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L’apporto della sociologia: ritualizzazione della comunicazione,

2. La cassetta degli attrezzi

2.1. Enunciatori e destinatari

2.1.2. L’apporto della sociologia: ritualizzazione della comunicazione,

Erving Goffman (1959a, 1959b, 1967, 1974, 1981) ha dato agli argomenti che stiamo trattando. Alcuni dei concetti che andrò qui a sintetizzare serviranno anche per l’argomento successivo, profondamente intrecciato con questo, che riguarderà i fenomeni di mitigazione.24

L’analisi goffmaniana si sviluppa sulla nozione di framing di Bateson (1972): quando qualcuno decide di partecipare ad una conversazione, è necessario che capisca la cornice di fondo all’interno della quale la situazione comunicativa si sviluppa. Come parte del discorso, il frame serve a guidare gli ascoltatori verso ciò che entrambi intendono comunicare: ciascuno di loro, infatti, impegnerà diversi frameworks nella conversazione, che serviranno

24 Tutta la storia della stance ha avuto molto più a che fare con la mitigazione (e il reinforcement o boosting) che non con l'enunciazione, che in fin dei conti coincide con l'indicalità.

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a dare un senso agli eventi mentre vengono costruiti. Non comprendere le cornici di sfondo della conversazione può generare incomprensioni ed interpretazioni errate e generare scambi comunicativi non cooperativi (Bateson 1972; Goffman 1974, 1981).

Le persone partecipano a una conversazione adattando il loro modo di parteciparvi, inclusi lessico, interazione e ascolto, basandosi su quello che capiscono essere il loro ruolo e il loro coinvolgimento nella situazione comunicativa e, allo stesso tempo, il coinvolgimento inteso da parte degli altri partecipanti: la complessa rete di interazioni viene chiamata da Goffman (1974) partecipation framework. Applicando l’analisi microsociologica alla conversazione, lo studioso nota alcune dinamiche costanti nello scambio comunicativo, che definisce rituali: quando noi osserviamo due persone che parlano, non dobbiamo più immaginaci uno scambio lineare, scandito da turni ben definiti, ma un circolo, una messa in atto di una scena ritualizzata nella quale ci sono diversi ruoli che man mano vengono portati in scena dai vari attori. Ogni qualvolta che uno di questi attori dice qualcosa, all’interno del partecipation framework ciascuno degli ascoltatori assume un particolare ruolo ed una sorta di status in relazione non solo a ciò che viene detto, ma a come pensa che la comunicazione stia interagendo con le cornici di sfondo. Noi possiamo infatti parlare davanti a più persone senza necessariamente rivolgerci a tutte loro e, nel corso della stessa conversazione, passare ad alcuni tratti di conversazione monologica, pensando ad alta voce e rivolgendosi esclusivamente a noi stessi. Uno dei punti che rendono queste analisi interessanti, è proprio il fatto che la ritualità della conversazione, per Goffman (1974, 1981) prevede una certa fissità solo nel riproporsi delle stesse dinamiche, ma i ruoli all’interno delle diverse situazioni comunicative possono cambiare in continuazione, anche più volte all’interno della stessa conversazione.

All’interno di questa visione dello scambio conversazionale si inserisce la nozione di footing (1981, 128), che viene definito come “the alignment we take up to ourselves and the others present as expressed in the way we manage the production or reception of an utterance”. Attraverso questa strategia, ognuno di noi prende posizione rispetto a noi stessi e alla cornice all’interno della quale avviene la conversazione: in sostanza, quando parliamo con qualcuno, le nostre scelte comunicative avvengono sulla base della relazione che intercorre fra noi e, viceversa, la relazione può subire delle oscillazioni proprio in base a quello che viene detto,

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alle nostre aspettative, nella valutazione di segnali sia linguistici che contestuali. Goffman (1981) introduce la nozione con un esempio tratto da una conversazione tra il presidente americano Nixon e una giornalista, accreditata ad assistere alla firma di un provvedimento. A conferenza stampa finita, il presidente le si rivolge scherzando sul fatto che una donna indossi i pantaloni. Per lo studioso, questo rappresenta un esempio lampante di quelli che lui chiama shift, cambio di posizionamento: il potere del presidente è ritenuto tale da poter permettere a Nixon di rivolgersi alla giornalista, nonostante l’occasione formale, in modi differenti prima e dopo la conferenza stampa. Lo shift sta nel passaggio dai ruoli formali e professionali di presidente e giornalista a quelli informali di uomo anziano e autorevole e donna. Gli individui presenti sono gli stessi ma gli attori sulla scena cambiano.

