Problemi di fattibilità delle politiche di social housing di Giuseppe Fioran
1. L’edilizia residenziale pubblica e il suo esaurimento
1945. Finisce la Seconda Guerra Mondiale e la gran parte dei Paesi europei avvia la ricostruzione. In Italia i vani di abitazioni civili distrutti o danneggiati gravemente erano circa tre milioni, pari a circa il 10% della disponibilità totale esistente prima della guerra – e almeno altrettanti erano i vani danneggiati in una qualche misura; anche in Francia il 20% delle abitazioni era distrutto o danneggiato, e in Germania il 20% delle case di abitazione era andato completamente distrutto. I trent’anni che seguono sono considerati l’età dell’oro del social housing, in termini di quantità ma anche di qualità (Whitehead e Scanlon, 2008): il modello che si afferma è quello del social housing “di massa”, che si rivolge non solo ai poveri e al proletariato, ma anche al ceto medio, agli impiegati statali e ai cosiddetti “key-workers” – cioè coloro che svolgono un servizio di pubblica utilità come gli assistenti sanitari, gli insegnanti e le forze di polizia.
In Italia la prima legge importante per la ricostruzione edilizia e lo sviluppo dell’edilizia popolare è approvata nel 1949, e dà avvio al piano Ina-casa. Almeno due sono gli obiettivi della legge, correlati: incrementare l’occupazione operaia e costruire case per lavoratori. La necessità della ricostruzione si combina con considerazioni di politica economica: il settore edilizio è riconosciuto come lo strumento in grado di contribuire al riassorbimento della disoccupazione e al rilancio dell’economia, e agevolare la costruzione di case per lavoratori è lo strumento adottato dalla legge per stimolare il settore edilizio. L’attività del piano dura per due settenni, finanziata – in un’ottica di
solidarietà nazionale – attraverso un sistema di trattenute e contributi che coinvolge lavoratori dipendenti, datori di lavoro, e lo Stato. Che l’esperienza Ina-casa si sia caratterizzata per un avvio rapido e una buona operatività è ormai opinione consolidata (Di Biagi, 2001; Giustiniani, 1981): in 14 anni sono stati costruiti quasi due milioni di vani – corrispondenti a 355.000 alloggi, e a quasi il 10% dell’intera produzione edilizia – per un importo di 936 miliardi di lire; sono stati aperti circa 20.000 cantieri, in oltre il 60% dei Comuni, occupando l’equivalente di oltre 40.000 lavoratori stabili all’anno; sono state effettivamente migliorate le condizioni abitative di migliaia di famiglie, addirittura i due terzi degli alloggi nel secondo settennio sono assegnati in proprietà. Le implicazioni in termini di equità sono evidenti: attraverso un programma finanziato dall’intera collettività alcune famiglie sono diventate proprietarie a prezzi decisamente bassi di un alloggio che pochi anni dopo è stato possibile rivendere a prezzi molto più alti, mentre lo Stato – cedendone la proprietà – si precludeva la possibilità di allocarlo di volta in volta secondo criteri di bisogno.
Nel 1963 il patrimonio edilizio della gestione Ina-casa viene liquidato, e a tutti gli assegnatari viene concessa la possibilità di passare dall’affitto alla proprietà. I proventi della liquidazione vanno a finanziare il nuovo piano decennale per la costruzione di case popolari, il piano Gescal – Gestione case per lavoratori, alimentato da ritenute sui salari dei lavoratori dipendenti e sulle retribuzioni erogate dai datori di lavoro, e da un ulteriore contributo statale. Per la loro consistenza, i contributi Gescal hanno rappresentato il più importante canale di finanziamento dell’edilizia pubblica fino agli anni ’90, prima di essere dirottati alla spesa pensionistica e di esaurirsi. Cito il documento programmatico sulle politiche abitative redatto dal Ministero delle Infrastrutture nel 2007: “…è prioritario che si giunga a finanziare in modo consistente il nuovo piano di edilizia residenziale…con annualità di finanziamento certe da prevedere nella legge finanziaria, essendo cessato il prelievo ex Gescal che aveva garantito al comparto dell’edilizia residenziale pubblica un flusso finanziario costante nell’acquisizione e consistente nell’entità (oltre 3.000 miliardi di vecchie lire l’anno…il dimensionamento dell’impegno finanziario per l’attuazione del programma nazionale – sostitutivo del canale di finanziamento ex Gescal – si deve attestare tra 1,2 e 1,5 miliardi di euro/anno”. Una grande disponibilità di fondi, quindi, ma una scarsa operatività: nei primi sei anni di attività il piano Gescal avrà all’attivo solo 40.000 case, per costruire le quali è stato investito solo il 40% dei fondi. A fine 2001 esistevano ancora quasi 900 milioni di euro di fondi residui non attribuiti – di cui oltre 500 provenienti dai contributi Gescal.
