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L’archetipo del «rinascere»

Capitolo II. Costellazione simbolica della Renovatio

2.1 L’archetipo del «rinascere»

Trattando la complessa nozione del «rinascere», Carl Gustav Jung la definisce una «testimonianza che va annoverata tra le primordiali dell’umanità [...] determinate nella radice più profonda da un archetipo»1. Lo psicanalista svizzero cerca di stabilirne i differenti aspetti e le ricercate sfumature, distinguendone cinque differenti forme: metempsicosi, reincarnazione, risurrezione (o resurrectio), rinascita (o renovatio), e partecipazione al processo di trasformazione (o rinascita indiretta). La terza e la quarta forma, molto simili tra

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di loro, sembrano di molto avvicinarsi alla tipologia di «ritorno alla vita» del Dying and Rising God.

Tuttavia, tra la risurrezione-resurrectio e la rinascita-renovatio, così come intese da Jung, intercorre una linea di demarcazione non trascurabile. Secondo la definizione junghiana, la resurrezione è il «ri-stabilimento dell’esistenza umana dopo la morte», in cui subentra un nuovo elemento, ovvero un «cambiamento, trasmutazione, o trasformazione dell’essere». Tale trasmutazione, in alcuni casi, può essere così incisiva, al punto che «l’essere risorto è un altro»2 rispetto a quello morto precedentemente. Non è però questo, il caso del Dying and Rising God: infatti, il Dio rinasce gloriosamente, ritornando esattamente a come era quando la sventura lo colpì. Non rinasce in un altro individuo: è sempre lo stesso soggetto.

Le sorti del Dying and Rising God si avvicinano di più alla quarta forma dell’archetipo junghiano del «rinascere»: ossia, quella della «rinascita sensu strictiori». Questa si differenzia dalla resurrezione, perché è caratterizzata da una renovatio, la quale non comporta «alcun cambiamento dell’essere», bensì, al massimo, un sostanziale «rinnovamento» o un «miglioramento» di singole parti o funzioni. Tutti i processi di natura ristorativa – guarigione, ringiovanimento, purificazione – rientrano in questa categoria.

Se il Mito del Dying and Rising God è, in primis, un Mito articolato in tre tappe – vita, morte e rinascita – possiede allora un’«ontologia ciclica», che ci apprestiamo ad indagare nel profondo. Il Dio è destinato a morire e a rinascere periodicamente: trattandosi della personificazione della pianta, la temporalità delle sue sorti si carica di un’isotopia «stagionale».

Nel mito vicino-orientale di Dumuzi/Tammuz e nel mito ellenico di Kore, la ciclicità stagionale è esplicita: i due dèi periscono nella stagione secca per risorgere nella stagione rigogliosa. Nel caso del mito nordeuropeo di Balder, invece, la temporalità è strutturata diversamente: la stagionalità è presente, ma lo è nella misura in cui le «stagioni» sono concepite come le infinite «esistenze» del mondo; infatti, Balder muore prima del Ragnarok (la «fine del mondo») per fare ritorno dopo di esso (alla sua rinascita). Oppure, secondo una diversa lettura, la stagionalità rimane implicita o appartiene a una versione più arcaica del suddetto

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mito: il mitologema del pianto di «tutte le cose nei mondi» – unica condizione che avrebbe potuto far tornare Balder immediatamente alla vita – simboleggia, in questa prospettiva, l’acqua vitale delle piogge (eufemizzate nelle lacrime), che permette la rinascita della natura nella stagione primaverile3.

