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La leggenda platonica della reincarnazione e l’opposizione poeta vates (vv 9-14) Stando a quello che (quod) racconta un auctor haud malus, le formiche, reincarnazione d

P ARTE SECONDA

6.2 La leggenda platonica della reincarnazione e l’opposizione poeta vates (vv 9-14) Stando a quello che (quod) racconta un auctor haud malus, le formiche, reincarnazione d

uomini virtuosi, saranno certamente capaci di plura et maiora (vv. 9-10)80. L’autore non

indegno degno di fede è il filosofo Platone (lo annota Pascoli stesso, con la glossa «est sophus Plat.», nell’abbozzo G. LXI-1-1. 2481) e la vicenda accennata nei versi 10-11 -

coincidenti con un’infinitiva dipendente da narrat - va ricondotta alla leggenda dell’uomo integerrimo che, dopo la morte, si trasforma in formica (ma anche in ape o in vespa): «vetus quidam sophus ait in formicas aut in apes aut in crabrones converti homines politicos et

demoticos»82; la fonte è il Fedone (82b), di cui si propone uno stralcio:

79 Questa lettera inviata a Vittorio Cian il 13 giugno 1905 (si legge in M.PASCOLI 1961, pp. 799-800)

può glossare i vv. 54-60 di Tra San Mauro e Savignano (CC), dove Pascoli si fa «laureare indirettamente poeta immortale per bocca del padre» che, nel camposanto, parla al mandante del suo omicidio (vd. NAVA 1983, p. 397): «Se fosse, quel mendico, un poeta! […] / un grande fosse l’orfano digiuno!... […] / ma se di quelli che dannasti a morte / col padre loro, fosse, uno, immortale!» (speranza che sarebbe apparsa troppo superba se il poeta l’avesse dichiarata in prima persona). Altrove l’aspirazione alla gloria sembra mortificata ora dalle delusioni biografiche («Ho compreso che per l’Università c’è poco o nulla da fare. Sono disgraziato in tutto: né amore, né famiglia, né pace, né campagna, né modesta agiatezza, né onore, né gloria: nulla»: da una lettera a Mariù del 13 giugno 1895, in M. PASCOLI 1961, p. 437),

ora dalla constatazione della vanità di quel sogno di fronte al perire delle cose: è il tema di Finis Rerum (Fan. Vac., in particolare vv. 378-379) e de L’immortalità, PP, dove «la poesia appare […] come nient’altro che fogli di carta destinati alla consunzione» (vd. BECHERINI 1994, p. 281).

80 Quod, oltre a corrispondere alla perifrasi quantum ad illud quod (resa nella traduzione del presente

lavoro; vd. FORCELLINI s. v.), potrebbe anche intendersi in senso causale: visto che Platone la fa

discendere da uomini illustri, la formica saprà dare grandi prove di sé (così CARBONETTO 1996, p.

623). Il quamquam a inizio verso, invece, avrà necessariamente senso esplicativo.

81 Si rammenti anche la didascalia «Salomon, Plato, cicada et formica», accanto alla dicitura protasis, in

G. LXI-1-1. 21, per cui vd. supra § 3, n. 87.

88

Quelli che praticano gozzoviglie, lussurie e ubriacature […] assumono le forme di asini o di bestie simili […]. Quelli che preferirono ingiustizia, tirannide o rapina, assumeranno forme di lupi, sparvieri e nibbi […]. I più felici […] sono quelli che esercitarono la virtù pubblica e politica […]. Costoro assumono nuovamente una forma simile, socievole e mite, di api o di vespe o di formiche o la stessa forma di uomini e da essi nascono uomini misurati83.

