II. CRITICISMO E ONTOLOGIA.
II.3. L’auto-affezione.
Per iniziare volgiamo ancora lo sguardo alla Confutazione
dell‟idealismo. Come già accennato, in questa sezione Kant vuol
confutare alcuni possibili fraintendimenti della sua dottrina, di questi l‟accusa più ricorrente, e quindi quella che viene più largamente discussa, è quella di idealismo (tale posizione viene esplicitamente chiamata in causa con il nome di “idealismo materiale” per distinguerlo da quello trascendentale, la cui natura è ben diversa, tematizzato nella critica). Se così fosse, infatti, anche per la filosofia kantiana si darebbe una preminenza dell‟esperienza interna, preminenza ontologica che renderebbe conseguentemente problematico lo status e la realtà dell‟esperienza esterna e del mondo al di fuori del soggetto86.
86 Kant definirà proprio così l’idealismo come posizione filosofica da cui intende differenziarsi (prendendo anche le distanze dai quelli che erano ritenuti i suoi due maggiori rappresentanti, cui spesso la sua filosofia era polemicamente accostata): “l’idealismo (alludo qui all’idealismo materiale) è la teoria che considera l’esistenza degli oggetti nello spazio fuori di noi o semplicemente dubbia e indimostrabile o falsa e impossibile; il primo è quello problematico di Cartesio, il quale ritiene indubitabile solo un’asserzione (assertio) empirica e precisamente questa: «io sono». Il secondo è l’idealismo dogmatico di Berkeley, che considera lo spazio, assieme a tutte le cose cui esso è inerente quale condizione inseparabile, come alcunché di impossibile in sé stesso e ritiene perciò che anche le cose nello spazio siano semplici immaginazioni.” KrV B 274.
61 Il problema dell‟idealismo è, quindi, quello dello spazio, del rapporto fra senso interno e senso esterno. Kant individua due tipologie di idealismo materiale: quello radicale di Berkeley e quello problematico di Cartesio: del primo ritiene di essersi già facilmente sbarazzato con l‟esposizione della tesi dell‟idealità trascendentale dello spazio87, mentre il secondo, data la sua natura non dogmatica (si limita, infatti, a problematizzare la questione dell‟esistenza del mondo esterno), non può essere liquidato così facilmente e necessita di una risposta approfondita. La Confutazione, quindi, ha senz‟altro una funzione polemica, ricordiamo che gli argomenti sopra accennati costituivano il sottotesto dell‟argomentazione critica di Jacobi, ma è anche ben più di questo: è un ripensamento delle tematiche della Deduzione trascendentale, o quantomeno
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La questione è assai nota: Kant si inserisce nella diatriba, molto sentita al tempo, sull’idealità o realtà dei concetti di spazio e tempo, che rispecchiava la contrapposizione fra i sostenitori della filosofia leibiniziana e di quella newtoniana. Il padre del criticismo ritiene di esser riuscito a sanare questo dibattito aporetico in virtù della nuova prospettiva trascendentale da lui acquisita. Da questo punto di vista spazio e tempo risultano sia ideali che reali, cioè (come afferma relativamente al concetto di spazio che è quello che qui più ci interessa): “le nostre delucidazioni ci insegnano pertanto la realtà (cioè la validità oggettiva) dello spazio, relativamente a quanto ci si può presentare esteriormente come oggetto; ma, nello stesso tempo, anche l’idealità dello spazio, relativamente alle cose, qualora vengano dalla ragione considerate in sé stesse, cioè a prescindere dalla natura della nostra sensibilità. Noi sosteniamo dunque la realtà empirica dello spazio […] e tuttavia la sua idealità trascendentale …” KrV A 27-28 B 44.
62 una sottolineatura ed una precisazione di alcune fondamentali sfumature teoretiche che, nel contesto della Deduzione, rischiavano di non esser sufficientemente precisate.
La Deduzione trascendentale, infatti, costituisce il nucleo teoreticamente più denso della critica e non a caso, per ammissione dello stesso autore, ha rappresentato lo scoglio più duro da affrontare nella sua stesura88. Qui Kant, vuol fondare la validità oggettiva delle categorie, cioè mostrare come il nostro intelletto, nonostante l‟apriorità dei suoi concetti, possa aver presa sull‟esperienza e persino, proprio in virtù di tale status della sua concettualità, risultarne legislatore. Dopo avere presentato la tavola delle categorie Kant conclude che esse vanno riconosciute “come condizioni a priori della possibilità dell‟esperienza (sia dell‟intuizione che si trova in essa, sia del pensiero)”89. L‟oggetto, quindi, non può mai darsi se non entro l‟orizzonte dell‟esperienza possibile delineato dalle categorie, il
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Proprio a questa complessità sono da imputare le ripetute procrastinazioni nella pubblicazione del testo; complessità della quale Kant non riuscì a venire completamente a capo neanche dopo la prima pubblicazione, se è vero che tale sezione è quella che è stata maggiormente rielaborata fra la prima e la seconda edizione.