La battuta sul suo abbigliamento implica che lo status del presidente possa consentirgli di trattare la giornalista, lì in veste di professionista, come se fosse in un contesto domestico, a forte marca sessista; non solo, ma il fatto che il presidente non abbia esitato nella battuta e che sia la giornalista che gli astanti la vivono come una condizione di quasi normalità, comunica una definizione sociale di donna abituata a ricevere commenti sull’aspetto fisico e ad approvare tale shift anche in un contesto professionale.

Lo studioso propone anche un superamento della diade parlante-ascoltatore, a suo modo di vedere troppo semplicistica nel descrivere la comunicazione. Innanzitutto, Goffman (1981) dice che i diversi ascoltatori non sono tutti sullo stesso livello, ma possono essere riconosciuti (ratified) o non riconosciuti (unratified), ovvero hanno ruoli diversi nella conversazione: i primi un posto ufficiale, mentre i secondi no. Per quanto riguarda il ruolo di parlante, Goffman (1981) ritiene che per capire davvero la fonte di un enunciato si debbano scorporare almeno tre distinti ruoli che di solito vengono compressi in quello di speaker. Innanzitutto, c’è l’animator, ovvero quello che l’autore chiama la cassa di risonanza dalla quale esce l’enunciato: solitamente è una persona umana, ma possiamo benissimo immaginare oggetti tecnologici come un telefono, un altoparlante, un pc. Diverso è il ruolo dell’author, ovvero colui che ha stabilito che cosa dovesse essere detto: può ovviamente coincidere con l’animator, ma può anche essere una persona fisica diversa, come un autore di una canzone portata al successo da un cantante, un accademico citato da uno studente, un programmatore che ha realizzato la stringa di codici poi convertita in parole da un pc. Nel caso del mio lavoro, scienziati protagonisti delle ricerche ed autori degli articoli non sempre

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coincidono. Infine, Goffman (1981) propone come ultimo ruolo quello del principal, ovvero la persona o il gruppo le cui convinzioni e punti di vista sono rappresentati nelle frasi pronunciate. Anche qui, i tre ruoli possono coincidere, oppure ne possono coincidere solo due; ma è possibile che nessuno dei tre coincida, come nel caso di chi scrive i discorsi politici (author), proclamati dal candidato di turno (animator), davanti ad una folla di sostenitori od al proprio partito (principal). Il politico però parlando come rappresentante o come candidato di un partito, oltre a essere animator di un author che gli ha preparato il discorso, può prendersi la responsabilità di quello che dice, può prendere degli impegni come candidato (nei quali casi il principal è di nuovo lui stesso) oppure può impegnare la propria parte politica a sostenere una certa linea (nel qual caso il principal è effettivamente il partito), però questo non dipende da chi è presente, ma dal frame, ovvero dai ruoli in gioco e da ciò che viene detto25. Il punto forse di maggiore interesse per il mio lavoro è che ai tre ruoli corrispondono tre diversi tipi di responsabilità: l’animator è responsabile verso la fedeltà, nell’esecuzione, della frase originale. Con esecuzione non si intendono solamente gli aspetti morfosintattci, ma anche quelli prosodici, l’intonazione, le intenzioni dell’autore. Sull’author cade la responsabilità verso ciò che viene espresso: ne è lui la fonte e sono imputabili a lui eventuali errori di contenuto, mentre il principal è coinvolto in tutti quei rischi cognitivi ed epistemici derivati dal suo posizionamento rispetto a ciò che viene detto. L’ultimo contributo goffmaniano che vado a presentare è la sua definizione della rappresentazione di sé stessi, all’interno di una qualsiasi interazione, come “faccia” (1959a, 1959b, 1974, 1981). Come ho già accennato, per il sociologo tutta l’interazione umana è ritualizzata, secondo un modello che può benissimo venir descritto come drammaturgico: i vari attori mettono in scena diversi script teatrali, a seconda della situazione in cui vengono coinvolti. La vita sociale è una molteplicità di rappresentazioni, in cui ognuno di noi propone una propria immagine sociale di sé stessi, appunto la “faccia”, che si lega allo status che di volta in volta gli altri partecipanti ci riconoscono. La nostra “faccia” è quindi l’immagine di noi stessi con la quale vogliamo essere conosciuti e riconosciuti e corrisponde ad una linea di condotta che gli altri assumeranno come data per scontata e durevole. Ma non è solo