In Europa come in Italia il ciclo positivo del settore delle costruzioni iniziato nel dopoguerra prosegue, ma a partire dalla metà degli anni ’70 il modello di social housing “di massa” cede il passo al modello “residuale”: diminuiscono gli investimenti, lo stock viene in buona parte privatizzato, il gruppo target si restringe ai nuclei familiari più disagiati socio-economicamente.
Quanto all’Italia, le politiche per l’affitto si sono articolate nei passaggi seguenti. Il regime di blocco dei fitti perdurante dalla fine della prima guerra mondiale ha generato forti squilibri tra un mercato regolato degli affitti – con alloggi a canoni bloccati e irrisori, ma introvabili – e il mercato libero – con alloggi disponibili ma a canoni difficilmente sostenibili per buona parte dei lavoratori. Dichiarato incostituzionale negli anni ’70, viene sostituito nel 1978 dal regime dell’equo canone: equo perché vuole garantire agli inquilini canoni sostenibili e stabilità dei contratti, e ai proprietari una rendita adeguata a premiare il risparmio (pari al 3,85% del valore locativo attribuito all’immobile, calcolato come il prodotto tra superficie convenzionale dell’immobile e costo unitario di produzione). Le conseguenze sulla legge dell’equo canone sono oggi tendenzialmente giudicate in modo negativo (Minelli, 2004), in particolare perchè i proprietari avrebbero risposto ai vincoli
Le tendenze di lungo periodo che hanno caratterizzato il mercato abitativo italiano sono state due: mentre da un lato è progressivamente aumentata la quota di famiglie residenti in proprietà, dall’altro il settore sociale è diventato sempre più residuale. Queste due tendenze non sono indipendenti l’una dall’altra: il progressivo disimpegno delle politiche pubbliche ha determinato una drastica riduzione dell’offerta di abitazioni a canone agevolato, il fallimento delle esperienze di regolazione degli affitti sul mercato privato ha spinto verso la soluzione proprietaria le famiglie che se lo sono potuto permettere, e la sistematica politica di cessione degli alloggi di edilizia pubblica ha rappresentato un importante canale di accesso alla proprietà a basso prezzo. Sistematica perché ha avuto inizio con le esperienze Ina-casa e Gescal, ed è continuata ad esempio anche nel 1993 per recuperare risorse economiche per il rientro di bilancio. Non ha risparmiato neppure il patrimonio immobiliare degli enti previdenziali di natura pubblica, la cui dismissione è stata regolata da una legge del 1996 prima, ed è passata attraverso due cartolarizzazioni poi. Per inciso: la vicenda delle cartolarizzazioni – iniziata nel 2001 – si è conclusa nel febbraio scorso con la liquidazione della società veicolo Scip e il ritrasferimento agli enti previdenziali degli immobili rimasti invenduti dietro il pagamento di un corrispettivo pari al debito residuo di Scip, di circa 1,7 miliardi di euro. Nel 2001, anno del censimento sulle abitazioni, il patrimonio delle Aziende casa assommava a meno di 812.000 alloggi, pari in termini percentuali al 3,8% dell’intero stock abitativo a livello nazionale e al 18,8% dello stock in affitto (Dexia Crediop, 2008). Percentuali molto basse, che sono state raggiunte proprio con il contributo significativo del processo di dismissione degli immobili residenziali pubblici. La dismissione del patrimonio di ERP voleva da un lato produrre risparmi di spesa alleggerendo la gestione e dall’altro reperire risorse utili al finanziamento del settore, ma il processo è stato tanto consistente nel numero quanto povero nei ricavi: tra il 1993 ed il 2006 sono stati ceduti oltre 150.000 alloggi con un ricavo unitario medio di soli 23.700 euro (Dexia Crediop, 2008). Un patrimonio pubblico, quindi, sempre più modesto e ben poco “rinnovabile” con le risorse incassate dalla sua dismissione; una gestione resa più difficile dalle situazioni di “condomini misti” che si sono venute a creare – quando la proprietà pubblica dell’unità immobiliare si trova a coesistere con la proprietà privata dell’assegnatario che ha acquistato l’alloggio; infine un settore dell’affitto nel quale hanno finito col concentrarsi le famiglie economicamente più fragili. In sostanza le peculiarità del sistema abitativo italiano coincidono con quelle che Esping-Andersen (1990) ha attribuito più in generale ai sistemi mediterranei di welfare: da un lato la residualità dell’edilizia pubblica, dall’altro la grande diffusione della soluzione proprietaria; da un lato il ruolo marginale delle politiche per la casa nella spesa per il welfare state, dall’altro il ruolo fondamentale delle reti familiari e dei trasferimenti intergenerazionali per l’accesso alla proprietà, nonché il favore delle politiche alla soluzione proprietaria.
