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CAPITOLO II I temi della propaganda

2.2 L’efficienza economica e il corporativismo

Tra i temi più usati dalla propaganda fascista per promuovere l’immagine del regime in America, vi era quello dell’efficienza economica. Il fascismo era presentato soprattutto come una formula adatta alla ricostruzione dell’Italia, uscita malconcia dalla prima guerra mondiale. In questo modo, i fascisti speravano di guadagnare il consenso dei settori più qualificati dell’opinione pubblica americana – oltre che quello degli emigrati che avevano abbandonato un paese povero – mostrando loro il lato efficientistico e produttivo di un regime impegnato a modernizzare il paese e a migliorare il tenore di vita della popolazione.

Il mondo degli affari americano, dopo un’iniziale diffidenza verso le camicie nere, aveva salutato con favore la marcia su Roma e la formazione del primo governo Mussolini, ritenendo finalmente scongiurato il rischio di una rivoluzione comunista in Italia. Il giudizio favorevole era confermato sia dall’inclusione nell’esecutivo di uomini appartenenti ad altri partiti costituzionali di orientamento liberale e conservatore, sia dai propositi espressi dal nuovo capo del governo in merito al programma di ricostruzione economica e risanamento                                                                                                                

44 Cfr. ACS, MCP, DGSP, Busta 221, fasc. I.68 Stati Uniti “1937” I parte, sf. I.68/49, Suvich a ministero degli

Esteri e ministero per la Stampa e la Propaganda, 13 maggio 1937.

45 Cfr. Ibidem.

46 Cfr. ACS, MCP, DGSP, Busta 221, fasc. I.68 Stati Uniti “1937” I parte, sf. I.68/49, Suvich a ministero degli

Esteri e ministero per la Stampa e la Propaganda, 13 maggio 1937.

delle finanze pubbliche48. Mussolini era ben consapevole degli effetti positivi prodotti da questi argomenti sull’opinione dei finanzieri statunitensi e invitava l’ambasciatore Caetani a insistere sui punti che riscuotevano maggiore gradimento a Wall Street: le rigide economie, i tagli energici alla burocrazia, l’aumento delle entrate, la maggiore produttività operaia e la cessazione degli scioperi49.

La propaganda fascista invitava gli americani a tralasciare le sterili dispute ideologiche e a valutare i fatti. E i fatti – ripetevano i diplomatici e i sostenitori del regime – davano ragione al fascismo. Nel 1925, Caetani dichiarava che Mussolini, in poco più di due anni di governo, aveva conseguito risultati senza precedenti nella storia del paese: l’industria era stata rivitalizzata; la disoccupazione, tradizionale fardello dell’economia nazionale, era scomparsa; le infrastrutture erano state potenziate e la bilancia commerciale era tornata in equilibrio. Tutti i principali indicatori economici confermavano che la cura fascista, basata sul duro lavoro e sulla disciplina, stava guarendo i mali cronici della penisola50.

Il ricorso a una propaganda fondata sui fatti era sostenuto anche dal solito Luigi Barzini, che, avendo una profonda conoscenza della mentalità americana, sconsigliava invece il ricorso alla retorica:

All’America sfuggono le nostre questioni ideologiche interne; non si seguono che le grandi linee della situazione italiana e siccome, con la mentalità caratteristica dei nord-americani, la situazione di un paese non si giudica che dalle sue condizioni economiche, dallo stato dei suoi bilanci dal rendimento e dal perfezionamento dei suoi grandi servizi pubblici, dai progressi della sua produzione, il giudizio che si dà sull’Italia d’oggi è eccellente. Non si esita a riconoscere che l’Italia è alla testa d’ogni altra nazione europea nel processo di ricostruzione del

dopoguerra51.

Dello stesso avviso era De Martino, che giudicava molto utile tenersi in contatto con gli ambienti finanziari e commerciali del paese per l’influenza che essi esercitavano sull’opinione pubblica. Nei numerosi incontri con gli uomini d’affari, l’ambasciatore consigliava di illustrare soprattutto i risultati raggiunti dal fascismo nel campo pratico: “Ho dovuto sempre constatare che più che la parte teorica, fa presa sulla loro mentalità l’idea che il Fascismo rappresenta un regime di lavoro e un sistema nel quale il lavoro raggiunge risultati più vasti e più elevati”52. Rivolgendosi ai businessmen, De Martino sosteneva che essi, più di qualsiasi altra categoria, potevano comprendere e apprezzare le parole d’ordine del fascismo “Work” ed “Efficiency”53. Da quando Mussolini aveva preso le redini del governo, in Italia ogni individuo lavorava sodo, perché il fascismo aveva infuso nel paese un nuovo spirito di sacrificio, per cui il popolo era consapevole di svolgere un dovere verso la nazione54.