Il Tempo ciclico è una vera e propria «ontologia arcaica» 4 , chiave interpretativa di innumerevoli pagine di mitologia politeistica, di prassi ritualistica, e del «comportamento, anche il più stravagante, del mondo primitivo»5. L’uomo moderno non comprende più la costellazione simbolica che ruota intorno al Tempo ciclico. Essa include, infatti, anche svariati atti che risultano, fuori da tale lettura simbolica, decisamente «violenti» o «riprovevoli», ad esempio l’orgia; le stesse idee di eternità e di ciclo sono ritenute poco accettabili da una mente intrisa di duemila danni di Cristianesimo – la cui percezione del Tempo è impostata su una successione lineare, e non periodica, degli eventi6. Nella mens moderna e cristiana, viene «offuscato il significato della religiosità cosmica»7, sicché lo stesso Tempo ciclico, applicato a contesti differenti da quello arcaico di cui ci stiamo occupando, perde il proprio senso primordiale, e viene rovesciato negativamente, risultando «un circolo chiuso su se stesso, che si ripete all’infinito»8.

Non è sufficiente asserire che «tutti i miti agrari sono ciclici»: per la precisione, tutti i miti della vegetazione acquisiscono un simbolismo ricco e prolifero nella misura in cui essi sono rapportati al Tempo ciclico, che rappresenta la loro stessa impalcatura ontologica. In caso contrario, qualunque ierofania vegetale risulterebbe svuotata di senso, in quanto non funzionale ad alcun complesso. Come riconosce Eliade:

La Vita si manifesta mediante un simbolo vegetale. Questo equivale a dire che la vegetazione diventa una ierofania – incarna e rivela il sacro – nella misura in cui significa qualcosa di diverso da sé. Un albero o una pianta non sono mai sacri in quanto albero o pianta; lo diventano partecipando a una

3 Cfr. infra, par. 2.5.

4 M. Eliade, Il Mito dell’eterno ritorno, op. cit., p. 121. 5 Ibidem.

6 Cfr. G. Filoramo, G. Massenzio, M. Riveri, P. Scarpi, op. cit., pp. 195-196. 7 M. Eliade, Il Sacro e il profano, Torino, Boringhieri, 1973, p. 70.

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realtà trascendente, lo diventano perché significano tale realtà trascendente [...]. Attraverso la vegetazione, è la Natura che si rigenera mediante ritmi molteplici, che è “onorata”, promossa, sollecitata. Le forze vegetative sono un’epifania della vita cosmica [...]. I cosiddetti “culti della vegetazione” sono [...] rituali stagionali che non si spiegano in nessun caso con una semplice ierofania vegetale, ma s’inquadrano nelle rappresentazioni infinitamente più complesse, che impegnano l’insieme della vita biocosmica9.

Il Mito del Dying and Rising God non acquisirebbe un valore così complesso, se non fosse ancorato all’ontologia del Tempo ciclico. È proprio in virtù della struttura ciclica che possiede − indubbiamente il suo aspetto più viscerale − che l’archetipo vegetale, il quale sottende al destino del Dio, può entrare in simbiosi con gli altri archetipi a esso attinenti (Luna, Terra, Acqua, Madre, Morte, Fecondità, Rigenerazione). Di importanza primaria, pertanto, non è la vegetazione di per sé – ad esempio, sotto forma di Seme o Pianta concepiti isolatamente e staticamente – bensì il tempo in cui la manifestazione della forza vegetale si realizza, ossia «l’atto iniziale, mitico, della rigenerazione [...] della natura e il principio di una vita nuova, cioè la ripetizione periodica di una nuova Creazione»10.

Trattando l’importanza del Tempo ciclico, Eliade afferma che «il primordiale e l’essenziale è l’idea di rigenerazione, cioè di ripetizione della creazione»11. Il termine «creazione», in tale prospettiva, si lega alla parola «cosmogonia», una delle manifestazioni dell’Essere rette dal simbolismo del Tempo ciclico. Infatti, sottolineiamo che il destino della pianta (e del Dying and Rising God, che lo rispecchia) non è che una ierofania del Tempo ciclico – ossia, la sua «versione agricola». La religiosità arcaica non è affatto «naturalistica»12: difatti, «non fu la comparsa reale della primavera a creare il rituale della vegetazione»13, bensì la portata simbolica della stagione primaverile in quanto ripetizione di un «atto archetipale», la «rinascita della Natura», il «rinnovamento della vita», il «ricominciamento» – vale a dire, la Creazione o l’atto cosmogonico, ex novo.

