (Marshall); l'importante infine è di non essere asserviti a nessun particolare interesse, ina di pensare e di agire in assoluta indipendenza di giudizio e con assoluta sincerità di spirito.

E insigni sono 'gli esempi di sincerità che ci offre la storia nel campo di cui trattiamo. Noi non possiamo leggere la storia di Gu-glielmo Pitt senza un pentimento di profonda ammirazione e di reve-renza verso questo grande uomo che, intimamente liberista, non esitò a sacrificare le proprie convinzioni ad interessi superiori. Nel 1800 iu Inghilterra, allora in guerra con la Francia, si parlava corrente-mente di accaparratori e di incettatori, come si fa oggi di noi, e c'erano forti correnti che invocavano la piena libertà commerciale ed il libero scambio. Ma nella seduta del Parlamento dell'i 1 novembre il discepolo di Smith disse : « Quanto a me ammetto il libero scambio in tutta l'estensione; ina non nego la -necessità di qualche regolamento nello stato attuale del paese » (1). Il regolamento fu tale che si giunse fino ad una tariffa protezionista. « Pitt, il discepolo di Adamo Smith e degli assertori francesi del libero scambio, cominciò la sua carriera con tentativi di rendere la tariffa inglese più semplice e meno restrittiva, ed egli insistè per un trattato commerciale con la Francia, che sarebbe stato un gran passo avanti sulla via di spezzàre le tariffe di frontiera fra i due paesi. Ma il suo progetto fu attraversato : e gli eventi che cominciarono con la Rivoluzione Io resero responsabile di una tariffa gravosamente complessa ed oppressiva (grievouslxj complex and oppressive<) » (2). Viceversa Roberto Peel, seguace di Smith come

(1) STANHOPE, Guglielmo Pat e il tuo tempo. Voi. ILI, Milano 1864, pag. 127.

Pitt, riuscì all'abolizione del dazio sul grano nel 1846 aprendo la via maestra al liberalismo. Come mai dunque, partendo dagli stessi prin-cipii si giunse a conseguenze pratiche opposte? Egli è che da una parte le condizioni erano mutate, e che dall'altra le nazioni hanno interessi e utilità che talora non coincidono con gli interessi e le utilità immediate dei loro cittadini.

Pitt era senza dubbio convinto che il protezionismo sarebbe stato una disutilità economica, ma questa disutilità egli riteneva necessaria per le utilità politiche della Nazione. Al tempo di Peel, invece, le condizioni erano profondamente mutate, poiché, trionfatrice della Francia, l'Inghilterra si era assicurata la supremazia politica ed economica in Europa, cosi mutata che l'utilità economica del liberismo non era attraversata da nessuna disutilità politica; anzi quella coincideva con l'utilità sociale e politica consistente nel più saldo equilibrio interno