I - PROGETTO CULTURALE
2. JACQUES MARITAIN
TRA CRISTIANESIMO E CRISTIANITà
2. 1. Cristianità e nuova cristianità
è stato tipico del pensiero di Jacques Maritain procedere secondo il metodo del “distinguere per unire”: l’espressione fa addirittura da con - titolo del capolavoro maritainiano I gradi del sapere (1932). E non solo a livello epistemologico (i gradi del sapere, appunto), ma anche a livello ontologico (le articolazioni del reale) e a livello etico (i piani dell’agire) il filosofo francese mostra la fecondità del “distinguere per unire”, dove il distinguere è altro dal separare o contrapporre, e unire è altro dall’identificare o ridurre. Le due esigenze di “distinguere” e
“unire” e la convinzione che la prima sia in funzione della seconda costituiscono la metodologia maritainiana di ascendenza tomistica, e sono rintracciabili lungo tutto l’itinerario del pensiero maritainiano, come (per quello che qui interessa) alcuni titoli di opere esemplificano chiaramente: si pensi a Religione e cultura (1930), a Cristianesimo e democrazia (1942) e a La Chiesa di Cristo: la persona della Chiesa e il suo personale (1967). Ma è in particolare nella sua opera più famosa, Umanesimo integrale (1936), che viene operata una puntualizzazione, quella relativa a “cristianesimo” e “cristianità”. Di quest’ultima, nella sua novità postmoderna, si occupa Maritain in Umanesimo integrale che, infatti, è sottotitolato Problemi temporali e spirituali della nuova cristianità, e il problema che si pone è quale sia il rapporto tra cristia-nità e cristianesimo.
La categoria di “nuova cristianità” appare una costante nel pensiero maritainiano dagli anni Trenta agli anni Cinquanta: la troviamo, oltre che in Umanesimo integrale (1938), anche in Questioni di coscienza (1938), in Professione di fede (1939), in Per una filosofia della storia (1955) e in Riflessioni sull’America (1956). Tuttavia, dopo questa data,
il termine scompare: valga per tutti il riferimento ad un’altra opera che è molto conosciuta e che ha fatto molto discutere, cioè Il contadino della Garonna (1966). Il problema che allora si pone è se l’abbandono della espressione “nuova cristianità” ne indichi anche il superamento a livello di concetto. Sulla base di una precedente ricerca su Valore e limiti della “nuova cristianità” (in “Pedagogia e vita” 1986-7, n. 2),rite-niamo che avesse ragione Maritain a dire nella sua Professione di fede:
“non rinunceremo mai alla speranza di una nuova cristianità, di un nuovo ordine temporale di ispirazione cristiana”. Il fatto è che Mari-tain configura diverse modalità di traduzione della nuova cristianità, tanto che anche ne Il contadino della Garonna viene ribadita (pur senza usare l’espressione “nuova cristianità”) “l’idea di trasformare temporal-mente il mondo in vista di un fine che, ben lungi dall’essere ciò che un cristiano considera il fine assolutamente ultimo, è il bene del mondo stesso in sviluppo”.
Potremmo dire che la nuova cristianità (al di là del fatto che venga usata questa espressione) s’identifica con “il dovere o la missione di lavorare ad una tale trasformazione”, di lavorarvi “coscientemente ed esplicitamente”, secondo quanto Maritain scrive sempre ne Il conta-dino della Garonna. Sembra allora di poter sostenere che l’espressione
“nuova cristianità” è apparsa a un certo punto inadeguata e pertan-to abbandonata, senza che però Maritain abbia rinunciapertan-to al concetpertan-to.