9 M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, op. cit., pp. 298-299. 10 Ivi, pp. 298-300.

11 M. Eliade, Il Mito dell’eterno ritorno, op. cit., p. 89. 12 M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, op. cit., p. 353. 13 Ivi, p. 296.

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Il ciclo vegetale, che si ripete di anno in anno, può correlarsi dunque all’atto cosmogonico, sebbene quest’ultimo sia avvenuto una singola volta, nella notte dei tempi. Per dimostrarlo, indaghiamo più a fondo – al di là della sfera prettamente agraria – sulla ragione recondita per la quale il Tempo ciclico ha tanto inciso sull’immaginario dell’uomo arcaico.

Non diversamente dai miti lunari, dai miti solari, e dai riti a essi collegati – come il sacrificio cruento – i miti agrari si sono sviluppati come risposta a una vera e propria «ossessione ontologica»14 dell’uomo primitivo e arcaico: quella di «dominare il tempo»15. L’attività agricola può costituirne un esempio pratico: si è già menzionata la possibilità di una genesi «religiosa», «mentale», «simbolica» della pratica stessa dell’agricoltura in quanto controllo e condizionamento dei cicli agrari. Ciò altro non significa che farsi creatore/produttore, e dunque intervenire, in qualche misura, sul tempo, in due modi: o cooperando al ciclo vitale delle piante, o eventualmente allungando il proprio tempo umano vitale, migliorando la qualità del proprio sostentamento e assicurandosi nutrimento sicuro.

L’uomo arcaico interverrebbe sul Tempo ogni volta che compie l’«atto archetipale» dell’agricoltura, così come quelli della caccia, della raccolta e della pesca, ovvero qualsiasi attività arcaica16, in quanto ognuna di tali attività sarebbe la «ripetizione o imitazione di un archetipo»17. La tendenza dell’uomo a «dominare il tempo» infatti, coincide con il suo incessante bisogno e sforzo di «diventare un archetipo»18 egli stesso, in tal caso mimando degli «avvenimenti esemplari»19, ossia le attività archetipiche inaugurate sulla terra dagli dèi o da eroi civilizzatori20.

Occorre, a questo punto, operare una distinzione tra tipologie di tempo. Premettiamo che il concetto di Tempo è indubbiamente «fra i più ardui della fenomenologia religiosa»21. Eliade ha distinto due tipi di tempo. Il primo è un

14 M. Eliade, Il Sacro e il profano, op. cit., p. 62.

15 G. Durand, Le Strutture antropologiche dell’immaginario. Introduzione all’archetipologia generale, op. cit., p. 348.

16 Cfr. M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, op. cit., p. 357. 17 M. Eliade, Il Mito dell’eterno ritorno, op. cit., p. 55.

18 Ibidem. 19 Ivi, p. 119.

20 Cfr. M. Eliade, Il Sacro e il profano, op. cit., p. 63. 21 M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, op. cit., p. 351.

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tempo minore, detto «tempo profano», o più propriamente «durata profana»22: esso è il tempo dell’uomo, del quotidiano, della storia, del divenire. Il secondo è il grande e assoluto «Tempo sacro»23, il quale è un Tempo mitico, primordiale e cosmogonico, eppure circolare e ripetibile: esso sarebbe da collocarsi, in realtà, fuori dal prosaico e disincantato «tempo» umano, dalla nozione di «durata», risultando un «presente eterno»24, una dimensione astorica, un Tempo al di là del tempo.

