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CAPITOLO I APPRENDIMENTO: INQUADRAMENTO TEORICO DEL

1.8 L’ APPRENDIMENTO SITUATO

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P. Freire, La pedagogia degli oppressi, EGA, Torino, 2002, pp. 58-65.

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Il discorso sull’apprendimento è di fatto molto complesso, come dimostrano anche le teorie presentate, poiché si tratta di un processo olistico che combina insieme tutti gli aspetti con cui la persona fa esperienza di una situazione, “il cui contenuto percepito viene poi assimilato a livello conoscitivo, emotivo e pratico ed integrato nella biografia della persona, promuovendone un cambiamento”.128 Tuttavia, è bene ribadire che l’apprendimento non è un mero fatto individuale, ma è sempre contestualizzato, inserito in dinamiche relazionali e strettamente connesso con la pratica dalla quale è possibile costruire conoscenza. Una produzione di conoscenza che, come si è avuto modo di osservare, non può prescindere dall’attivazione di pratiche riflessive poiché azione e pensiero non possono essere separati. A maggior ragione quando ci si trova di fronte a professionisti che proprio nel loro riflettere nel corso dell’azione dovrebbero essere in grado di gestire la complessità, l’incertezza e l’indeterminatezza che derivano dai contesti pratici. Una conoscenza che scaturisce dalla pratica e si presenta come tacita, inespressa, non esplicitata, ma fortemente ancorata alla situazione in cui nasce e si sviluppa. È proprio sulla base di tali caratteristiche che diversi autori, in particolare

Wenger e Lave129, parlano di apprendimento situato (situated learning), un

apprendimento considerato in funzione del contesto in cui esso si realizza, in contrapposizione a quei processi decontestualizzati e astratti, ancora spesso tipici della formazione scolastica.

Il tirocinio di Servizio Sociale si colloca proprio come una pratica situata, un apprendimento che enfatizza la presenza di un contesto autentico per chi apprende, ossia il servizio in cui lo studente è inserito e nel quale ha l’opportunità di lavorare su compiti reali, mettendo in gioco le proprie conoscenze e abilità. La persona che apprende, e nel nostro caso specifico il futuro assistente sociale, non memorizza infatti una quantità indefinita di nozioni astratte da replicare in altri contesti, ma impara ad agire in quello specifico contesto di riferimento, per cui nell’ambito del Servizio Sociale professionale.

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P. Jarvis, Religious Experience ad Experiential Learning, in “Religious Education”, 2008, p. 558.

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Cfr. J. Lave, E. Wenger, Situated Learning. Legitimate peripheral participation, University of Cambridge Pres, Cambridge, 1991. Le radici di questo approccio risalgono alla teoria dell’azione situata che presenta un cambio di prospettiva rispetto al cognitivismo tradizionale: l’azione non è più considerata come l’azione di un piano prestabilito, ma come un adattamento del soggetto al contesto in cui si trova. Le azioni umane più che essere pianificate in modo rigido, si adattano alle situazioni momento per momento. Per approfondimenti sulla teoria dell’azione situata cfr. L. Suchman, Plans and Situated

Actions: The Problem of Human–Machine Communication, Cambridge University Press, Cambridge,

Il vero e proprio processo di costruzione della conoscenza avviene necessariamente nell’interazione con gli altri e nell’ambiente in cui si trova a vivere, ad agire, a pensare e a riflettere.

L’apprendimento situato autentico implica una condivisione del patrimonio di conoscenze acquisite poiché le comunità di pratica sottendono una teoria dell’apprendimento che parte dalla seguente assunzione: l’impegno in una pratica sociale è il processo fondamentale attraverso il quale noi apprendiamo e in tal modo diveniamo chi siamo. Il primo elemento di analisi non è né l’individuo né le istituzioni sociali quanto la “comunità di pratica” che le persone creano per condividere nel tempo le loro esperienze. In altri termini, la conoscenza è co-costruita e l’apprendimento è collocato nel processo di co-partecipazione e non nella testa degli individui130, perché, come già ci insegna Bruner, anche se l’esperienza del conoscere è individuale, per sviluppare la nostra esperienza abbiano necessità degli altri. Affinchè questo si realizzi, è necessaria quella che Lave e Wenger definiscono “partecipazione periferica legittima”, una particolare modalità di partecipazione della persona che apprende coinvolta nella pratica reale di un esperto (il supervisore assistente sociale nel tirocinio131).