Quello delle risorse per l’ERP è comunque un problema ampio, che non inizia né si esaurisce con gli scarsi ricavi dalle cessioni del patrimonio. La componente fondamentale di entrata per gli enti gestori degli alloggi di ERP è rappresentata dai canoni di locazione, ma i canoni medi hanno livelli decisamente bassi e sono lontani dai valori economici degli alloggi: la Corte dei Conti (2007) ha calcolato che nel 2003 i canoni medi di locazione degli alloggi con sede nei comuni capoluoghi di Regione andavano dai 42,12 € di Napoli ai 160,22 € di Bolzano e ai 116,00 € di Bologna. Le ricadute sugli equilibri finanziari degli enti sono inevitabili e aggravate dal fenomeno della morosità, assai diffuso benché differenziato: la percentuale di morosità sui canoni dovuti si attesta su valori intorno al 5% in città come Bergamo, Firenze e Bologna, supera il 30% a Torino e Palermo, e raggiunge il 92.5% a Catania (Dexia Crediop, 2008). Almeno altri due fenomeni – in genere inversamente proporzionali tra loro – determinano una mancata produzione di reddito per gli enti gestori: sono la mancata occupazione degli alloggi o la loro occupazione senza titolo, che è diffusa soprattutto al Sud. La relazione di causa-effetto tra insufficienza di risorse finanziarie e mancata occupazione degli alloggi può essere tra l’altro valida in entrambe le direzioni: un alloggio sfitto non genera reddito per l’ente gestore, ma a sua volta la sfittanza può essere causata dall’assenza di risorse necessarie per adeguare gli alloggi agli standard richiesti. A questi aspetti si devono poi aggiungere le implicazioni sociali e funzionali legate al fatto che l’alloggio è di fatto sottratto alla sua destinazione o che le graduatorie vengono scavalcate illegalmente. Ciò che tuttavia rileva dal
punto di vista economico è che tutti questi fenomeni concorrono a determinare la mancata copertura dei costi con i canoni da locazione, quando invece il momento gestionale dovrebbe seguire logiche economiche e il momento assistenziale essere demandato al sussidio pubblico.
Anche le gestioni virtuose che riescono a conseguire risultati di bilancio positivi, devono poi confrontarsi con un trattamento fiscale in grado di assorbire buona parte degli utili attraverso le imposte. In effetti il luogo comune secondo il quale le Aziende casa sono strutture burocratiche dai bilanci poco sani non è del tutto vero, ma è sicuramente vero che esistono forti differenze territoriali e che le imposte rappresentano un onere consistente. Dexia-Crediop (2008) ha analizzato i bilanci relativi al 2006 di un campione di 33 Aziende casa che adottano una contabilità di tipo economico e aderiscono a Federcasa, e se da un lato l’evidenza è che il risultato di esercizio di queste Aziende è stato positivo, dall’altro non può essere trascurato il fatto che il campione selezionato ha escluso in blocco le Aziende casa del Mezzogiorno e anche l’ATER di Roma. Di un risultato positivo di 35,7 milioni di euro quello che resta è un utile netto di 1 milione: praticamente queste 33 Aziende casa hanno versato allo Stato e alle Regioni quasi 35 milioni di euro di imposte sul reddito di esercizio – IRES, IRAP. L’ICI versata ai Comuni – da aggiungersi ai 35 milioni – ha sempre rappresentato un altro gravoso onere fiscale per le Aziende casa, prima che il DL 93/2008 riconoscesse loro il regime di esenzione. Questo aspetto della tassazione non è irrilevante neppure ai fini di una valutazione del processo di vendita del patrimonio degli ex-Iacp, che ha conseguenze sul bilancio statale in termini di una riduzione del gettito da imposte sul reddito degli enti – che si aggira attorno ai 200 milioni di euro l’anno – e di aumento delle detrazioni sui mutui per la prima casa (Federcasa, 2009).