La cosa non deve meravigliare, in quanto qualcosa di analogo si era verificato per altre due espressioni paradigmatiche del pensiero mari-tainiano, vale a dire quella di “filosofia cristiana” e quella di “politica cristiana”. Queste espressioni vengono abbandonate per il timore (ma-nifestato dallo stesso Maritain) che esse potessero dare l’impressione di voler confessionalizzare delle attività che invece hanno una dimen-sione squisitamente laica. E tuttavia al loro concetto Maritain non ha rinunciato: certo la loro discutibilità a livello terminologico porta Maritain a precisarle meglio a livello concettuale. Altrettanto ci pare che avvenga per la “nuova cristianità”, per cui l’abbandono nell’ultimo
Maritain dell’espressione non comporta il superamento del concetto, ma solo la sua identificazione con uno dei significati che all’espressione erano già stati attribuiti. Vediamo di chiarire la cosa. Fin da Umanesi-mo integrale Maritain aveva precisato il carattere analogico della idea di
“cristianità”: ci sono state storicamente diverse cristianità; ecco perché Maritain qualifica come nuova quella futura; ma il carattere analogico riguarda anche la “nuova cristianità”, nel senso che essa può trovare traduzione in due diverse modalità che Maritain aveva individuato fin da Umanesimo integrale, dove ne aveva privilegiata una, mentre l’altra sarà privilegiata ne Il contadino della Garonna. Pertanto non ci pare corretto dire che Umanesimo integrale è il libro della nuova cristianità, mentre Il contadino della Garonna ne costituirebbe il superamento;
ci sembra invece che la nuova cristianità, intesa come “ideale storico appropriato al particolare clima dell’età”, stia alla base tanto dell’uno quanto dell’altro, e che la differenza tra i due libri stia nell’optare per una o per l’altra delle due connotazioni che erano state date nell’opera del 1936 quando Maritain aveva distinto “un senso culturale molto ampio” e un “senso ridotto” dell’idea di “nuova cristianità”.
Infatti, “conviene distinguere nell’ideale di una cristianità nuova due aspetti diversi e due istanze diverse secondo che questo ideale con-cerne formazioni profane o temporali aventi rango di fine nel loro or-dine” ovvero “formazioni temporali che siano soltanto strumenti dello spirituale”. Nel primo caso, si fa riferimento a “uno stato laico cristiano in modo vitale, e una civiltà profana cristiana”, e la nuova cristianità viene presentata in riferimento a due diversi contesti: negli anni Qua-ranta in prospettiva francese o europea: così in Il crepuscolo della civil-tà (1939) e ne Il filosofo nella sociecivil-tà (1949), e negli anni Cinquanta tenendo presente l’esperienza americana: così in Per una filosofia della storia (1955) e in Riflessioni sull’America (1956). A questo significato è stato legato il concetto di “nuova cristianità”, ed è quello alla base del progetto di Umanesimo integrale. Nel secondo caso, “l’idea di una nuova cristianità, pur concernendo il campo temporale o culturale, si
spiri-tualizza essa stessa in qualche modo”, perché l’idea di nuova cristianità acquista una dimensione per così dire meno visibile e più universale, come si può constatare nelle puntualizzazioni di Maritain in opere dagli anni Trenta agli anni Sessanta. Così ne Il Dottore Angelico (1930) Maritain scriveva: “invece di essere raggruppata e riunita, come nel Medio Evo, in un corpo di civiltà omogenea e integralmente cristiana, ma limitata a una parte privilegiata delle terra abitata, pare che l’unità della cultura cristiana debba estendersi oggi su tutta la superficie del globo, ma rappresentando solamente l’ordine e la rete vivente delle istituzioni temporali cristiane ed i centri cristiani di vita intellettuale e spirituale sparsi fra i popoli nella grande unità sovraculturale della Chiesa. Invece della fortezza elevata in mezzo alle nazioni, dovremmo piuttosto pensare all’esercito delle stelle gettate nel cielo”. Concetto ribadito nello stesso anno in Religione e cultura e, successivamente, in Umanesimo integrale, dove uno dei significati di nuova cristianità è, appunto, quello di “una cristianità non raggruppata e riunita in un corpo di civiltà omogeneo ma sparsa su tutta la superficie del globo come una rete di focolai di vita cristiana disseminati fra le nazioni”.
Ed è il significato, l’unico significato, che si trova ne Il contadino della Garonna secondo cui “è più che mai compito dei piccoli greggi e delle piccole équipes battersi nel modo più efficace per l’uomo e per lo spiri-to e, in particolare, rendere la più efficace testimonianza alla verità cui la gente disperatamente aspira e di cui, al momento attuale, si trova in una bella carestia”.
In tutti i casi, ferme restando le differenze, si tratta pur sempre di una speranza in una società umanistica, la cui vitalità è assicurata dalla sua valenza spirituale e dalla sua dimensione assiologica, dalla sua ra-dice e radicalità evangeliche. Pertanto sembra legittimo affermare che, dopo la cristianità medievale e barocca, la cristianità potrà avere una nuova connotazione, magari in versione diversa ma sempre all’insegna del binomio “cristianesimo e laicità”: ecco la costante delle due forme di nuova cristianità, che vengono ipotizzate, per cui la si identifica
ora con l’”umanesimo integrale” o il “personalismo comunitario” di Umanesimo integrale (1936), ora con la “nuova democrazia”, delineata in opere come Cristianesimo e democrazia (1944) e L’uomo e lo Stato (1951), ora con una presenza cristiana anonima (invisibile o quasi in-visibile) come ne Il contadino della Garonna (1966).