Nel Tempo sacro «hanno luogo» i miti: la temporalità mitologica è di ben difficile comprensione senza un minimo di astrazione. Si è soliti pensare che i miti siano avvenuti nella dimensione temporale del passato, in illo tempore, dacché molti di essi possiedono una finalità eziologica – quella di spiegare il perché molte forme del reale e del concreto siano come di fatto esse sono e come le contempliamo nel presente. In realtà, la dimensione del mito è da situarsi «fuori» dal tempo umano – «per il mito non c’è un tempo»25 – ossia nel Tempo sacro, che è il Tempo mitico per eccellenza, una sorta di eternità, un solo tempo26. Se in principio, ossia nel Tempo sacro, «gli Esseri divini svolgevano la loro attività sulla Terra»27, lasciandone tracce, significa che il Tempo sacro non è affatto da identificarsi con un passato irrecuperabile.

L’uomo, nel corso del suo tempo profano, può (e vuole) aprire degli squarci sul Tempo sacro, ripetendolo, restaurandolo e riattualizzandolo. Ciò può avvenire «in qualsiasi momento»28: più precisamente, ogni volta che l’uomo compie degli atti rituali, paradigmatici, simbolici, archetipici, dalle occupazioni primordiali esposte sopra (caccia, pesca, raccolta, agricoltura) ai grandi riti di passaggio come la nascita e l’iniziazione, le nozze e i funerali, tutti concernenti il ciclo dell’uomo29. Per tale motivo, anche i rituali legati ai miti del Dying and Rising God − dalle misteriose cerimonie sciamaniche a Çatal Hüyük ai Misteri eleusini, fino alle feste del fuoco europee − sono manifestazioni tramite le quali il Tempo mitico viene

22 Ibidem. 23 Ibidem. 24 Ivi, p. 357.

25 E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, Firenze, La Nuova Italia, 1984, vol. II, p. 155. 26 Cfr. ivi, p. 153.

27 M. Eliade, Il Sacro e il profano, op. cit., p. 61.

28 M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, op. cit., p. 360.

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«riproposto» (più che «rievocato», termine che comporterebbe un dualismo temporale) e «reso presente» 30 ; l’«atto archetipico» non viene, dunque, semplicemente «riprodotto» – come mera «copia» dell’unico paradigma passato – ma avviene attivamente nel momento stesso in cui esso viene compiuto.

Ogni volta che si verifica la ripetizione dell’«atto archetipico» – che è di fatto una creazione, la chiave di volta del Tempo ciclico – ci si può sentire catapultati nell’ «istante mitico dell’Inizio»31. In tal modo, il tempo profano (o la durata profana) perde sostanzialità e viene sospeso; l’uomo si ritrova trasportato nel Tempo sacro e mitico, rendendosi «uguale agli dèi»32, trasformandosi egli stesso in un archetipo, divenendo «contemporaneo all’Illud Tempus»33. In virtù di questa magica abolizione del tempo, che annulla il «dolore della storia», l’uomo avverte la necessità continua e incalzante di ripristinare periodicamente il Tempo mitico: la nostalgia dell’origine, dell’epoca transumana, dell’astorico paradiso del presente eterno, lo spinge a ricercarlo e a darsi da fare per riproporlo, annullando o purificando periodicamente la durata profana e «addomesticando il divenire»34. Tali momenti chiave di retrocessione nel non-tempo, che si ripetono ciclicamente – i momenti di «festa» annuale sono i primi a esservi inclusi35 – contribuiscono alla «svalorizzazione» del tempo stesso, della durata profana, la quale non esiste più, giacché purificata e scacciata ogni volta che l’uomo ritorna all’archetipo36.

Dal discorso appena compiuto, potrebbe sembrare poco chiaro come la ripetizione intenzionale di un gesto archetipico si possa correlare a un mito che ripropone il ciclo delle piante. Si ricordi, però, che il compimento di un «atto archetipico»37 equivale al ripristino del tempo iniziale, del principio, dell’origine. Ciò che si compie attraverso un rituale, e che richiama un mito, pone magicamente fine a un’epoca (un ciclo) per inaugurarne una nuova, per ricominciare tutto d’accapo, e non per riprendere da dove si era interrotto: tutto

30 M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, op. cit., p. 355. 31 M. Eliade, Il Mito dell’eterno ritorno, op. cit., p. 56. 32 M. Eliade, Il Sacro e il profano, op. cit., pp. 57-60. 33 Ivi, p. 54.