L’effetto propagandistico si amplificava quando questi progressi erano descritti dagli americani in visita in Italia. L’impressione di trovarsi di fronte a una realtà completamente                                                                                                                

48 Cfr. DDI, serie 7, vol. 1, n. 50, p. 25. 49 Cfr. DDI, serie 7, vol. 1, n. 341, p. 231.

50 Cfr. ASMAE, MCP, Busta 726, Speech of the Italian Ambassador at the Italian Chamber of Commerce, 17

gennaio 1925.

51 L’Italia come la vedono gli americani, in «I Fasci Italiani all’Estero», 11 aprile 1925. 52 ASMAE, AP 1919-1930, Busta 1605, fasc. 7410, De Martino a Mussolini, 1 maggio 1928.

53 ASMAE, AP 1919-1930, Busta 1605, fasc. 7410, Address of H.E. Nobile Giacomo De Martino, Italian

Ambassador at the meeting of the New York Board of Trade and Transportation, 11 aprile 1928.

rinnovata – affermavano – si percepiva fin dall’arrivo al porto di Napoli dove, al posto della precedente confusione, vi erano ordine e pulizia, che davano “il senso di una nuova serietà di popolo, di una più grande dignità di nazione”55. Il giornalista filofascista James P. Roe,

recatosi in Italia subito dopo la crisi del delitto Matteotti, descriveva il nuovo senso del decoro e il rinnovato attivismo che pervadevano il paese da nord a sud. L’Italia mostrava incredibili progressi nella produzione agricola, nello sviluppo industriale e nell’efficienza dei trasporti pubblici, dove finalmente i treni arrivavano in orario. Tutto ciò, secondo il giornalista, era stato reso possibile dall’energica guida di Mussolini che voleva cambiare la penisola “into

more than a museum of antiquity”56. Se è facile bollare come parziali i giudizi espressi da Roe, resoconti non meno entusiastici erano rilasciati da altri illustri visitatori. Tra questi, William L. Clayton, cofondatore della più grande società di commercializzazione del cotone al mondo che, intervistato mentre era in vacanza a Roma affermava di essere stato

varie volte in Italia. L’ultima nel 1920 […] Ne avevo abbastanza. Sciopero e disorganizzazione ovunque. Vi era in Italia una paurosa ondata di rivolta […] Ma ora! Ora che differenza! Ora si sente e si respira, che si lavora, che si produce, che si progredisce […] Insomma è un’Italia meravigliosa […] Non bisogna dimenticare che la crisi del dopoguerra ha afflitto ed affligge tuttora l’intero globo terrestre. Ma voi siete stati toccati da un colpo di bacchetta magica. Ed ecco perché noi abbiamo un’ammirazione sconfinata e una fede illimitata in Mussolini, l’uomo che – secondo noialtri americani, gente pratica e di affari – ha compiuto un’opera che è più che umana. È naturale, quindi, che l’on. Mussolini rappresenti agli occhi nostri il salvatore

dell’Italia57.

Le parole di Clayton si ripetevano in molti commenti espressi da cittadini americani che arrivavano in Italia per motivi di lavoro o per trascorrere le vacanze. Poco o nulla interessati alle dottrine e all’ideologia del fascismo, essi apprezzavano molto i presunti miracoli prodotti dalle politiche del “benefico despota”, l’uomo grazie al quale l’efficienza era “realmente diventata una virtù italiana”58. I commenti favorevoli sulla situazione italiana da parte dei viaggiatori che tornavano dalla penisola erano così numerosi e così ricchi di encomi verso il duce che diventavano, con grande facilità, una delle principali armi di propaganda a disposizione del regime in America. In occasione di un banchetto dell’Associazione farmaceutica italiana, De Martino asseriva che l’Italia, sotto la guida di Mussolini, era stata la prima tra le nazioni europee che avevano preso parte alla Grande guerra a ricostruire una normale vita economica e sociale. Nel farlo, citava come testimoni gli americani reduci da un soggiorno in Italia: “Tutti tornano entusiasti della nuova vita ordinata e laboriosa della nostra Penisola. Tutti lavorano e tutti hanno una grande voglia di lavorare. La mentalità è mutata ed è mutato il costume politico”59.

