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5 I L TITOLO E LA DEDICA 105

I primi editori dei Carmina (PISTELLI 1914, GANDIGLIO 1930 e VALGIMIGLI 1960) hanno

inteso Myrmedon nel senso di Formicae, per ovvia analogia a Pecudes e Canis; il Ficari, più correttamente, lo ha invece reso con Il formicaio106. A Le formiche corrisponde anche la

102 Sulla negatività dell’eros nell’orizzonte virgiliano, vd. TRAINA 1999a, pp. 441-446. 103 Per la sequenza conclusiva (vv. 301-312), vd. infra § 11.

104 Vd. supra, § 3, pp. 20-21 e nn. 67e 68 . I paralleli tra i due testi giustificano i continui richiami al

poemetto italiano - peraltro già più volte accennato (vd. supra nn. 68, 70 e 87) - nel prosieguo di questo lavoro. Si indicano qui, sinteticamente e in coppia, le situazioni comuni al Ciocco (C) e al Myrmedon (M): C 111-122 = M 65-75; C 133-137 = M 128-135; C 142-144 = 171-176; C 149-163 = M 273-290; C 168- 179 = M 258-272; C 187-201 = M 205-238; C 206-220 = M 239-257. La sequenza dedicata ai funerali in

Myrm. 179-184 si riduce a un rapido accenno in C 64 e 104; il segmento sul volo nuziale nel poemetto

latino (vv. 301-312) non ha alcun corrispettivo in quello italiano.

105 Sul primo ha discusso TRAINA 2012, pp. 33-37.

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traduzione di Calzolaio, che in nota, tuttavia, riconduce Myrmedon alla traslitterazione della parola greca μυρμηδών, «formicaio»107. Il titolo ellenico è verisimilmente dovuto all’assenza

di un termine latino che esprimesse quel significato (ove si escludano le perifrasi pliniane

formicarum cuniculus o caverna, in Nat. Hist. 28, 86 e 11, 111, nonchè foramen in 19, 178); formicarium è attestato nel latino tardo, ma il Forcellini non ne registra il lemma108. In ogni

caso, la scelta di un titolo che indica l’habitat della formica, pittosto che la formica stessa, si rivela programmatica: nel formicaio gli insetti si riconoscono elementi costitutivi di una società compatta ed esemplare (tant’è che quando una formica muore, sentit [urbs] solido

vulsam de corpore partem, v. 181) e Myrmedon, più di un generico Formicae, ben esprime questa

idea di comunità, più volte ribadita, nel poemetto, da espressioni quali urbs (vv. 17, 135, 182, 267, 277, etc.) e Quiris (v. 182), riferite ai formicai e ai loro minuscoli abitanti.

Non meno problematico è il significato della parola. In greco, il termine corrente per «formicaio» era μυρμηκία, mentre μυρμηδών è un hapax tramandato dal lessicografo Esichio109. La scelta della forma rara si spiega alla luce della forte affinità fonetica con

Myrmidones, calco di Μυρμίδονες (singolare Μυρμιδών), tre volte in apertura d’esametro

(Myrm. 34, 151 e 208)110. Mirmidoni sono dette le formiche in ricordo dell’episodio

ovidiano di Met. 7, 523-657 (parzialmente ricopiato in alcuni abbozzi manoscritti111), in cui

si narra della pestilenza che colpì l’isola di Egina e della trasformazione delle formiche nel popolo dei Mirmidoni, che mantennero per sempre le virtù degli insetti:

mores, quos ante gerebant,

nunc quoque habent: parcum genus est patiensque laborum quaesitique tenax et quod quaesita reservet112

(Ov. Met. 7, 655-657)

107 Vd. CALZOLAIO 2011, p. 1148.

108 Del Forcellini (conservato ancora oggi nell’archivio di Castelvecchio) Pascoli possedette la III edizione

padovana del 1827-1831 in quattro volumi; il lessico fu acquistato negli anni di Livorno, tra il 1892 e il 1895 (vd. TRAINA 2012, p. 43). La biblioteca di Castelvecchio conserva anche il Dizionario latino-italiano e il Dizionario italiano-latino Georges-Calonghi (il primo del 1891, il secondo del 1895).

109 HESYCHII s. v.

110 Vd. anche Verg. Aen. 2, 7 e 252, nonché Ov. Met. 7, 654.

111 La citazione «Ov. Met. VII 624 |et. seg.» si legge in G. LXI-1-1. 1, mentre i vv. 624-626; 638-642 e

652-658 del testo ovidiano sono trascritti in G. LXI-1-1. 7.

