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III. La grammatica come scienza islamica

4.2 Introduzione alle opere

Come la grande maggioranza dei suoi predecessori, Astarābāḏī si basò fortemente sull’opera di Sībawayh e dei grammatici tradizionali e fu ben lungi dall’introdurre idee rivoluzionarie. La sua fedeltà al pensiero antico si espresse però soprattutto nella critica: la copiosità di riflessioni personali presenti nei suoi commentari non si trova in nessun altro grammatico. Astarābāḏī non fu mai ripetitivo, come invece fecero altri, ma si preoccupò sempre di fondare

75 e analizzare ogni affermazione che proveniva dalla grammatica tradizionale.65 È con questa

premessa che si spiega il successo che ottennero i suoi trattati, successo di gran lunga superiore alle stesse opere di cui erano il commento. Tale apprezzamento dura ancora oggi e si riflette nelle scelte di studiosi e insegnanti arabi e musulmani, che utilizzano tuttora le opere del grammatico iraniano come materiale di studio e di ricerca nella linguistica contemporanea. Queste complesse e approfondite raccolte di dati e insegnamenti sono giunte a rappresentare l’ideale di teoria linguistica di epoca post-classica e sono attualmente l’introduzione più accessibile allo studio della grammatica araba tradizionale, poiché hanno il pregio di comprendere la disciplina in un insieme unico e accurato nei dettagli e coniugarla con un procedimento di catalogazione e analisi più moderno e intelligibile agli studiosi contemporanei.

Lo stile di Astarābāḏī rivela un’avvenuta ‘scolasticizzazione’ del metodo: come nella madrasa ogni argomento era esaminato e sviscerato affinché gli studenti imparassero a testare o confutare qualsiasi tema della disciplina studiata, allo stesso modo l’autore del commentario scrutinava, espandeva, obiettava e confermava ogni singolo passo dell’opera del suo maestro.

Costui era l’egiziano di origine kurda Ibn al-Ḥāǧib, la cui fama era all’epoca notevole, considerato il gran numero di commentari ispirati alle sue opere. E paradossalmente egli è oggi ricordato proprio grazie a queste opere secondarie: il caso degli scritti di Astarābāḏī è esemplare. Essi traggono origine da due opere di al-Ḥāǧib, la Kāfiya e la Šāfiya. La prima, il cui titolo significa ‘ciò che è adeguato’, è un trattato sul naḥw inteso in senso complementare rispetto al taṣrīf, e dunque traducibile come ‘sintassi’. Il secondo volume significa invece ‘ciò che è soddisfacente’ e si occupa, come già accennato, di morfo-fonologia, attenendosi alla

76 divisione tradizionale, e anche alla gerarchia, istituita tra le due sotto-discipline. L’autore, in quanto insegnante di grammatica, rispondeva inoltre all’esigenza di completare il quadro delle conoscenze linguistiche per fornire ai suoi studenti un supporto di studio esaustivo.66

Seguendo un analogo ordine cronologico, Astarābāḏī compose i commentari alle due opere, con l’intento di ampliare la trattazione e fornire la spiegazione dei punti controversi. Lo šarḥ, genere fiorente in epoca post-classica, diventava dunque un importante strumento di avanzamento scientifico della disciplina, poiché permetteva di ricollegarsi alla tradizione e allo stesso tempo concederle di progredire. Non si trattava di un semplice commento al testo: lo šarḥ era anche autonomamente un trattato completo – anzi più completo dell’opera a cui si riferiva – in cui venivano elaborate teorie autosufficienti, seppure confermate dall’autorità dei maestri del passato.

Nello Šarḥ al-Kāfiyya e nello Šarḥ aš-Šāfiya, al di là della divisione tradizionale, Larcher ha notato la presenza di nozioni intuitive di pragmatica, intesa come studio delle relazioni tra i segni e la loro interpretazione. Ciò è particolarmente evidente nel primo dei due, il commentario sul naḥw, poiché i concetti espressi, pur rimanendo a uno stadio pre-teorico, danno prova di un’elaborazione pensata e profonda. Un esempio è la distinzione tra kalām e kalimāt, concetti interpretabili come l’enunciato e i suoi costituenti.67 Lo Šarḥ aš-Šāfiya si

propone invece come un trattato su tutto ciò che è regolare nella lingua, dunque il lessico e la morfologia, ponendo l’accento, con questa affermazione, sull’importanza del concetto di qiyās in questo ambito della disciplina.68

La tendenza all’analogia è evidente nel passo dell’opera analizzato in questa sede, ossia

66 P. Larcher, 'Note sur trois editions du Šarḥ al-Kāfiya de Raḍī l-Dīn al-᾿Astarābāḏī' in Arabica: Revue d'Études Arabes (XXXVI, 1) , Leiden, Brill, 1989, pp. 109, 110.