Gli autori si riferiscono al processo attraverso il quale i neofiti entrano a far parte di una comunità di pratica, dove contribuiscono attivamente allo svolgimento di precisi compiti, per acquisire le competenze necessarie per il loro futuro, anche di fronte a situazioni e compiti più complessi. È una partecipazione che implica però una responsabilità limitata rispetto al prodotto finale complessivo, in modo da non essere coinvolti, a volte anche sconvolti, da responsabilità per le quali non si è ancora preparati. È questo il rischio che si corre proprio nell’ambito del tirocinio, dove gli studenti vengono in un certo senso “catapultati” dall’ambiente protetto delle aule universitarie a quello che è il mondo dei servizi con tutte le difficoltà che questo comporta. Delle responsabilità eccessive potrebbero amplificare le paure e le fragilità del tirocinante, minando l’opportunità di fare e la possibilità di apprendere, fino a

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J. Lave, E. Wenger, L’apprendimento situato. Dall’osservazione alla partecipazione attiva nei contesti

sociali, Erickson, Trento, 2006, p. 9. 131

È bene sottolineare che Lave e Wenger concentrano la loro attenzione sull’apprendistato e lo contrappongono all’apprendimento scolastico. Mentre in quest’ultimo il sapere è meglio trasmesso all’interno di un ambiente specializzato, nell’apprendistato ciò che assume rilievo è il rapporto tra l’apprendista e l’esperto che lo segue.

condurre ad un fallimento dell’esperienza stessa. Pertanto, il tirocinante partecipa a quelle che sono le attività del servizio, con delle responsabilità limitate, quindi periferiche, e questo suo esserci è legittimato dai membri stessi della comunità professionale. Ciò che assume rilievo non è tanto il rapporto tra il tirocinante, colui che apprende, e il supervisore, l’esperto che lo segue e l’accompagna, sebbene non si possa prescindere da tale rapporto educativo, quanto il fatto che il primo entra a far parte di una comunità, che necessariamente comporta una trasformazione della sua identità personale e la crescita di quella professionale.

Con il costrutto “comunità di pratica” Lave e Wenger si riferiscono più precisamente ad un insieme di persone che, in molteplici contesti, si riuniscono in modo informale e spontaneo per condividere l’interesse per un tema specifico e, in questo modo, accrescono le proprie conoscenze e abilità, interagendo continuamente tra loro e dando nuova significatività alle esperienze.132 Una comunità di pratica può infatti mettere insieme professionisti, anche quelli fino a quel momento rimasti isolati, e nicchie locali di esperienza professionale; analizzare e affrontare problemi i cui fondamenti sono trasversali ai singoli partecipanti; cercare di ottenere alti livelli di prestazione andando a verificare le cause che determinano le difficoltà; collegare e coordinare attività sconnesse tra loro.133 Una formazione funzionale al conoscere e apprendere a partire da un contesto lavorativo, d’altra parte, implica l’avvicinarsi all’imprevedibilità, all’ambiguità, a misurarsi “con saperi non solo dichiarati ma anche in uso, depositati nelle conoscenze implicite e in azione dei soggetti”.134 In sostanza siamo di fronte a quell’operatività che non è un fare che nasce dopo il pensare ma, come ben evidenzia Desinan, “è riflessione connaturata con lo stesso agire e volta specificatamente a risolvere i problemi multiformi che l’agire incontra in ogni fase dell’operatività”.135 Le competenze individuali non sempre però sono sufficienti di fronte ad azioni complesse, per cui è necessario consolidare forme sinergiche di

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E. Wenger, R. Mc Dermott, W. M. Snyder, Coltivare comunità di pratica. Prospettive ed esperienze di

gestione della conoscenza, Guerini, Milano, 2007, p. 44, (ed. or. Cultivating Communities of Practice. A Guide to Managing Knowledge, Harvard Business Press, 2002).

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Ivi, p. 57. Si può parlare di comunità di pratica se c’è: un impegno reciproco, un’impresa comune e un repertorio condiviso. Ciò che conta sono le relazioni e i legami interpersonali tra soggetti che condividono e si impegnano in azioni i cui significati vengono negoziati.

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V. Alastra, C. Kaneklin, G. Scaratti, La formazione situata. Repertori di pratica, Franco Angeli, Milano, 2012, p. 27.

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C. Desinan, Educazione e Servizio Sociale: le buone ragioni di una convergenza, in F. Lazzari, A Merler (a cura di), op. cit., p. 299.

collaborazione che garantiscano, soprattutto nelle professioni di aiuto, risposte adeguate ed efficaci.

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