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[il carattere è sempre quello che avevano prima: una stirpe parsimoniosa che sopporta il lavoro, che è tenace nell’accumulare e che mette da parte quel che ha accumulato].

Indicando le formiche col nome di un popolo leggendario, Pascoli intende forse enfatizzare, in una suggestione epica, l’esemplarità dei suoi minuscoli insetti.

Il titolo, in conclusione, potrà leggersi sia con l’accentazione alla greca, Myrmedòn, che con quella alla latina, Myrmèdon113.

La dedica del poemetto, a Maria Pascoli, è un esametro:

MARIAE IOANNES d. d. d.

Formicis formica fave tu candida nigris114.

[GIOVANNI LO DÀ IN DONO E LO DEDICA A MARIA.

Tu, candida formica, assisti le nere formiche].

L’ordo verborum - due iperbati, il primo a cornice (formicis … nigris, formica … candida), con la voce verbale al centro115 - avvia l’esametro con un poliptoto e lo chiude su un contrasto

cromatico (si noti anche l’allitterazione di f nel primo emistichio); al ritmo fortemente marcato contribuiscono la cesura semiternaria, la trocaica e la semisettenaria, nonché la dieresi bucolica116.

Insieme alle dediche che accompagnano Laureolus, Cena in Caudiano Nervae, Castanea e Centurio, anche questa è rivolta alla sorella, ma, come le precedenti, non è presente nelle bozze inviate all’accademia neerlandese: Ermenegildo Pistelli le ritrovò nelle copie che il poeta donò privatamente a Maria, ristampandole nella sua prima edizione dei carmi latini; Gandiglio e Valgimigli le mantennero nelle edizioni successive. Pistelli volle forse

113 Giuste le osservazioni di TRAINA 2012, pp. 36-37.

114 Probabile l’eco di Ov. Ep. 18, 61 [Luna] ego suspiciens: «faveas, dea candida», dixi [E io, guardando la

luna, dissi: «assistimi, candida dea»].

115 È la struttura del cosiddetto esametro aureo (golden line), costituito da due coppie di sostantivo (s) e

attributo (a) in iperbato, con verbo (V) al centro e variamente combinate: p. es. s1s2Va2a1 (come nel caso

in esame), a1a2Vs1s2 (come in Cat. 64, 59), etc.; vd. DAINOTTI 2015, pp. 239-241.

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compiacere Mariù, che intendeva dimostrare pubblicamente «il suo ruolo di ‘musa’ della poesia latina»117. Posta come un’espressione privata, la dedica in questione rimanda

verisimilmente al nido domestico, nei mesi dell’abbandono di Ida118.

I primi anni, nel nuovo nucleo domestico, trascorsero lieti: i tre orfani, finalmente riuniti, «giocarono a inventarsi la vita»119: Giovannino recitava il ruolo del padre, del fratello

e del figlio: le sorelle quello della madre e delle figlie. Ma già nel 1888, la maggiore, Ida, non nascondeva «l’aspirazione […] che aveva di pigliar marito»120. E difatti cedette alle

attenzioni di un giovane, il Vitali, finchè il fratello non riuscì a dissuaderla; «ma quanto sofferse Giovannino nei giorni in cui rimase sospesa la decisione!»121. Il nido, almeno per

quell’anno, fu salvo, ma Ida vi si sentiva soffocata, tant’è che il poeta, in una lettera del 1893, dovette ribadire la sacralità di quel legame paraconiugale: «Stringiamoci e facciamo in modo che la nostra unione non abbia nemmeno un minuto di malcontento che faccia (o cosa orribile!) desiderare di romperla…»122. Giunto poi alla soglia dei quarant’anni,

riconobbe finalmente la precarietà della sua condizione e «soffriva pensando al sacrificio vano che aveva fatto, per amore delle sorelle, d’ogni sua legittima aspirazione a crearsi una famiglia propria»123. Così Maria presenta Giovannino nell’estate del 1894, ma già nel

dicembre del 1892 il poeta si sfogava con l’amico Severino Ferrari:

117 Vd. PARADISI 2014, pp. 16-17, quindi FERA -BINNEBEKE -GIONTA 2017, pp. 363-364. Le dediche

presenti nei poemetti inviati ad Amsterdam, invece, sono solo quattro: esse accompagnano Phidyle,

Iugurtha, Reditus Augusti e Catullocalvos; Maria Pascoli è destinataria soltanto della seconda. Più in

generale sulle dediche a Mariù vd., da ultimo, MALTA 2017, pp. 127-131.