63 quale determina la costituzione dell‟oggetto in generale90. Per cui il semplice molteplice delle rappresentazioni, in sé disperso91, può manifestarsi come congiunto in un oggetto solo sul fondamento della congiunzione di un oggetto in generale92 che può esser soltanto frutto della spontaneità dell‟intelletto. L‟oggetto, come il frutto di qualsiasi altro atto di congiunzione, perciò si dà solo sulla base di un atto sintetico dell‟intelletto, che risulta originario. Ma tale congiunzione generale può darsi solo sulla base di un‟unità ancora più originaria, più in alto delle categorie (che presuppongono la congiunzione93): nell‟unità
sintetica originaria dell‟appercezione. Kant sottolinea come “l‟io
penso debba poter accompagnare tutte le mie
90 Kant, infatti, dirà: “Esse [le categorie] sono concetti di un oggetto in generale, mediante i quali l’intuizione di esso è considerata determinata rispetto ad una delle funzioni logiche del giudicare.” KrV B 128.
91 Kant accenna qui, come termine di contrapposizione il molteplice delle rappresentazioni, il quale può darsi all’intuizione, intesa come mera recettività, senza coinvolgere l’intelletto. Ciò è, a mio parere, frutto di una tendenza, che si può riscontrare in molti punti della critica e le cui motivazioni approfondiremo successivamente, a radicalizzare, per fini esplicativi, la differenza fra sensibilità ed intelletto. Il presentare tale opposizione come quella fra una mera ricettività ed una pura spontaneità, infatti, dicotomizza eccessivamente la loro originaria interrelazione e non permette alla fenomenologia dell’esperienza kantiana di emergere in tutta la sua complessità e stratificazione.
92 KrV B 129. 93 KrV B 131.
64 rappresentazioni”94, cioè come la possibilità di ogni rappresentazione passi necessariamente per il legame con un atto di autocoscienza. Proprio l‟attestazione dell‟appartenenza ad una coscienza, la mia, implica che queste rappresentazioni debbano sottostare alle condizioni per le quali possono raccogliersi in un‟autocoscienza in generale: le leggi della possibilità dell‟esperienza.
Da questi elementi il paragone con Cartesio potrebbe apparire tutt‟altro che inopportuno: non abbiamo qui a che fare con una coscienza che risulta fondativa, quindi primigenia, rispetto alla possibilità dell‟esperienza esterna e di un mondo in generale? La scelta di utilizzare l‟espressione “io penso”, che richiama alla mente il cogito cartesiano, non è solo un‟ulteriore conferma di ciò?
L‟io penso, però, non è una rappresentazione prodotta da un‟autocoscienza di tipo psicologico del riconoscimento di un‟identità personale (che Kant chiama appercezione empirica) ma è un prodotto dell‟appercezione pura od originaria. Vediamo,
65 perciò, come sia grandissima la distanza da Cartesio, arrivando quasi a poter essere definita un‟opposizione95, quello al centro della riflessione kantiana è un Io inteso come pensiero, come attività fondamentalmente diverso da un Io come oggetto di conoscenza di sé stessi che, come ogni conoscenza possibile, ha una natura fenomenica96. Ma l‟io penso non è ancora l‟appercezione trascendentale, è, invece, una rappresentazione prodotta (di volta in volta, come un‟etichetta, una bolla di accompagnamento) da quest‟ultima che, permettendomi di poter chiamare “mie” le rappresentazioni con cui ho a che fare, mi rende cosciente di un atto di sintesi, che avviene a priori ed è più originario. Tale sintesi è quella operata dall‟intelletto che determina (Kant dirà che affétta internamente) il senso interno, riconducendo il molteplice empirico all‟unità originaria
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E’ ciò che fa notare La Rocca nel suo saggio sulle rappresentazioni oscure (L‟intelletto oscuro.
Inconscio e autocoscienza in Kant. in Leggere Kant. op. cit.), al quale rimando per una trattazione
più ampia della tematica dell’appercezione trascendentale: nonostante nella Critica della ragion pura Kant non approfondisca la distinzione, da altri testi, come le Lezioni di antropologia dell’inverno 1784/85 [Anthropologie Mrongovius], non solo troviamo chiaramente sviluppata la distinzione fra coscienza psicologica e coscienza trascendentale ma, per di più, le due tipologie di coscienza sembrano in opposizione fra loro, nel senso che la presenza dell’una comporta la diminuzione dell’altra.