L’enfasi sui valori del lavoro e del sacrificio, proposti dalla propaganda come caratterizzanti la dottrina politica fascista, mirava a sfruttare a vantaggio della causa del regime i miti propri dell’universo ideologico degli uomini d’affari degli anni Venti: la                                                                                                                

55 L’Italia ed il Fascismo visti da Luigi Barzini, in «I Fasci Italiani all’Estero», 23 maggio 1925. 56 J.P.ROE, Italy Today and Mussolini, in «Il Carroccio», settembre 1924.

57 Il fascismo visto da un americano, in «I Fasci Italiani all’Estero», 7 febbraio 1925.

58 Il 97 per cento degli italiani sono per Mussolini dice lo scrittore americano George F. Hummel, in «Il

Progresso Italo-Americano», 2 febbraio 1927.

59 Un discorso dell’ambasciatore De Martino al Baltimore Hotel, in «Il Progresso Italo-Americano», 8 marzo

produttività, l’efficientismo e l’entusiasmo per le realizzazioni concrete. Il loro senso pratico li portava a guardare con scetticismo le grandi teorie definite e a lasciarsi trasportare, invece, dall’ammirazione per i movimenti sperimentali che sembravano riuscire a coniugare le esigenze umane con il dinamico progresso della scienza e della tecnologia60. In breve, il

disprezzo relativista di Mussolini verso le dottrine politiche statiche e il suo culto per l’azione sembravano conciliarsi perfettamente con il pragmatismo americano. In quest’ottica, il metro proposto per giudicare il fascismo non era la sua rispondenza o la sua coerenza con alcuni dogmi ideologici, ma la capacità di produrre o meno risultati positivi. In altre parole, un metodo di governo poteva essere definito giusto o sbagliato a seconda che funzionasse o no. Si trattava, allora, di assecondare propagandisticamente questo particolare aspetto della mentalità statunitense, facendo rilevare che il fascismo fosse in primo luogo un esperimento di successo: “Fascism has been and is successful. This is a fact. Nobody denies it even our

bitterest opponents do not deny that we have been successful”61.

L’attrazione maggiore, però, era esercitata da Mussolini. La figura stessa del duce simboleggiava la virtù del self-made man, l’uomo di umili origini che, grazie al suo genio e alla sua determinazione, era riuscito a scalare le vette del potere. Mussolini, inoltre, appariva come un leader politico deciso e realista, un realizzatore energico che alle parole, tanto care ai mestieranti della politica, preferiva i fatti. Il suo carattere anticomunista e la dichiarata difesa del principio della proprietà privata lo avevano completamente legittimato agli occhi dei finanzieri di Wall Street, disponibili a chiudere un occhio sulla natura dittatoriale del suo governo. I provvedimenti antiliberali adottati da Mussolini potevano essere spiegati con la gravità della situazione che egli era costretto a fronteggiare e con le tradizionali lacune del popolo italiano. Quest’ultimo – si leggeva in un articolo di Roe – non rimpiangeva il precedente ordinamento liberale, inefficiente e corrotto, e non era interessato alla concessione di più ampie libertà o al riconoscimento di maggiori diritti. Quel che gli italiani desideravano era un governo capace di risolvere i gravi problemi della loro vita quotidiana e di garantirgli un maggiore benessere. Pertanto, essi accettavano di buon grado la severa disciplina impostagli dal regime, riconoscendo che essa era indispensabile per consentire alla macchina dello Stato di funzionare al meglio nel loro interesse62. Del resto, “nessuna grande opera politica è stata compiuta senza grandi limitazioni della libertà e nessun grande leader è mai esistito che non sia stato accusato di essere nemico della libertà”, rimarcava De Martino in un’intervista al «New York World» – spiegando che queste restrizioni non erano il capriccio di un tiranno ma il solo modo per “trasformare e rendere efficiente l’organizzazione statale italiana e per abituare i cittadini a quella disciplina dello Stato che, per ragioni storiche, all’Italia era mancata”63.

Questi argomenti trovavano nell’establishment economico un terreno molto fertile su cui attecchire. Infatti, per molti esponenti del business a stelle e strisce non vi era alcuna contraddizione tra la loro fede liberale e la loro ammirazione per Mussolini. Il finanziere Otto Kahn riteneva “possibilissimo caldeggiare la libertà e, seguendo tendenze progressive sia politiche che sociali, […] guardare al Fascismo od a qualunque cosa che gli assomigli come                                                                                                                

60 Cfr. J.P.DIGGINS, L’America, Mussolini e il fascismo, cit., pp. 199-203.

61 ASMAE, AP 1919-1931, Busta 1605, fasc. 7410, Address of H.E. Nobile Giacomo De Martino, Italian

Ambassador at the meeting of the New York Board of Trade and Transportation, 11 aprile 1928.