118 Sulle origini e le conseguenze del nido ricostruito, tra Massa e Livorno, dal poeta con le due sorelle,

vd. SALINARI 1969, pp. 149-152, GIOANOLA 2000, pp. 53-99 e GARBOLI 2002, I, pp. 21 ss, del quale

bisognerà sfogliare anche la cronologia del periodo 1887-1895, gli anni dell’allontanamento di Ida e della crisi definitiva (pp. 140-175). Per GRAZIOSI 2011a, pp. 93-94, le ragioni del nido ricostruito

sarebbero più calcolate che spontanee. D’altro avviso CASTOLDI 2011, p. 168, persuaso che «la decisione

di una convivenza con le sorelle», da parte di Pascoli, fu piuttosto «un’assunzione di responsabilità di fronte alla vita, una forma di ancestrale solidarietà tra esseri viventi, soli, eticamente necessaria».

119 GARBOLI 2002, I, p. 24. 120 M. P ASCOLI 1961, p. 287. 121 IVI, p. 291. 122 I VI, p. 359. 123 IVI, p. 379.

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la mia vita […] è turbata […] dalla considerazione dell’inutilità e vacuità della vita mia e delle mie sorelle. Giunti a questo punto, ci siamo accorti tutti e tre, credo, che abbiamo sbagliato nella somma la vita; e non si rinasce […]124.

Nel settembre del 1895, Ida, la «Reginella», sposò Salvatore Berti di Santa Giustina di Rimini. Il poeta la salutò col triste opuscolo Nelle nozze di Ida, ma già nei mesi precedenti manifestò «forti crisi di pianto e di desolazione […]. Soffriva, soffriva indicibilmente»125;

quel matrimonio segnò la distruzione del nido e proiettò nell’avvenire l’ombra di un rimpianto inconsolabile, come si evince da alcune lettere destinate a Maria126:

a noi due sarà impossibile, assolutamente impossibile, continuare la nostra dolce vita di solitari e d’eremiti, se l’Ida prende marito. Già ella con lettere ed altro vorrebbe tenerci occupati di sé: ma anche tacesse perfettamente e non scrivesse mai, noi la vedremmo sempre, continuamente nella sua vita di madre futura e presente … e non ci rassegneremmo a vivere così diversamente da lei, allontanando da noi come da indegni, la gioia dei figli e della famiglia127.

E ancora:

Non sono sereno: sono disperato. […]. A volte sono preso da accessi furiosi d’ira, nel pensare che l’una freddamente se ne va […]. Mi alzo piangendo, trovando subito la disperazione al capezzale: vado a letto, piangendo, quasi sempre con la testa piena di cognac. Non ne posso più […]. Noi vivremmo senza amore e dovremmo quasi assistere all'amore altrui, con relativi affetti! Capisci che è impossibile che noi ci rassegniamo?128.

124 La lettera si legge in GARBOLI 2002, I, pp. 152-153. 125 M. PASCOLI 1961, p. 417.

126 Il carteggio del poeta con le sorelle, tra l’aprile e il settembre di quell’anno terribile, è raccolto e

introdotto anche da ANDREOLI 2013.

127 M. PASCOLI 1961, p. 430. La lettera è del 9 giugno 1895. Le stesse preoccupazioni si leggono nelle

lettere dei giorni successivi, del 13 e del 19 giugno (vd. IVI, pp. 434 ss.), ma già il 30 aprile il poeta aveva rivelato a Ida il rammarico di «assistere all’amore senza aver provato l’amore» (vd. ANDREOLI 2013, p. 34).

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La scrittura del Myrmedon - tra la prima stesura del ’93 e quella dell’anno successivo, con la premiazione nel marzo del 1895 e il dono di una copia con dedica alla sorella129

cade negli anni di questa crisi familiare. A Mariù il poeta si rivolge perché assista le nigrae

formicae, una sorella impaziente di spiccare il volo e un fratello non ancora rassegnato al

disastro di un progetto di vita impossibile (una famiglia di soli legami fraterni). L’allocuzione candida formica130, col riferimento zoologico dipendente dalla materia del

poemetto, può alludere alla proverbiale «mosca bianca», metafora di una personalità d’eccezione, come la candida e saggia Mariù: «suora di carità», «angiolo» e «santa»131, colei

che dolce, grave e pia «corregge conforta consiglia» (Sorella, MY, vv. 3-4), pronta a condividere, senza indugi, la futura vita a due tra le mura del nido infranto132.

129 Sui tempi di composizione delle due redazioni del Myrmedon vd. supra, § 2, p. 19 e n. 61.

130 Candida sarà detta Mariù anche nella dedica del Centurio, mentre in quella del Laureolus era associata

alla virginea divinità delle selve, la casta Diana.

131 M. P

ASCOLI 1961, p. 422.

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