96 Tale differenza fra l’io empirico e quello trascendentale si delinea chiaramente nel § 24, dove Kant ha premura di chiarire un paradosso che apparentemente si dava relativamente allo status del senso interno.
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dell‟appercezione, cioè alle regole dell‟esperienza possibile. La
possibilità della conoscenza introspettiva, quindi, si fonda su un atto sintetico dell‟intelletto che coinvolge il molteplice empirico.
Effettivamente, quindi, vediamo confermato che quella che poteva sembrare una posizione fortemente cartesiana, finisce per rivelarsi il suo esatto contrario97: l‟esperienza interna non risulta affatto primaria; la conoscenza di sé e quella del mondo esterno risultano, invece, co-originarie, parallelamente fondate sulla base delle condizioni dell‟appercezione trascendentale. Quello che kantiano è un io che si conosce nell‟atto di confrontarsi cognitivamente con il mondo. Senza il rapporto intenzionale con l‟oggetto esterno, quindi, non si darebbe la necessità di nessuna sintesi e, di conseguenza, non si darebbe la possibilità di nessuna autocoscienza psicologica. L‟autocoscienza trascendentale è, perciò, di tipo intenzionale, ma in un senso particolare: essa infatti, “non è un atto puntuale di
relazione di un singolo stato ad un singolo oggetto, ma è
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Potremmo dire che Kant, distinguendo fra un io empirico ed uno logico (o trascendentale) scinde il cogito cartesiano (inteso come coscienza immediata e contemporaneamente conoscenza più certa) attribuendo le sue peculiarità a due diversi lati dell’io. Presenta, infatti, un lato di cui sono immediatamente consapevole (ma solo come generica attività) ed un lato di cui ho conoscenza (ma solo in maniera mediata, come per un qualsiasi fenomeno).
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originariamente complessa, ossia presuppone la costituzione di un
intero mondo conoscibile da una coscienza: presuppone la dimensione che Kant chiama dell‟«esperienza possibile»”98. Se il riferimento all‟autocoscienza significa la riconduzione alle regole trascendentali di una coscienza in generale, allora, ed è questo il tema principale del saggio di La Rocca, non è necessario, paradossalmente, che l‟appercezione originaria sia autocosciente (nel senso psicologistico). Possono darsi, cioè, tutta una serie di rappresentazioni oscure, il cui ruolo nella dinamica cognitiva è fondamentale, che non risultano consce ma appartengono comunque all‟unità originaria dell‟appercezione. Kant, infatti, a proposito dell‟io penso, dirà semplicemente che “deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni”, indicando con ciò una possibilità necessaria e non una necessità fattuale. Ciò che si vuol affermare è semplicemente che ogni contenuto rappresentativo deve poter essere ricondotto alla struttura universale di una coscienza e quindi deve poter essere pensato nell‟ambito di un atto autocosciente, cioè devo (solo in
98 C. LA ROCCA, L‟intelletto oscuro. Inconscio e autocoscienza in Kant. in Leggere Kant., op. cit.
68 linea di principio) poter chiamare “mia” ogni mia rappresentazione.
Il compito della Deduzione trascendentale è, come è stato ripetutamente sottolineato, quello di fondare l‟oggettività dei concetti trascendentali e, quindi, anche dell‟esperienza fenomenica in generale. In conclusione, infatti, vediamo come i due ambiti formali nei quali è possibile pensare l‟oggetto (sensibilità ed intelletto, stabiliti rispettivamente nell‟Estetica e nell‟ Analitica trascendentale) siano necessariamente interconnessi, perché se è vero che “non ci è possibile pensare alcun oggetto se non per mezzo di categorie – d‟alto lato – non ci è possibile conoscere un oggetto pensato, se non per mezzo di intuizioni corrispondenti a quei concetti. Ma ogni nostra intuizione è sensibile e la conoscenza, essendo il suo oggetto dato, è empirica. La conoscenza empirica è però esperienza. Ne segue, dunque, che per noi non è possibile alcuna conoscenza a priori che non sia conoscenza di oggetti d‟esperienza possibile”99. Se il riferimento all‟autocoscienza significa la
69 riconduzione alle regole trascendentali di una coscienza in generale, allora, ed è questo il tema principale del saggio di La Rocca, non è necessario che l‟appercezione originaria sia autocosciente (nel senso psicologistico). Possono darsi, cioè, tutta una serie di rappresentazioni oscure, il cui ruolo nella dinamica cognitiva è fondamentale, che non risultano consce ma appartengono comunque all‟unità originaria dell‟appercezione. Kant, infatti, a proposito dell‟io penso, dirà semplicemente che “deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni”, indicando con ciò una possibilità necessaria e non una necessità fattuale. Ciò che si vuol affermare è semplicemente che ogni contenuto rappresentativo deve poter essere ricondotto alla struttura universale di una coscienza e quindi deve poter essere pensato nell‟ambito di un atto autocosciente, cioè devo (solo in linea di principio) poter chiamare “mia” ogni mia rappresentazione.