67 P. Larcher - 'Elements Pragmatiques…’, cit. p. 196. 68 Ivi, p. 202.

77 la catalogazione degli schemi del maṣdar. Nella Šāfiya, al-Ḥāǧib aveva già elencato le possibili combinazioni morfologiche del nome verbale, inserendo alcune considerazioni sull’uso e il significato. Alle trentadue forme ricordate, Astarābāḏī aggiunge solo poche altre, ma come si è già notato la sua grandiosità non risiede nell’introduzione di nuovi schemi o teorie, ma nella completezza della spiegazione. L’autore amplia enormemente il testo del suo predecessore, che si era limitato a poche nozioni concise, e vaglia le singole affermazioni. L’impiego di citazioni coraniche e passi di poesie famose è costante: all’interno del capitolo le prime sono nove in tutto e per ciascuna di essa si ricorre all’autorità di uno dei sette lettori canonici, indicando, all’occorrenza, le versioni alternative. La teoria si sostiene dunque su esempi chiari per gli studenti dell’epoca ma le spiegazioni sono ancora oggi comprensibili grazie alla dovizia di particolari che il grammatico inserisce in ognuna di esse.

Nel farlo, Astarābāḏī rivela un particolare interesse filologico alla ricostruzione della forma e alla sua evoluzione nel tempo. I suoi ragionamenti svelano spesso ciò che altrimenti rimarrebbe oscuro alla logica dei linguisti moderni e confermano talvolta le teorie di Larcher sulla derivazione secondaria e sulla non linearità dell’incastro tra radice e schema (si veda il paragrafo 1.1 e 5.2.1). Gli esempi nel testo sono diversi: tra questi si può segnalare il caso della parola malak, citata a pagina 153 del testo (si veda l’appendice), in cui l’autore spiega che la caduta della hamza nell’originale malaʾk è dovuta a motivi di pesantezza nella percezione del suono della parola. La spiegazione è fornita attraverso una citazione del maestro al-Ḫalīl, che insieme a Sībawayh e al-Farrāʾ è costantemente utilizzato come fonte di autorità nel testo. I passi di al-Ḥāǧib, al confronto, sono scarsi, poiché la loro utilità è piuttosto quella di fungere da base di partenza su cui costruire un ragionamento, il quale avrà bisogno del supporto e delle testimonianze dei grandi maestri del passato. Esse sono infatti quanto vi sia di più vicino, per autorevolezza e cronologia, alla lingua degli Arabi che si tenta di

78 spiegare e ricostruire.

Al fine di raggiungere un tale obiettivo, l’altro strumento impiegato è l’inserimento, nelle note al testo, delle definizioni fornite dai più grandi dizionari classici, il Qāmūs e il Lisān al-

ʿ

Arab. In esse si segue l’ordine tradizionale del paradigma, con il verbo coniugato al perfetto (coniugazione a suffissi), seguito dal suo imperfetto (coniugazione a prefissi), dal suo maṣdar (o dai suoi maṣādir) e dai nomi verbali successivi. Oltre a fornire un prospetto chiaro della coniugazione, spesso la definizione arricchisce il testo di nozioni culturali e antropologiche, in cui si tramandano le pratiche e le abitudini della vita beduina. I termini sono talvolta specifici della vita agro-pastorale, si riferiscono all’allevamento o alla cura degli animali, ma non sono tuttavia da ignorare poiché spesso permangono nella lingua moderna attraverso reinterpretazioni successive.

Infine, pur affidandosi al qiyās nella classificazione degli schemi citati, il filologo sceglie di utilizzare il termine al-ġālib (‘il prevalente’) all’inizio di ogni paragrafo che introduca una nuova forma di maṣdar. Ciò sottintende che l’indicazione di utilizzo di uno schema è relativa e comunque subordinata all’uso effettivo: le norme sono descrittive piuttosto che prescrittive. Nessun maṣdar è assoluto, e nell’elenco è tenuto particolarmente in conto ciò che è attestato e tramandato, concetto espresso con la parola samā

ʿ

. Ciò spiega quanto i due concetti, di analogia e attestazione, siano molto più affiancabili di quanto abbia fatto credere una tradizione linguistica scissionista.

Nel prossimo e ultimo capitolo si tenterà di fornire un riassunto con commento al capitolo preso in esame, con l’intento di schematizzare il testo, offrirlo ad analisi ulteriori e renderlo al contempo maggiormente in linea con una prospettiva linguistica e didattica moderna. Attraverso tale presentazione, non potranno sfuggire l’abilità e la precisione di Astarābāḏī, che riuscì a districarsi all’interno di un problema complesso come quello del maṣdar grazie

79 alla sua esperienza e all’accuratissima attendibilità delle sue fonti.

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CAPITOLO QUINTO

COMMENTO AL TESTO

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