Le formiche pascoliane, essendo state in una vita precedente uomini dediti all’onesta amministrazione della res publica, ricordano ancora il «foro rumoroso», sede del loro impegno politico84. Il rapporto consequenziale tra la vita trascorsa e l’attuale ricordo

di essa si rivela nella variatio temporale dei due infiniti, iam venisse … prorepere (Myrm. 10- 11) e nell’uso di memor, vera spia di questa anamnesi pitagorica. L’aggettivo ricorre con accezioni diverse nell’opera pascoliana: vi esprime un ricordo nostalgico (memor dell’infanzia lontana si dice il poeta in Fan. Vac. 274-281) o la dimensione dell’interiorità (vix tandem seque ipse memor deprendit [con fatica riprende coscienza]: è il re numida in Iug. 1785); nel caso in esame, invece, è connesso alla memoria atavica (o filogenetica): memor è

il cane (Can. v. 67) che scodinzola alla vista del padrone, ricordando le zanzare e le mosche che tentava di scacciare in un evo primitivo86; memores sono i cavalli finalmente liberi che

ricordano la vita primigenia e selvaggia in Pec. 171-174:

Silvestres animos et vitae sensa prioris prorsus equi memores desueto corde resumunt. Dilabuntur ibi mores nebulaeque recedunt apparet rerum praeformidata vetustas

83 Trad. CAMBIANO 1970, p. 554.

84 Per la iunctura argutique fori vd. Ov. Ars. 1, 80. Per i richiami alla topografia romana, vd. supra § 3,

pp. 26-28.

85 Vd. T

RAINA 1999, p. 59.

86 Della memoria filogenetica si è già ampiamente discusso: vd. supra, §§ 1 e 2, pp. 6 ss.; per l’episodio

di Canis, invece, vd. § 2, pp. 18-19 (ove si accenna anche all’alternanza dei presenti e dei passati nel carme in questione e in Pecudes).

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[Memori, i cavalli riavvertono nell’animo non più avvezzo lo spirito selvaggio e le sensazioni di una vita trascorsa. Vengono meno le abitudini della vita domestica, svaniscono le nebbie e riappare l’antico terrore delle cose]87.

Analogamente, l’aggettivo di Myrm. 11, combinato con l’alternanza passato-presente secondo lo schema già individuato in Pecudes e Canis, suggerirebbe, almeno per questo passo del poemetto, una traccia di quella memoria filogenetica eccezionalmente fondata, però, non su un assunto scientifico (la Legge biogenetica fondamentale)88, ma sul principio

di reincarnazione descritto da Platone.

Vero o meno che sia quanto riferito dall’auctor, al poeta, per ora, basta contemplare la solerzia dei suoi piccoli insetti (vv. 12-14). Quicquid id est, pertanto, varrà come locuzione dubitativa, giusta la chiosa pascoliana alla celebre sentenza di Lacoonte in Verg. Aen. 2, 49: Quidquid id est, timeo Danaos et dona ferentes, dove il neutro id «accentua l’idea che cavallo non sia quella mole sospetta»89.

Nel passo conclusivo della protasi è riproposto il contrasto tra la cicala e le formiche: il vates guarda con ammirazione il duro lavoro di queste, longo vectantes agmine fructum90,

mentre quella si abbandona al piacere del canto: dum resonat pigrae circum nemus omne

cicadae91. Vates, al v. 12, non è una semplice variazione sinonimica di poeta (v. 8):

Al tempo di Augusto, le due parole [vates e poeta] paiono equivalersi, se non forse la prima implica più l’ispirazione naturale e si congiunge a un senso di modestia e semplicità; l’altra presuppone più l’arte e lo studio: et me fecere poetam / Pierides […] me

quoque dicunt / vatem pastores [Anche me resero poeta le Muse, anche me chiamano

vate i pastori] (Verg. Ecl. 9, 32-34)92.

87 Si rammenti il vidi memor di Pascoli-Fileto in Poem. et Epig. II, 61, per cui vd. supra, § 1, p. 11 e n. 34. 88 Già definita supra, § 1, p. 6 ss.

89 P

ASCOLI 1938, p. 102.

90 Come in Ov. Met. 7, 624-625: agmine longo / grande onus exiguo formicas ore gerentes [in lunga schiera

le formiche trasportano grandi pesi con la loro piccola bocca]. Vd. anche Ov. Ars 1, 93-94.

91 Riecheggiamento di Verg. Ecl. 2, 13: Sole sub ardenti resonant arbusta cidadis [Gli arbusti risuonano delle

cicale sotto il solleone].