Il compito della Deduzione trascendentale perciò, alla fine coinciderà con la fondazione della conoscenza fenomenica tout
70 aver, infatti, fondato separatamente questi due ambiti formali nei quali si può pensare un oggetto (rispettivamente nell‟Estetica e nell‟Analitica trascendentale) in questa sede viene stabilita la loro interconnessione necessaria, infatti: “non ci è possibile pensare alcun oggetto se non per mezzo di categorie; e non ci è possibile conoscere un oggetto pensato, se non per mezzo di intuizioni corrispondenti a quei concetti. Ma ogni nostra intuizione è sensibile e la conoscenza, essendo il suo oggetto dato, è empirica. La conoscenza empirica è però esperienza. Ne segue, dunque, che per noi non è possibile alcuna conoscenza a priori che non sia conoscenza di oggetti d‟esperienza possibile”100.
Tutti gli argomenti trattati in questo lungo excursus riguardano, da diversi lati, la tematica dell‟esperienza. Dire che abbiamo a che fare solo con fenomeni, infatti, non significa limitare la conoscenza umana alla conoscenza di simulacri, né rinchiuderla nella sfera di un dialogo solipsistico fra il soggetto e le sue immagini. L‟esistenza degli oggetti fuori di noi, a
71 conferma di ciò, trascende la sfera della soggettività (anche intesa nel suo senso particolare di soggettività trascendentale) e non risulta mai necessariamente deducibile dai concetti della nostra mente ma sempre e solo attestabile empiricamente. E‟il dialogo effettivo con l‟oggetto, la dimensione del rapporto intenzionale con esso a risultare, a dispetto di quanto possa sembrare ad una prima impressione, originario. L‟atto di determinazione del senso interno, dal quale passa ogni conoscenza possibile, necessita contestualmente di una contemporanea determinazione del senso esterno. L‟identità più vera del dialogo fra soggetto e mondo risulta quella di un‟attività, di un atto intenzionale rivolto all‟esterno.
Per questo motivo l‟analisi kantiana dell‟intelletto puro non potrà mai configurarsi come un‟ontologia101: perché “l‟intelletto
101 Quantomeno nel suo senso tradizionale, quello, cioè, a cui si riferisce nel passo riportato. E’ significativo, vedremo, come in un contesto diverso, nell’Architettonica (dove i legami con la tradizione metafisica sono stati ampiamente mostrati) si esprima in maniera diametralmente opposta. Nel corso della sua classificazione dicotomica delle conoscenze, infatti, dice: “La metafisica, in senso stretto, risulta costituita dalla filosofia trascendentale e dalla fisiologia della ragion pura. La prima si limita a studiare l’intelletto e la ragione nel sistema di tutti i concetti e di tutti i principi concernenti oggetti in generale, senza assumer oggetti che debbano esser dati (ontologia)…” (KrV A 845 B 873). Ciò risulta utile non tanto ad indicare una contraddizione nel pensiero kantiano (nel primo caso si rifiuta l’ontologia come sistema di conoscenze già strutturato, l’ontologia del wolfismo, nel secondo caso ci si riferisce al campo di indagine della disciplina, al suo concetto) quanto a rivelare ancora quell’oscillazione terminologica tipica del filosofare kantiano che, oltre a necessitare di un chiarimento per non condurre ad interpretazioni errate, è sintomo di un nodo problematico da indagare.
72 non può mai varcare i confini della sensibilità, nel cui ambito soltanto ci vengono dati gli oggetti. I principi di cui è in possesso non sono altro che principi dell‟esposizione dei fenomeni e il nome risonante di ontologia, che pretende dare in una teoria sistematica conoscenze sintetiche a priori delle cose in generale (ad esempio, il principio di causalità) deve cedere il posto a quello modesto di una semplice analitica dell‟intelletto puro”102.