2. 2. Nuova cristianità e secolarizzazione
Da quanto detto consegue che il problema di una nuova cristianità è per Maritain cosa diversa sia dall’idea di cristianità di Novalis sia dall’idea di nuovo cristianesimo dell’ultimo Saint - Simon. Per il filo-sofo tomista il cristianesimo costituisce la perenne ispirazione e aspira-zione della cristianità, la quale è intesa come tipo di società impegnata a tradurlo nel tempo; da qui i diversi modi in cui trova espressione nelle diverse epoche storiche. Dunque cristianità è categoria analogica, che fa necessariamente riferimento al cristianesimo, ma secondo una molteplicità di espressioni, quelle assunte in tempi differenti o anche contemporaneamente: così, dopo quella medievale e quella moderna, se ne va configurando un’altra, che, in quanto si colloca al di là del sa-cralismo premoderno e del secolarismo moderno, è nuova, e la sua novità può configurarsi in modi diversi.
Si tratta quindi di individuare i caratteri che la rendono nuova. Per far questo Maritain vuole evitare due orientamenti che erano inve-ce molto diffusi, vale a dire (nel mondo cristiano) la nostalgia per la cristianità che si era realizzata nel medioevo, e (nel mondo laico) la liquidazione della cristianità considerata residuo del sacralismo me-dievale e quindi da superare. Maritain, invece, non rinuncia all’idea di cristianità, ma la configura (comunque la concepisca) secondo una progettualità inedita; infatti che usi l’espressione o non la usi l’idea della nuova cristianità deve in ogni caso connotarsi non in termini sacrali bensì secolari, e, senza cedere al secolarismo, si tratterà di tro-vare le forme più adeguate per dare traduzione alla secolarità. La cosa è possibile perché (come mostrerà la riflessione teologica e filosofica
di autori che vanno da Troesch a Gogarten, da Rahner a Taylor) il processo di secolarizzazione non va identificato con il secolarismo, ma si mostra che può battere due strade: oltre a quella del secolarismo c’è la strada della secolarità: questa porta al riconoscimento della autono-mia delle realtà temporali, mentre quello alla loro assolutizzazione. Lo stesso magistero cattolico, a partire dagli anni Sessanta, farà perno su questa distinzione: così, per esempio, il Vaticano II con la Gaudium et spes e Paolo VI con la Populorum progressio. E l’una e l’altra risentono della impostazione maritainiana, oltre che del dibattito sviluppatosi intorno al fenomeno della secolarizzazione, per cui la secolarizzazione, intesa quale processo di fuoriuscita dall’età sacrale, è processo ambi-valente, dal momento che può dar luogo alla secolarità, se rivendica l’autonomia delle realtà mondane, e al secolarismo se attribuisce loro un carattere totalizzante.
Si può pertanto affermare che c’è una triplice valutazione del mon-do: quella che gli riconosce solo un valore di strumento (è il sacrali-smo), quella che ne afferma, invece, il valore di fine assoluto (è il secola-rismo) e quella, infine, che ne sostiene il valore di fine ma relativo (è la secolarità). è, quest’ultima, la posizione di Maritain, secondo il quale le realtà temporali non hanno solo un valore strumentale e nemmeno un valore assoluto; hanno bensì un valore di “fine infravalente”. Da qui l’idea di una cristianità che operi nel mondo per la costruzione di una società “cristiana”, ma nel rispetto della legittima autonomia delle realtà temporali; si tratta, quindi, di una cristianità che s’impegna nella politica e nell’economia e lo fa juxta principia di tali attività. Per questo il cristiano è chiamato ad agire in esse in modo coerente con il suo essere cristiano: il che non significa agire “in quanto cristiani” (tale è l’agire richiesto sul piano ecclesiale che comporta l’unità della fede) bensì agire “da cristiani” (tale è l’agire sul piano sociale caratterizza-to dal pluralismo delle opzioni politiche), avendo consapevolezza che il cristianesimo “non può più contare sull’aiuto e la protezione delle strutture sociali”; anzi gli spetta “aiutare e proteggere tali strutture,
