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Ironia e parodia nel Myrmedon.

Nel documento Radiografia del Myrmedon di Giovanni Pascoli (pagine 168-172)

P ARTE SECONDA

9.3 Ironia e parodia nel Myrmedon.

Tra i vv. 230-232, come si è visto77, il recupero del formulario epico ha garantito una

versificazione intrisa d’ironia. Analoghe situazioni anche in altre scene del poemetto. Nell’«episodio dell’orto» (vv. 136-167)78, la sproporzione tra la banale vicenda del

contadino e una scrittura elaborata tanto nella scelta delle immagini che in certe modulazioni sintattiche, rende più goffa la figura del colono che nulla può contro la caparbietà dell’insetto. Esemplare, in questo senso, il v. 145: Vidit herus cladem: famulos

vocat: ingerit undas, dove si noteranno sia il ritmo serrato dell’esametro - con i tre brevi

periodi scanditi da due pause sintattiche forti - sia i termini clades («strage», «disastro»), evidentemente sproporzionato, e unda, raffinata metonimia della dizione poetica che indica l’acqua, ma qui allude agli scrosci con cui il contadino cerca di allontanare gli insetti. L’ironico squilibrio tra il contesto e il linguaggio è ribadito dal poeta stesso che, in Myrm. 155-156, si interroga sui fallimenti dell’herus: Quid faciat frustra nimbos expertus et ignes / in

parva dominus formica?; l’aulico nimbus ( «tempesta»), chiaramente esagerato rispetto alle

minuscole dimensioni della formica, assicura alla scena un vivace effetto parodico.

73 Alla prima attività sarà dedicata la sequenza compresa tra i vv. 273-290 (vd. infra, § 10, pp. 169-180);

alla seconda quella compresa tra i vv. 239-258.

74 Vd. BREHM 1873, p. 232.

75 Cunabula è tra il quarto e il quinto piede d’esametro, come in Verg. Ecl. 4, 23; Aen. 3, 105 (ove significa

«culla») e Georg. 4, 66 (dove indica gli alveari: [Apes] sese in cunabula condent [le api ritorneranno nelle celle].

76 Giusta l’osservazione di RAIMONDI 2000, p. 184. Per gli ipocorismi del Pascoli latino vd. anche

PARADISI 2006, pp. 252-253 e TRAINA 2006, pp. 121-137.

77 Vd. supra, p. 152.

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Analogo è il caso di Myrm. 297-298: il distico è dedicato alle piccole formiche che, malgrado l’inesperienza e l’età troppo giovane, vorrebbero allontanarsi dal nido, sfidare le brezze e impossessarsi del cielo approfittando delle ali appena spuntate: [pubes aligera]

primisque iuvat praeludere pennis / atque auras tentare vagas caeloque potiri. All’ironia con cui il

poeta considera le ingenue pretese dell’aligera pubes contribuiscono, oltre che le audaci immagini del secondo verso (vagas tentare auras79; caeloque potiri), soprattutto l’impiego di

praeludo nel primo. In quasi tutte le occorrenze poetiche, il verbo (che in molti codici è

confuso spesso con proludo, semanticamente analogo80) indica un addestramento volto a

un’azione guerriera o a uno scatto vigoroso: in Verg. Georg. 3, 234, per esempio, ad esercitarsi è un toro in vista dello scontro col rivale in amore; in Prop. 4, 4, 19, invece, è Tazio, osservato da Tarpea, ad addestrarsi con le armi81. Nei Carmina il verbo ritorna in

Bell. serv. 144, Cives praeludite! Tela per aura concite [Esercitatevi, Gladiatori! scagliate nel

cielo i vostri dardi!], e 281-282: Praeluditis […] / postera […] miscentes proelia corde [Vi esercitate eccitandovi nell’animo per le battaglie che verranno]. La funzione iperbolica e parodica di

praeludo, nel poemetto sulle formiche, si rivela chiaramente dal confronto con i citati

contesti, latini e pascoliani, in cui il verbo ricorre.

79 Da confrontare con l’aulico Al re Umberto (OI), VI, vv. 9-10: «e l’ali vuol mettere e t e n t a / l ’ a b i s s o

d e i c i e l i , la fiera»; la «fiera» è l’umanità malvagia, prossima a uno stato ferino, che approfitta delle novità tecnologiche (in questo caso i primi velivoli) a fini esclusivamente offensivi e bellici; vd. LATINI

2008b, p 281.