I pagamenti delle imposte dovute dalle Aziende casa costituiscono un flusso monetario importante e costante nel tempo verso le casse di Stato e le Regioni, ma il flusso di risorse che dallo Stato e dalle Regioni va all’edilizia pubblica non è altrettanto sicuro e sistematico. A lungo si sono spesi i fondi ex-Gescal, e ora si fatica a trovare nei bilanci nazionali e regionali risorse adeguate da destinare alle politiche per la casa.
Le competenze in materia edilizia: dal decentramento all’ultimo piano casa
Le politiche per la casa non solo devono conciliarsi con altre normative – in particolare quelle che regolano l’urbanistica e i lavori pubblici, ma devono anche rispettare la ripartizione delle competenze tra i vari livelli di Governo, centrale e locale. Il processo che ha visto il passaggio delle competenze in materia di ERP dallo Stato alle Regioni ha avuto inizio negli anni ’70: il primo decentramento risale infatti alla legge n. 865/1971, che ha introdotto il concetto di “edilizia residenziale pubblica” ed ha avviato lo scioglimento dei vari enti pubblici edilizi ad esclusione degli Iacp. Le più grandi trasformazioni in termini di riparto delle competenze avvengono però nel corso della XIII legislatura con l’emanazione del Decreto Legislativo n. 112/1998 – che ha reso operative le leggi Bassanini del 1997 – e con la riforma del Titolo V della Costituzione – legge n. 3/2001. Le funzioni mantenute allo Stato e quelle conferite alle Regioni sono definite agli articoli 59 e 60 del D. Lgs 112/1998: è competenza dello Stato la determinazione dei principi generali dell’ERP e la definizione di livelli minimi e standard di qualità; l’elaborazione di programmi di ERP di interesse nazionale; la definizione dei criteri per l’accesso al mercato delle locazioni dei nuclei familiari meno abbienti; l’attività dell’Osservatorio della condizione abitativa. Tutte le competenze che non rientrano tra queste sono conferite alle Regioni, in particolare: le Regioni determinano le linee e le tipologie di intervento, programmano le risorse finanziarie, attuano gli interventi, fissano i criteri per l’assegnazione degli alloggi e i relativi canoni.
Le nuove norme costituzionali in materia di politiche abitative riconoscono infatti agli enti locali l’autonomia finanziaria di entrata e di spesa e la responsabilità del finanziamento delle funzioni pubbliche. Sono inoltre definite le sfere di competenza dei vari livelli di Governo: è competenza esclusiva dello Stato la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni da garantirsi su tutto il territorio nazionale; è invece materia di legislazione concorrente il governo del territorio – ciò significa che i principi fondamentali sono determinati a livello centrale, ma la potestà legislativa spetta alle Regioni; infine, le Regioni hanno competenza su tutte le materie che non sono di legislazione esclusiva dello Stato.
Se Governo o Regioni ritengono sia stata lesa la propria sfera di competenza, possono promuovere questione di legittimità davanti alla Corte Costituzionale. E in effetti le Regioni lo hanno fatto diverse volte: si ricorda in particolare la sentenza n. 94 del 2007, che ha accolto i ricorsi regionali contro alcune norme relative all’ alienazione degli immobili (ex)Iacp contenute nella finanziaria 2006.
Di fatto si è venuta a creare una situazione in cui i confini tra competenze esclusive e concorrenti sono molto sottili e per questo diventano oggetto di controversia su cui viene chiesto alla Corte Costituzionale di pronunciarsi, il che determina ritardi che finiscono col ripercuotersi negativamente sull’efficacia delle politiche per la casa. L’altra questione spinosa è quella delle risorse: le Regioni possono anche avere competenze in materia di politiche abitative ma senza un canale di finanziamento le politiche non potranno essere particolarmente efficaci. Anzi, rischiano inevitabilmente di finire con l’occuparsi solo delle emergenze abitative.