62 Cfr. J.P.ROE, Mussolini and Democracy, in «Il Carroccio», aprile 1924.

63 ASMAE, AW 1925-1940, Busta 66, fasc. 711, Riassunto della intervista di S.E. l’Ambasciatore De Martino al

assolutamente irrealizzabile negli Stati Uniti, ed al tempo stesso ammirare Mussolini come sinceramente l’ammiro io”64. Secondo Kahn, per una valutazione equa del fascismo, bisognava tenere conto di due fattori. Primo, “che l’Italia è la patria degli italiani, e non degli inglesi, non degli americani”; pertanto, “ciò che a questi si adatta può benissimo non esser adattabile né desiderabile per gli altri”. In secondo luogo, “prima della libertà, perché più essenziali di essa, vengono e l’ordine statale e l’incolumità della idea e della vita nazionale”65. Di conseguenza, non vi era nulla di sacrosanto nel sistema parlamentare: mentre funzionava bene in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, aveva prodotto solo inefficienza e corruzione in Italia, dove mancavano il tradizionale senso civico degli anglosassoni. Pertanto, l’opera del fascismo era utile perché Mussolini

has substituted efficient and energetic and progressive processes of government for Parliamentary wrangling and impotent bureaucracy. He has engendered among the people a spirit of order, discipline, hard work, patriotic devotion and the willing cooperation of all

classes for their own good and the welfare and greatness of the nation66.

Ovviamente, questo sostegno verso il fascismo non era disinteressato, ma poggiava su concreti interessi economici. Difatti, sebbene lo spirito pubblico americano fosse dominato dall’isolazionismo, il mondo degli affari si guardava bene dal recidere i propri rapporti con il resto del mondo, in particolare con l’Europa. Alla fine della prima guerra mondiale, gli americani si erano trasformati da debitori a creditori del vecchio continente e, per la prima volta, la crescita del loro apparato produttivo dipendeva in larga misura dalle esportazioni67. Pertanto, la stabilizzazione e la ricostruzione dell’Europa diventavano imprescindibili per garantire l’espansione dell’economia statunitense. La difficoltà di armonizzare queste esigenze con il sentimento isolazionista dell’opinione pubblica — della quale le amministrazioni repubblicane dovevano tenere conto, avendo costruito il proprio successo politico ed elettorale sulla contrapposizione all’internazionalismo wilsoniano68 – determinava una singolare distinzione tra la sfera politica e quella economica. Cosicché mentre il governo si asteneva da qualsiasi impegno internazionale, gli uomini della finanza svolgevano in prima persona una vera e propria azione di politica estera69. Questi ultimi, consapevoli delle nuove responsabilità internazionali degli Stati Uniti, intendevano riversare i loro abbondanti capitali sui malridotti paesi europei, sia per realizzare utili immediati, sia per contribuire alla ricostruzione economica di questi ormai indispensabili partner commerciali. Tuttavia, la premessa necessaria della loro iniziativa era la stabilità politica dell’Europa, minacciata dalle crisi interne e dalle tensioni internazionali che ancora tormentavano il vecchio continente. “Il denaro è molto abbondante nel mercato di New York”, riferiva Caetani,

e, dato il periodo di prosperità che l’America attraversa e la situazione della sua bilancia economica, si prevede che tale abbondanza perdurerà. Ogni possibilità di investimento all’estero da parte del pubblico americano è subordinata alla soluzione dell’attuale crisi politica europea.

                                                                                                               

64 O.KAHN, Otto Kahn e il Fascismo, in «Il Carroccio», febbraio 1926. 65 Ibidem.

66 O.KAHN, The Truth about Fascism, in «Il Carroccio», novembre 1923. 67 Cfr.G.G.MIGONE, Gli Stati Uniti e il fascismo, cit., pp. 30-33.

68 Cfr. Ivi, pp. 34-35. 69 Cfr. Ivi, pp. 36-39.

Il grosso pubblico considera così grave il rischio politico che non si potrà fare assegnamento sul

dollaro per investimenti all’estero fino a che la situazione europea non si sia schiarita70.

All’interno della più ampia cornice europea vi era la particolare situazione italiana. La vittoria del fascismo, intesa soprattutto come l’affermazione di un governo forte e autorevole dopo anni di esecutivi deboli e provvisori, rispondeva al desiderio di stabilità dei settori economici statunitensi, rassicurati anche dai toni moderati della propaganda fascista – oltre che dall’azione di un regime che si presentava come una forza di equilibrio nello scenario internazionale. Tuttavia, era solo dopo la stipulazione del patto di Locarno nel 1925 che, rasserenatosi il clima politico europeo, gli americani decidevano di assumere un atteggiamento più deciso nella concessione di prestiti all’Europa71.