80 Vd. FORCELLINI s. v. «Praeludo» e ThLL, X, 2, 696, 17 ss. e 1838, 18 ss.

81 L’immagine delle Georgiche ritorna in una similitudine di Verg. Aen. 12, 106. Si osservi che, nei tre i

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10

A

NCORA SUL LESSICO DEL

M

YRMEDON

Nel commento ai vv. 225-2341 si è ampiamente discusso del lessico settoriale che

caratterizza le formiche in senso antropomorfico. La stessa tendenza, perseguita ora con incursioni nel linguaggio «post-grammaticale», ora con marcati riferimenti alle attività umane, si riscontra nelle sequenze dedicate all’allevamento dei gorgoglioni (vv. 258-272) e alla coltivazione dei campi (vv. 273-290).

Le due sezioni si inseriscono in una sovrastruttura testuale, una sorta di cornice. Dopo il segmento dedicato alle schiave e alle legionarie, il poeta descrive le cure che le premurose operaie rivolgono ai piccoli della colonia (alle uova prima, e alle larve e alle crisalidi poi, vv. 239-257); quando questi cominceranno a muovere i primi passi nel formicaio-città (coerentemente alla romanizzazione degli spazi, il poeta parla di cives, fora e

plateae, v. 2572), il punto di vista sulle scene successive sarà affidato a loro, i catuli3, che

ammireranno stupiti i granai ricolmi e un curioso bestiame di … caprette e agnelli (vv. 258- 260):

[Catulus] in horreolis magnos miratur acervos et stupet in saeptis virides errare capellas, scilicet atque albi repentes velleris agnas.

I granai (horreola) colmi di raccolto sono il gratificante risultato di una laboriosa attività agricola; il diminutivo è attestato soltanto in Val. Max. 7, 1, 2, nell’ambito di una

1 Vd. in particolare, § 9, pp. 143-148 e 153-154.

2 Per i continui riferimenti alla civiltà e alla topografia Romana, vd. supra § 3, pp. 26-28. 3 Catulus è anche in Myrm. 86.

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riflessione morale sulla paupertas: Apollo [...] respondit magis se probare […] usus necessarii

horreolum […] quam thesauros omnium insidiis et cupiditationibus expositos [Apollo rispose che

preferiva un piccolo granaio sufficiente alle necessità quotidiane, piuttosto che un tesoro esposto alle insidie e alle brame di chiunque]. Nel Myrmedon, l’ipocorismo è in evidente antitesi con i magni acervi: «l’ossimoro dice il contrasto fra il punto di vista umano (horreolum) e quello della formica (magni acervi)»4.

Il distico successivo introduce la sequenza dedicata agli allevamenti delle formiche.

Saepta, al v. 259, è il primo di una lunga serie di termini e iuncturae desunti dagli auctores rei rusticae5: il termine indica gli spazi chiusi in genere, quindi i «recinti» destinati al pascolo

degli animali6. In questo senso, saeptum ricorre soprattutto nella prosa d’argomento agricolo

(come in Varr. Rust. 2, 2, 8; 2, 3, 6; Colum. Rust. 7, 2), mentre in poesia si registrano i soli casi di Verg. Ecl. 1, 33 e Val. Flac. 3, 582; soprattutto l’antecedente virgiliano assicura al vocabolo un’autorevole copertura classica, ma si è già osservato come la novità della lingua pascoliana (italiana e latina) non consista tanto nell’uso di tecnicismi e colloquialismi - spesso confortati, come in questo caso, dagli stessi modelli poetici -, bensì nel loro accumulo, se non proprio abuso7. Segue l’indicazione dei capi di bestiame allevati dalle

formiche, virides capellae e albi repentes velleris agnae: sono gli afidi (o gorgoglioni) e le larve della cetonia. La condizione di questi insetti presso i formicai fa pensare ad un vero e proprio allevamento, di cui le formiche stesse sono i pastores (così esse sono indicate in

Myrm. 264 e 271); a questa rappresentazione concorrono le immagini metaforiche delle

caprette e delle agnelle, ma due particolari stranianti, l’aggettivo virides riferito alle prime e il participio repentes («striscianti»)8 attribuito alle seconde, risolvono immediatamente

l’equivoco e chiariscono che si tratta, in realtà, di insetti e di larve (analogo il procedimento descrittivo ne Il ciocco, I, vv. 171-172: le formiche, vi si legge, pascolano pecore e bestie di taglia grande, «ma piccoline e verdi queste, e quelle / con una lana molle come sputo»).

4 TRAINA 2006, p. 53 n. 3. 5 Lo nota già R

AIMONDI 2000, p. 188.

6 Vd. FORCELLINI s. v. «Saepio» e anche BRUNO 1969, p. 142. 7 Vd. T

RAINA 1989, p. 231 e supra § 6, p. 91.

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Nel documento Radiografia del Myrmedon di Giovanni Pascoli (pagine 168-172)