25 Se si analizzano discorsi "naturali" si scopre che molti sono ibridi: molti parlanti giocano più ruoli contemporaneamente e anche l'illocuzione è plurale. Si scopre anche che c'è un ruolo dell'uditorio nell'accettare un certo parlante in un certo ruolo con certe illocuzioni oppure delegittimarlo.

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questione di farsi riconoscere uno status (o non sempre o non direttamente), bensì anche di essere approvati come partecipanti all'incontro che hanno quel ruolo che nell'incontro ci si aspetta che abbiano. Riuscire a mantenerla coerentemente per lungo tempo contribuirà alla tranquillità nella vita sociale, soddisfacendo tutte le aspettative verso di noi. Per Goffman (1981), la ritualità dell’interazione sociale comporta una forte dose di messa in pubblico: mantenere la propria faccia è una precondizione per una vita sociale serena ed è una precondizione continuamente sottoposta a giudizio. Se le aspettative non vengono mantenute ci si sente traditi: da parte nostra si parla di “perdere la faccia” e si provano emozioni a forte input sociale come vergogna e senso di colpa, mentre nella comunità si parla di scandalo. La legittimità e la legittimazione della faccia è qualcosa che si basa sulle azioni passate e consente una certa previsione su quelle future: per questo tutti noi lavoriamo sodo per difendere e mantenere la nostra faccia e l’abilità nel farlo dimostra la nostra competenza nel reagire nella maniera più appropriata rispetto alle situazioni in cui ci troviamo. Quando c’è un contrasto tra l’aspettativa verso una faccia e ciò che invece viene effettivamente mostrato, il rituale prevede una procedura di recupero in tre mosse: “la sfida”, in cui la comunità richiama l’attenzione dell’attore verso il comportamento inappropriato e chiede una sorta di risarcimento dell’offesa; “l’offerta”, attraverso la quale si offrono delle uscite di emergenza all’attore, come la minimizzazione o lo spostamento dell’azione in un piano diverso, retorico o riconducibile ad un contesto di scherzo, in cui allora possa essere riconosciuto e capito; “la risposta”, che può prevedere, da parte dell’attore, l’accettazione od il rifiuto dell’offerta. C’è in realtà un’altra strategia per evitare la messa in discussione della propria faccia, che è quella dell’ “elusione”, ovvero dell’evitare ogni possibile situazione di rischio: proprio qui, l’analisi goffmaniana incontra gli interessi degli studiosi di mitigazione, laddove molte delle strategie elusive da lui elencante corrispondono o vengono messe in pratica attraverso markers di mitigazioni ed hedging (come ironia, limitazione delle proprie capacità, nel caso della divulgazione delle potenzialità o dello status epistemico delle dichiarazioni, mettere le mani avanti preventivamente, anticipando e neutralizzando così possibili critiche, ecc…). Anche se non ce ne accorgiamo, dunque, queste forme di ritualizzazione hanno una notevole forza prescrittiva, soprattutto nell’ambito della comunicazione: ogni processo comunicativo, infatti, contiene una notizia, qualche aspetto di novità nel contenuto, ma è lo stile, il modo

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con cui viene comunicata che determina e determinerà lo status con il quale siamo riconosciuti all’interno dell’interazione.