ap-plicandosi ad impregnarle del proprio spirito”. Il risultato è una socie-tà che può definirsi “cristiana”, ma non nel senso di “decorativamente cristiana”, bensì di “vitalmente cristiana”: e proprio questo richiamo non all’esteriorità della identità cristiana è ciò che dà propriamente il senso della novità che deve contraddistinguere la cristianità del futuro, tanto che essa abbia una connotazione istituzionale o ordinamentale, quanto che essa abbia una connotazione comportamentale e valoria-le. In entrambi i casi, il riferimento a una “nuova cristianità” è sia il modo per dire la traduzione sociale del cristianesimo in alternativa al sacralismo e al secolarismo, sia il modo per dire una riconciliazione tra cristianesimo e umanesimo che dà luogo a un umanesimo cristiano come umanesimo teocentrico, anzi: cristocentrico; nel senso (come Maritain stesso aveva avvertito) che l’umanesimo integrale è l’umane-simo dell’Incarnazione. Un tale umanel’umane-simo - per quanto diversamente caratterizzato: come comunitario, personalistico, e pellegrinale (così in Umanesimo integrale), ovvero all’insegna del pluralismo, dell’auto-nomia del temporale e della libertà delle persone (ancora in Umanesi-mo integrale) ovvero personalistico, comunitario, pluralistico e teistico (così in I diritti dell’uomo e la legge naturale) - è basato su “una con-cezione profana cristiana e non sacrale cristiana del temporale”, ed è in grado di far propri i “guadagni storici” della premodernità e della modernità, evitandone le “verità impazzite”. In tal modo l’umanesimo maritainiano è integrale a doppio titolo: nel senso della integralità an-tropologica e nel senso della integrazione assiologia.
Da quanto detto dovrebbero risultare alcuni punti fermi. Primo: la cristianità è categoria da non identificare con il cristianesimo, che ne rappresenta l’ispirazione e l’aspirazione. Secondo: la cristianità è cate-goria da non identificare con la chiesa: né con la sua persona né con il suo personale. Terzo: la cristianità è un concetto analogico, per cui va declinata al plurale; e tra le varie cristianità che ci sono state e ci possono essere, c’è qualcosa di costante (il rapporto con il cristianesi-mo e con la chiesa) e qualcosa che ogni volta è diverso (in rapporto
alle diverse epoche storiche e alle loro specifiche esigenze). Quarto: di conseguenza, è legittimo parlare di nuova cristianità per indicare una cristianità contemporanea, che è necessariamente diversa da preceden-ti crispreceden-tianità, in quanto è risposta al processo di secolarizzazione, che con la cristianità è compatibile a condizione che sia all’insegna della secolarità, non del secolarismo. Quinto: la nuova cristianità non ha una strada obbligata, ma si trova di fronte ad almeno due modalità di realizzazione: una in senso forte e un’altra in senso debole, per dire una cristianità che, per quanto nuova, è però visibile, oppure che è nuova proprio in quanto è invisibile (o quasi invisibile), nel senso cioè, ri-spettivamente, di cristianità istituzionale e ordinamentale (moderna), e di cristianità comportamentale e valoriale (postmoderna). Sesto: pro-prio su questo secondo versante, la nuova cristianità è tanto nuova da comportare una messa in crisi della stessa espressione di “nuova cri-stianità”, espressione che appare inadeguata o addirittura fuorviante, in quanto fa pensare, pur con tutte le dichiarazioni di postsacralismo a una società a configurazione più o meno confessionale, laddove pro-prio questo è il carattere che deve essere abbandonato.
Da tutto questo consegue che il concetto di cristianità - come sforzo di incarnare il cristianesimo nella società - è un concetto di cui non si può fare a meno, e tuttavia il termine con cui finora lo si è espresso è equivoco, per cui andrebbe sostituito con altra terminologia, come è avvenuto per espressioni consolidate quali “filosofia cristiana” e “po-litica cristiana”. Nel caso della “nuova cristianità”, Maritain ha cerca-to espressioni che fugassero ogni equivoco: già l’espressione “società vitalmente cristiana e non decorativamente cristiana” può aiutare a capire in che senso la cristianità è nuova. Ma meglio ancora sarebbe l’uso di espressioni come “umanesimo integrale” o “nuova democrazia”
o “città fraterna” (altri dirà “città dell’uomo” et similia) dove l’assenza di un esplicito riferimento cristiano si accompagna pur sempre alla presenza di un implicito riferimento ai suoi valori. Se così è, si può allora aggiungere che quello di “nuova cristianità”, pur diversamente
denominato, è “un ideale storico concreto”; ciò significa che non ha il carattere né di ideologia né di utopia, e che a contraddistinguerlo è il
“principio laicità”, secondo cui l’agire cristiano deve connotarsi nella società come un agire non “in quanto cristiani” ma “da cristiani”, e dunque all’insegna del rispetto antropologico (umanesimo integrale), del rigore antropologico (epistemologia esistenziale) e della responsabili-tà assiologica (morale adeguatamente presa).