Prima del decentramento le risorse statali destinate all’attuazione dei programmi regionali erano quantificate e ripartite con Delibere CIPE, dopo è stato previsto il loro trasferimento alle Regioni, ma in entrambi i casi si è trattato sostanzialmente delle risorse provenienti dai fondi Gescal: praticamente, delle risorse extra-bilancio che dal 1998 hanno cominciato ad esaurirsi. La mancanza di una spesa consolidata per le politiche abitative nel bilancio pubblico e la difficoltà di inserire nelle finanziarie seguenti nuovi capitoli di spesa sono gli aspetti che portano a dire che alle Regioni sono state trasferite le funzioni senza la copertura finanziaria. Ora le Regioni devono cercare nei loro bilanci le risorse da destinare all’edilizia abitativa: da un sistema di finanza decentrata si è passati ad un sistema di finanza autonoma, che prova a ovviare alle difficoltà finanziarie delle Regioni sviluppando strumenti di finanza innovativa e forme di partenariato pubblico/privato per realizzare progetti di housing sociale ed affrontare l’emergenza abitativa (Dexia Crediop, 2008). La categoria delle voci di bilancio che fanno riferimento al tema della casa distingue in genere tre livelli: l’edilizia residenziale sociale; i programmi di recupero urbano; l’edilizia residenziale privata e il sostegno alla persona. In particolare, l’entità delle risorse destinate all’ERP dipende da tre ordini di fattori (Corte dei Conti, 2007): dall’interesse della Regione verso gli interventi di ERP; dallo stato di salute del bilancio regionale, che in situazioni di emergenza utilizza le risorse ERP ad altri fini; dallo stato di salute degli enti gestori, i cui disavanzi finanziari assorbono risorse anche ingenti distogliendole dalle finalità di sviluppo dell’edilizia abitativa.
Con il decentramento delle competenze in materia abitativa le Regioni hanno avviato anche un processo di riforma che ha notevolmente cambiato il quadro degli operatori di ERP. Gli enti riformati hanno innanzitutto cambiato denominazione, includendo in genere nei nuovi acronimi i termini “agenzia” e/o “edilizia”; restano denominati Iacp solo gli enti di alcune Regioni del Sud – Campania, Sicilia, Puglia, Molise – che non sono ancora stati oggetto di riforma. In genere comunque le Regioni hanno optato per aziende casa con competenze su bacini provinciali. Quanto all’assetto istituzionale, le scelte dei legislatori regionali sono andate sostanzialmente in tre direzioni: le aziende casa hanno mantenuto la forma tradizionale di enti pubblici non economici, oppure hanno acquisito la configurazione giuridica di enti pubblici economici – con l’obbligo di pareggio costi-ricavi, oppure infine sono state trasformate in società di capitali (Toscana). Tre sono anche le situazioni venutesi a creare per ciò che riguarda la gestione del patrimonio ERP, la cui proprietà si divide tra Comuni e (ex)Iacp (Corte dei Conti, 2007): in alcuni casi – Friuli Venezia Giulia, Marche e Liguria – gli (ex)Iacp sono gli unici o prevalenti gestori del patrimonio regionale di ERP; più diffusa è la situazione in cui gli enti proprietari provvedono in genere alla gestione degli
alloggi di cui sono proprietari o si avvalgono di strutture esterne all’ente – Comuni di Milano e Napoli – piuttosto che degli (ex)Iacp; infine in Emilia-Romagna e Toscana i Comuni sono proprietari degli alloggi di ERP e contemporaneamente titolari delle funzioni gestionali, in vario modo poi delegate ed esercitate.
E’ quindi evidente che il processo di decentramento ha contribuito ad accrescere le differenze territoriali in materia abitativa. I Comuni hanno finito con l’essere i maggiori responsabili della crescita e della gestione del patrimonio abitativo pubblico, ma rivestono un ruolo importante anche per ciò che riguarda le scelte urbanistiche.
Nel dibattito che si è sviluppato riguardo all’ultimo piano casa ritroviamo buona parte degli aspetti trattati fin qui. Le disposizioni relative al Piano Casa sono contenute all’art. 11 della legge n. 133/2008, mentre all’art. 13 della stessa legge sono prescritte misure per valorizzare il patrimonio residenziale pubblico. Il Decreto attuativo del Presidente del Consiglio dei Ministri è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 191 del 19 agosto 2009, dopo l’intesa tra Governo e Regioni. Obiettivo dichiarato del piano è quello di garantire su tutto il territorio nazionale i livelli minimi essenziali di fabbisogno abitativo, la determinazione dei quali spetta allo Stato – alle Regioni è affidata invece l’individuazione del fabbisogno abitativo, come chiarito anche dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 166/2008. Meno immediato è chiarire quali siano tali livelli essenziali;