34 G. Durand, Le Strutture antropologiche dell’immaginario. Introduzione all’archetipologia generale, op. cit., p. 347.

35 Cfr. M. Eliade, Il Sacro e il profano, op. cit., pp. 57-60. 36 Cfr. M. Eliade, Il Mito dell’eterno ritorno, op. cit., p. 114. 37 Ibidem.

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così ritorna purificato e giovane, rinasce, rifiorisce, risorge. Ogni momento in cui l’uomo riattua il Tempo sacro mediante la riproduzione di un «atto archetipico» è, letteralmente, il momento in cui la linea curva del Tempo ciclico raggiunge il capo, per concludere il circolo e ricominciare a scorrere ex novo. Se un «atto archetipico» costituisce il passaggio da una fase antica a una nuova e incarna la soglia della transizione dall’una all’altra, possiamo allora identificarlo con un autentico «atto cosmogonico», e pertanto con una nuova Creazione: questa è isomorfa, anzi identica, alla Creazione assoluta che ci fu in principio; non c’è alcuna gerarchia o differenza qualitativa tra le due.

Il dramma vegetale del Dying and Rising God è ciclico: c’è una prima fase di splendido rigoglio, una seconda fase di caos − in cui egli patisce peripezie decadendo −, causa del nefasto incedere della «durata profana», e muore discendendo; e, infine, una terza fase in cui egli ritorna alla vita, riprendendo il proprio ciclo dall’inizio. La seconda fase è quello della morte temporanea, tanto distruttiva quanto costruttiva: è il momento su cui pongono l’attenzione i rituali ispirati al Mito del Dying and Rising God: le strazianti lamentazioni per Dumuzi/Tammuz ne sono un esempio; le cerimonie lamentose e licenziose durante i Misteri eleusini ne sono un altro; la controparte nordica di tali riti, ispirata al mito di Balder, potrebbe essere costituita dalle cerimonie legate al rogo degli alberi in una vasta area dell’Europa nord-orientale38. In ogni caso, si tratta di atti apparentemente apocalittici e segni di una tragicità irreversibile – aspetto negativo che si è conservato, esso solo, nell’escatologia cristiana – quali pianti, disordine sessuale e annichilimenti tramite fuoco.

La terza fase – quella della rinascita – è il ritorno alla luce, alla vita e al principio, una nuova nascita, che coincide proprio con la prima fase positiva e senza conflitti, ossia l’inizio del Ciclo. Tale ritorno all’origine aurorale offre un senso alla fase, altrimenti buia e catastrofica. In termini lunari, la terza fase vede la falce della luna che ricresce, e non rende inutili i tre giorni di luna nera, fase della gestazione39. In termini vegetali, la terza fase è quella il cui il Dying and Rising God ritorna uguale a se stesso, come se non fosse mai morto: la Creazione

38 Cfr. J. G. Frazer, Il Ramo d’oro. Studio sulla magia e sulla religione, op. cit., pp. 717-718;

M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, op. cit., pp. 305-307.

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è una rinascita da se stesso, dalle proprie stesse «ceneri», sicché ogni apparente linea di successione si rivela in realtà un cerchio di identità.

La seconda fase, la fase buia, può essere denominata anche «fase del paradosso»: essa è infatti la fase del Caos e al tempo stesso la fase dell’Uno-Tutto; proprio per questo essa è anche la fase del Regressus ad uterum, del ritorno al Principio, in cui non c’erano distinzioni tra entità plurali, opposte o molteplici che fossero. Come si chiarirà in seguito40, tale tappa è isomorfa alla fase della luna nuova o nera, che è il rovesciamento speculare della luna piena, uguale e opposto a essa.