2. 3. Nuova cristianità e postsecolarizzazione
Non è questa la sede per prendere in esame le varie concezioni e valutazioni che, della cristianità, sono state date con o senza riferimen-to diretriferimen-to a Maritain, ma qui si vorrebbe sostenere che in Maritain è rintracciabile, non solo l’impostazione più nota della nuova cristianità progettata in Umanesimo integrale, ma anche un’altra impostazione, che si avvicina a quella sostenuta da alcuni studiosi (storici, filosofi o teologi: cattolici e non cattolici), i quali l’hanno però presentata come alternativa alla posizione di Maritain. Ma tale è solo se a Maritain si attribuisce un’unica impostazione, quella privilegiata in Umanesi-mo integrale. Se, invece, si tiene presente anche l’altra impostazione (che si può identificare con quella de Il contadino della Garonna, ma adombrata fin da Umanesimo integrale e anche prima) allora appare chiaro come quelle letture, che vorrebbero essere postmaritainiane se non addirittura antimaritainiane, sono state (come abbiamo cercato di mostrare) anticipate dallo stesso Maritain, anche se in lui - e qui sta la differenza - non si trova radicalizzata (come avviene in quegli studiosi) l’idea di postcristianità in opposizione a quella di neocristia-nità. è quello che accade, per esemplificare, a studiosi come Salvatore Natoli e Pietro Prini; pur nella diversità delle loro impostazioni, tanto l’uno quanto l’altro concordano nel ritenere che (parafrasando una celebre espressione di Paul Ricoeur) “morta la cristianità, rinasce il cristianesimo”. Infatti, Natoli intende “Dio è morto” come “fine della cristianità”, nel senso che, declinata la cristianità, sta forse nascendo
il cristianesimo autentico, quello radicale e paradossale; e Prini dal canto suo ritiene che, tramontando l’ideale della costruzione della ci-vitas christiana, stia sorgendo il cristianesimo in senso autentico, ossia
“universale, metastorico e genuinamente ecumenico”.
In Maritain non si giunge a una tale concezione, in quanto in lui il cristianesimo è visto come l’inveramento dell’umanesimo e dunque impegnato nella storia non solo in prospettiva soteriologica ed esca-tologica, ma anche nell’ottica antropologica e prassiologica. In altre parole, ci sembra che in Maritain, non siano posti in contrasto o in alternativa cristianesimo e cristianità, come se questa ostacolasse quel-lo; il problema, per Maritain, è piuttosto di configurare un umanesi-mo che, in quanto (direttamente o indirettamente, implicitamente o esplicitamente) è ispirato ai valori cristiani, si traduce in un impegno di trasformazione del mondo, e a tal fine non si può prescindere dal contributo dei cristiani. Come ciò debba avvenire non può essere sta-bilito a priori; la cristianità non si trova già delineata nel Vangelo: in esso si trovano indicazioni segnaletiche per poterla attuare, ma occorre che i cristiani si impegnino a incarnarla nelle diverse situazioni storiche attraverso un’opera di mediazione culturale, e gli esiti di tale impegno portano a una diversificata tipologia di cristianità. Per esemplificare il carattere orientatore e segnaletico del Vangelo si può fare riferimento al principio “date a Cesare quel che è di Cesare, e date a Dio quel che è di Dio”, un principio che ricorda come occorra distinguere tra ciò che è dell’uno e ciò che è dell’altro e occorre dare all’uno e all’altro ciò che gli è proprio; tuttavia “che cosa sia di Cesare” e “che cosa sia di Dio”
deve essere precisato nel concreto delle situazioni, tenendo presenti le strutture e le congiunture con cui la storia obbliga a misurarsi. Di con-seguenza si potrebbe anche dire che non c’è una cristianità migliore di un’altra; c’è semmai una cristianità adeguata o inadeguata al proprio tempo; detto altrimenti: una cristianità sacrale si giustifica in un’età sa-crale (com’era l’età medievale), ma non si giustificherebbe in un un’e-tà secolare (com’è l’eun’e-tà moderna); per questo non si possono nutrire
nostalgie, e bisogna, invece, esercitare una progettualità che permetta
nostalgie, e bisogna, invece, esercitare una progettualità che permetta