I disegni espansionistici dei finanzieri di Wall Street erano ostacolati, però, dalla questione dei debiti di guerra contratti dagli ex alleati che, fino a quando non fossero stati rimborsati, impedivano la concessione di nuovi crediti. Nelle delicate negoziazioni concernenti il debito italiano recitava una parte di primo piano la potente banca J.P. Morgan. Il prestigioso istituto di credito newyorchese era uno degli esempi più rilevanti della confusione tra pubblico e privato che caratterizzava l’America di quel periodo. La prudenza del governo di Washington in questo particolare ambito di attività, dove maggiore era il rischio di irritare la sensibilità isolazionista delle masse, comportava l’assunzione di maggiori responsabilità politiche da parte della casa Morgan che diventava, così, il vero referente di molti governi stranieri – in particolare di quello italiano – presso i circoli della finanza e della politica statunitensi. Tra i soci della banca spiccava la figura di Thomas W. Lamont, senior partner della società che svolse un ruolo fondamentale nel consigliare e assistere la missione del governo italiano, guidata dal ministro delle Finanze Giuseppe Volpi, durante le trattative che terminarono con un accordo molto vantaggioso per il governo di Roma72. Poco dopo il raggiungimento dell’intesa sul debito, la banca Morgan concedeva un prestito di 100 milioni di dollari all’Italia, sancendo l’inizio di una serie di investimenti americani nella penisola73. Era il primo passo di una collaborazione quantitativamente cospicua e di lunga lena, nel quadro più generale – come si è detto – dell’interesse della finanza statunitense alla stabilizzazione politica ed economica dell’Europa. La tappa successiva era il rafforzamento della lira e il suo ritorno nel gold exchange standard, ritenuto un passaggio propedeutico per la ricostruzione dell’economia europea e, quindi, per l’espansione del commercio mondiale e delle stesse esportazioni americane74.

                                                                                                               

70 ACS, MCP, Reports, Busta 20, fasc. 30, sf. 2, Caetani a Mussolini, allegato “J”, 28 gennaio 1923.

71 Cfr. G.G.MIGONE, Gli Stati Uniti e il fascismo, cit., pp. 50-52. Gli accordi di Locarno, elaborati nell’ottobre

1925 e siglati nel dicembre dello stesso anno, consistevano nel riconoscimento da parte di Germania, Francia e Belgio delle frontiere comuni scaturite dalla pace di Versailles. La Gramania, inoltre, accettava la smilitarizzazione della Renania. Gran Bretagna e Italia, invece, avrebbero svolto il ruolo di garanti dell’intesa.

72 L’accordo – siglato nel novembre 1925 e approvato dal Congresso nell’aprile 1926 – stabiliva che l’Italia

doveva restituire la somma di 2.042.000.000 di dollari, pagabili in 62 rate annue e con interessi a crescere che, perciò, avrebbero raggiunto i valori più alti, circa il 2 per cento, solo negli ultimi sette anni. Per una dettagliata ricostruzione delle trattative sul debito di guerra italiano cfr. Ivi, pp. 107-151.

73 Sulla concessione del prestito di 100 milioni da parte della banca Morgan e sui successivi investimenti

americani in Italia cfr. Ivi, pp. 151-160.

74 Per le vicende che portarono alla stabilizzazione della lira e il loro significato nella strategia americana cfr. Ivi,

Sullo sfondo di questi fatti, i soci della J.P. Morgan non si limitavano ad agire solo nel campo economico, ma svolgevano perfino una sorta di consulenza a favore del loro nuovo cliente in camicia nera che implicava consigli di natura politica e propagandistica. Lamont si impegnava personalmente in un’attività di promozione della solidità economica del regime presso la stampa e l’opinione pubblica americana. In numerose conferenze rassicurava gli investitori statunitensi sulla solvibilità del governo italiano. Glissava invece alle domande sul carattere antiliberale del fascismo rispondendo che “quanto a questione liberalismo credo che bisogna essere abbastanza liberali e lasciare che Italia abbia governo che vuole”75. In effetti, Lamont non aveva alcuna intenzione di dare una coloritura politica alla sua azione, limitandosi al solo aspetto commerciale: “I thought it much better for me to confine myself to

economic topics and I was told afterwards that what I was able to say was more effective in