Oltre che della morte, la seconda fase è quella dell’Eros: ciò verrà approfondito a breve, indagando i mitologemi della Catabasi e della Ierogamia, archetipicamente coincidenti41: essi costituiranno sempre, insieme al Tempo ciclico una costellazione coerente. Infatti, nel momento dell’Unione «la coppia ritorna al tempo mitico primevo»42, «alla totalità primordiale»43: ciascuno dei due membri della coppia «muore» per un istante onde partecipare a un’Unità (aspetto del Thanatos), e compie nel contempo una Creazione, quella della prole, del Figlio. Così, «l’archetipo del Figlio e i rituali del ricominciamento temporale si integrano nello schema ritmico del ciclo»44: il Figlio, indistinto dallo Sposo, incarna la terza fase. A proposito dell’unione dei corpi nella Ierogamia, si ricordi che, prima ancora che dal frutto dell’Eros (il Figlio) – che costituisce già la terza fase –, il Regressus al Principio e all’Uno-Tutto è rappresentato dall’Androgino, carattere memore dell’antica unità preservato nel Dying and Rising God45, costituito da Maschile e Femminile inestricabilmente congiunti in un solo corpo. L’Androgino replica l’emblematica unità caotica della seconda fase, dello stadio «chiave» del Tempo ciclico: nella diade androgina le «due fasi del ciclo» − nonché tutto ciò che sia «plurale», «molteplice» − sono legati tra di loro, sicché si compie la totalizzazione lunare di parte e tutto46.

40 Cfr. infra, par. 2.3. 41 Cfr. infra, par. 2.2.

42 M. Eliade, La Nostalgia delle origini, op. cit., p. 94. 43 Ivi, p. 95.

44 G. Durand, Le Strutture antropologiche dell’immaginario. Introduzione all’archetipologia generale, op. cit., p. 386.

45 Cfr. infra, par. 2.3. 46 Cfr. ibidem.

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L’Uno-Tutto che si concretizza nella seconda fase procura una spiegazione anche a rappresentazioni che risultano, ai nostri moderni occhi, alquanto bizzarre e perturbanti: le figure «ibride» di maschio e femmina (per l’appunto, l’Androgino), di uomo e pianta (il cosiddetto tema dell’«uomo Verde»47), nonché, soprattutto in età preistorica, di uomo e animale. L’esistenza di creature terioantropomorfe ‒ in cui i confini tra Uomo e Bestia si fanno labili, vengono violati e non si distinguono più ‒ è motivata, in una maniera analoga all’archetipo dell’Androgino, dal tetro Caos che precede la Creazione che caratterizza la seconda fase del Ciclo, di Morte e di gestazione, di sepolcro e di utero.

Per tale motivo non devono stupirci, specialmente nell’«ingenua» arte preistorica, né la presenza di innumerevoli soggetti iconografici ibridi (ferini e umani), né la presenza di rapporti di filiazione, tra la Donna e la Bestia. Ciò offre un’interpretazione abissale del «triplice rapporto della luna con gli animali»48:

Tutti gli animali, come tutte le piante, sono suscettibili di simboleggiare il dramma o semplicemente lo svolgimento del divenire agro-lunare. Lo schema ciclico eufemizza l’animalità49.

Per la medesima ragione che giustifica tale ibridismo perturbante50 – il caos totalizzante e primevo della seconda fase del Ciclo – possiamo trovare una spiegazione archetipica e simbolica alla pratica rituale dell’orgia, diffusissima nei riti legati al Ciclo agrario (nei Misteri eleusini, nelle feste agrarie europee, e probabilmente anche nelle cerimonie di Çatal Hüyük) nonché, indirettamente, nei miti agrari del Dying and Rising God (si pensi allo stupro di Kore, alla sessualità sconfinata di Inanna/Ishtar). Essa è una forma pluralizzata di Ierogamia: l’orgia pone attenzione al concetto esteso di «plurale», mentre il Matrimonio Sacro al