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Oltre al concetto «di modestia e di semplicità», vates rimanda a un’idea di poesia come ispirazione divina. Il FORCELLINI (s. v.) chiarisce che il termine saepe dicitur de poetis qui se

quoque iactant divino instinctu afflari [è detto spesso dei poeti che si vantano di essere ispirati

da un istinto divino] e più oltre precisa: differre vatem a poeta fuse ostendit Müller, De re metr.,

p. 65 ss. Sane vati, non poetae, aliquid divinum sacrumque inest et augustius: quod tamen et poetis inditum nomen honoris causa [Müller, De re metr. p. 6593, ha ben dimostrato come il vate

differisca dal poeta. E certamente è il vate, non il poeta, colui che possiede un qualcosa di divino, di sacro, di più elevato. E ai poeti quel nome è attribuito a titolo d’onore]94. In

un appunto di lavoro, G. LXI-1-1. 12, al centro della pagina si legge «Poeta e vates», mentre tra le indicazioni sottostanti è riportata la pagina del De re metrica citata dal Forcellini: «L. Müller 65». Considerando nuovamente i primi versi di questa «Protasi» - dov’è espressa, insieme con l’ambizione alla mediocritas, anche una poetica fondata sulla natura quale sicuro modello di riferimento -, ben si chiarisce la scelta di vates in luogo di poeta. Poeta, al v. 8 - in clausola come vates, forse per evidenziare la gradatio semantica tra i due termini -, individua i poeti in genere quali destinatari e divulgatori dell’insegnamento della formica; un insegnamento che è già pienamente acquisito dall’autore del Myrmedon: egli è il cantore del giusto mezzo, del «poco e del piccolo», colui che stupisce di fronte agli spettacoli della natura (come quello delle formiche che danno prova di laboriosità longo

vectantes agmine fructus). Egli, dunque, è vates, che è poi «il termine con cui Orazio suole

nominarsi»95. Nella scelta meditata e consapevole della parola, Pascoli definisce sé stesso

e la sua poesia alla luce di quella profonda interpretazione del reale che gli viene dal divinus

93 MÜLLER 1861, p. 65.

94 Vd. CUCCHIARELLI 2012, p. 464, a proposito dell’alternanza vates – poeta in Verg. Ecl. 9, 32-34: «Se

poeta […] esprime soprattutto la capacità tecnica […], il termine vates aggiunge una connotazione sacrale

e solenne che ben corrisponde all’“aedo” del modello teocriteo (id. 7, 38); analoga giustapposizione dei due termini […] in Ecl. 7, 25-28». Ben chiaro il maggior rilievo conferito al vate rispetto al poeta in Tac. Dial. 9: Quis Saleium nostrum, egregium poetam vel, si hoc honereficentius est, praeclarissimum vatem […]

salutat aut persequitur? [E chi più saluta o segue interessato il nostro Saleio, un poeta egregio o - se ciò è

più onorevole – addirittura un vate?].

95 Così TRAINA 1968, p. 64, a proposito di vates in Fan. Vac., v. 67-68 (Praediolum vates et amoenis

hortulus umbris / detinet [Il poderetto e l’orticello trattengono i poeti in una gradevole ombra]), che

aggiunge anche un’opportuna citazione da L’avvento (PROSE I, p. 258): «Roma […] aveva prima

dell’avvento due vates che s’amavano tra loro. Essi sono per eccellenza i poeti della vita mediocre». Il Venosino si autodefinisce vates in Carm. 2, 6, 24 ed Epod. 16, 66; nei Carmina pascoliani, in Cen. Caud. 21; Fan. Vac. 292 e 406; Ult. lin. 77-78 (vd. EO, III, s. v. «Pascoli», p. 394).

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instinctus del fanciullino, sguardo incantato e primigenio che sa ritrovare un insegnamento

o un’occasione di stupore finanche nel microcosmo delle formiche. Del resto, poeta è «chi trova la poesia in ciò che lo circonda», ispirando, nel contempo, «buoni e civili costumi, d’amor patrio e familiare e umano»96.