Ma la centralità della dimensione empirica non si esaurisce qui, al termine della Deduzione, infatti, Kant farà un‟importantissima precisazione. Ci mostrerà come le stesse categorie forniscano soltanto la forma di una natura in generale, ma non siano in grado di render conto pienamente delle leggi empiriche particolari, nonostante quest‟ultime debbano sottostare comunque alle condizioni trascendentali che esse rappresentano103. Poco dopo, infatti, incontriamo una riflessione
102 KrV A 246-47 B 303.
103 “Ma nemmeno la facoltà pura dell’intelletto è in grado di imporre, mediante le categorie, leggi a priori ai fenomeni, al di là di quelle su cui poggia una natura in generale, quale conformità a leggi dei fenomeni nello spazio e nel tempo. Le leggi particolari, riguardando fenomeni empiricamente determinati, non possono essere totalmente ricavate dalle categorie, pur sottostando ad esse in ogni caso. Occorre l’intervento dell’esperienza perché si possa, in generale, giungere a conoscere quest’ultime […]” KrV B 165.
73 sul rapporto fra l‟esperienza ed i concetti puri dell‟intelletto (cioè i concetti dei suoi oggetti, come dirà testualmente) nella quale accenna esplicitamente ad un sistema dell‟epigenesi della
ragion pura, per il quale: “le categorie contengono, dal lato
dell‟intelletto, i fondamenti della possibilità di ogni esperienza in generale. Ma come esse rendano l‟esperienza possibile, e quali principi esse ci offrono circa la sua possibilità nella loro applicazione ai fenomeni, verrà più ampiamente chiarito nel capitolo seguente che tratta dell‟uso trascendentale del giudizio”104.
Nel cuore, quindi, di quell‟Analitica trascendentale che costituisce la parte più innovativa, riflettuta e studiata dell‟opera (secondo alcuni persino l‟unica veramente scientifica e degna di nota) incontriamo ancora il concetto di epigenesi. In questa sede Kant lo utilizza per evidenziare come l‟orizzonte trascendentale non sia dato con la fondazione delle forme pure della sensibilità e delle categorie, ma richieda una ulteriore specificazione. Essa consisterà, in questo caso, nell‟esposizione
74 della Dottrina trascendentale del giudizio (con lo Schematismo dei
concetti puri dell‟intelletto ed il Sistema di tutti i principi dell‟intelletto puro). In ogni caso il movimento descritto dalla
dinamica epigenetica è il medesimo: quello dell‟apertura di un sistema, quello categoriale kantiano, che appariva come la struttura più completa ed autoreferenziale possibile e la sua trascendenza verso una sfera ulteriore (in questo caso quella del Giudizio). Nostro compito sarà appunto quello di mostrare come la sfera della fenomenologia empirica kantiana acquisti una complessità ed una profondità sempre maggiori, servendoci, come stimolo della problematica dell‟esperienza concreta e come guida del Giudizio.
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III. GIUDIZIO, ANALOGIA, ESPERIENZA.
Nel 1783 Kant si trovava pienamente coinvolto nel dibattito sulle tesi esposte nella Critica della ragion pura (la cui prima edizione risale al 1781); l‟opera non fu immediatamente recepita in maniera positiva dalla comunità culturale, infatti, quando non venne ignorata, si trovò al centro di ripetuti attacchi polemici. Se ciò non deve sorprendere (dato l‟impatto rivoluzionario sul panorama filosofico, che farà protrarre per molti anni il dibattito sul criticismo, nonostante la sua progressiva affermazione come posizione filosofica dominante nel mondo germanico), fu comunque sufficiente perché Kant si convincesse progressivamente che il suo lavoro, necessariamente ostico per la natura della materia trattata, necessitasse di un libello introduttivo e, successivamente di una vera e propria riedizione105.
105
La seconda edizione della Critica è del 1787. Non è questa la sede di sottolineare le differenze fra le due edizioni, data l’ampiezza e l’importanza dell’argomento (sul quale, peraltro, la letteratura a disposizione è molto vasta). Sommariamente possiamo evidenziare come l’intento kantiano sia stato quello di cautelarsi ulteriormente dalle possibili accuse di aver sostenuto un idealismo psicologistico. Per questo riscrive interamente la sezione sui Paralogismi della ragion
76 In quest‟anno, perciò, pubblica i Prolegomeni ad ogni metafisica
futura che vorrà presentarsi come scienza, con il fine dichiarato di
fungere da introduzione ad un libro (la Critica della ragion pura) che si presenta come “[…] arido, perché è oscuro, perché contraddice a tutti i concetti correnti e per di più è prolisso – oscurità cui i Prolegomeni hanno il compito di porre rimedio, nonostante essa non sia una pecca facilmente eliminabile dal