1.4 Gli studi sull’imprenditoria femminile
1.4.2 La condizione dell’imprenditrice dagli anni ’90 ad oggi
Negli anni ‘90, come già accennato, i paesi industrialmente avanzati si trovano di fronte al fenomeno della diffusione dell’imprenditoria femminile, visibile attraverso l’alta percentuale di crescita delle nuove imprese costituite da donne. In Danimarca, ad esempio, il 33% delle nuove imprese nate tra il 1990 ed il 1998 sono femminili; in modo analogo, anche le statistiche francesi rilevano un tasso di incremento delle nuove aziende del 30 % tra il 1994 ed il 1998. Alla fine del periodo, negli Stati Uniti è il 38% delle aziende ad essere femminili, mentre in Canada è il 33% delle piccole e medie imprese ad avere a capo una donna, come in Corea, dove tale percentuale è pari al 32% (OECD, 2001).
Per quanto riguarda l’Italia, le statistiche nazionali a disposizione, classificando in un’unica categoria gli imprenditori ed i lavoratori autonomi, non sono di grande aiuto per conoscere precisamente la reale consistenza del fenomeno imprenditoriale. Non sorprende, quindi, come negli ultimi anni siano aumentate le esperienze di ricerca e le analisi statistiche, specie su base locale, orientati a fornire un quadro di conoscenza dell’imprenditoria più ampio ed analitico.
Riferendoci intanto alle statistiche nazionali, si rileva come fra gli anni ’60 e ‘90 il nostro Paese abbia registrato una crescita di donne
coadiuvanti e l’incremento delle lavoratrici che si definiscono imprenditrici (Ruggerone, 2000).
Per avere un indicatore aggiornato e specifico della diffusione del fenomeno imprenditoriale nella realtà italiana, occorre fare riferimento a statistiche relative alla titolarità d’impresa, che mostrano come in Italia, nel 2000, le donne titolari d’impresa fossero 875.703, pari al 25,4% del totale4.
Come si vede, la presenza delle imprenditrici, è cresciuta quantitativamente, anche se comunque continua a costituire una fetta minoritaria nella classe degli imprenditori e ciò vale sia in Italia che negli altri paesi sviluppati.
Inoltre gli anni ’90 vedono il moltiplicarsi anche di indagini e ricerche sull’universo imprenditoriale femminile, che utilizzando metodologie spesso caratterizzate dalla interdisciplinarità e dalla forte attenzione agli aspetti qualitativi, propongono diverse immagini di imprenditrici, tra loro accomunate da alcuni elementi caratteristici:
- il grande valore assegnato all’autorealizzazione ed alla esperienza concreta rispetto agli elementi più strettamente economici dell’impresa;
- il forte peso attribuito, per misurare il proprio successo, alle opportunità di crescita personale e professionale;
- l’accentuato senso di autostima alla base della sfida del mettersi alla prova in un campo pesantemente segnato da modelli maschili.
Le imprese femminili non sono diffuse in modo omogeneo nei diversi settori economici e nelle possibili forme aziendali. Risultano più
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concentrate in alcuni specifici settori di attività a tradizionale occupazione femminile, come nel terziario, nei servizi alle persone, nel commercio al minuto, nell’ambito manifatturiero e nell’abbigliamento. Diverse sono le spiegazioni di tale fenomeno.
La prima si riferisce al fatto che le imprenditrici potrebbero avere di questi specifici settori una conoscenza maggiore, anche per possibili esperienze di lavoro precedenti, e quindi essere più interessate da questi.
Un’altra spiegazione punta, invece, a mettere in evidenza l’eventuale carenza, nelle imprenditrici, di quelle professionalità tecniche indispensabili per entrare in settori diversi da quelli tradizionali femminili, verso i quali non si avvierebbero.
Una terza interpretazione, infine, collega le scelte delle imprenditrici al perdurare, nel campo delle relazioni economiche, di situazioni di disparità tra i sessi, rappresentate, ad esempio, dalle maggiori difficoltà incontrate dalle donne nell’accesso al credito. Tali scogli le spingerebbero verso i settori a più bassa intensità di capitale, quali, appunto, i settori tradizionalmente femminili (Ruggerone, 2000).
Per quanto riguarda la dimensione d’impresa c’è una decisa prevalenza, nel caso di aziende femminili, della forma microimprenditoriale, che peraltro permetterebbe l’uso di procedure gestionali semplificate (Ligabue, 1992).
Altrettanto accade per ciò che riguarda la natura giuridica delle aziende, dal momento che le imprenditrici sembrano privilegiare la ditta individuale rispetto alla società ed alle forme giuridiche più complesse (vedi figura 2).
lavorativi più eterogenei dei maschi e sono caratterizzati da una maggiore discontinuità: ancora oggi i loro percorsi professionali sono spesso fermati dal matrimonio o dalla nascita dei figli. Tra le imprenditrici una percentuale più alta che tra gli uomini, proviene da una condizione di non occupazione (il 60% contro il 5%); così, più donne che uomini, vedono nell’impresa un mezzo per tornare nel mondo del lavoro e pianificano la loro attività professionale in maniera meno ambiziosa.
Figura 2 - Distribuzione delle imprese femminili attive per classe di natura giuridica a livello nazionale
Fonte: Rapporto di genere, Retecamere, marzo 2006
Sono quindi, la maggiore discontinuità e le differenti esperienze di lavoro che spiegano il diverso bagaglio di risorse disponibili, il minore affidamento su abilità di mestiere e su competenze di tipo tecnico e la maggiore mobilitazione, invece, di abilità organizzative e relazionali (Franchi 1992).
Ciò non significa che i percorsi delle imprenditrici non siano eterogenei. Questo aspetto è stato messo in evidenza già alcuni anni fa da una ricerca relativa all’analisi delle ragioni che spingerebbero le donne ad avviare un’attività. Lo studio ha fatto risaltare l’esistenza di tre figure di imprenditrici: quelle che utilizzano l’impresa per sviluppare la propria carriera lavorativa, quelle che l’hanno scelta spinte dall’esigenza di ricoprire un duplice ruolo, lavorativo e familiare e quelle, infine, che dopo aver interrotto il lavoro, magari per crescere i figli, vogliono recuperare una dimensione di autonomia e di gratificazione personale (Cromie e Hayes, 1998).
Anche altre ricerche hanno messo in evidenza l’eterogeneità dei percorsi, anche se hanno incluso tra le varie figure della donna imprenditrice anche quella che desidera portare avanti l’attività dell’azienda di famiglia (Franchi, 1992).
Comunque, sembra essere la variabile età quella maggiormente significativa per capire molte differenze nei comportamenti delle imprenditrici.
Le giovani, in generale, puntando di più sull’impresa come soluzione alla disoccupazione, mostrerebbero un più deciso orientamento alla ottimizzazione dei profitti, compensando la carenza di esperienze
Negli ultimi anni, ad esempio, si hanno alcuni riscontri del fatto che le donne hanno iniziato a fare il loro ingresso nei settori economici più competitivi ed innovativi; in effetti, sono proprio le giovani ad essere più rappresentate in alcune particolari categorie di servizi alla persona (salute, tempo libero, cultura e sport) e nei servizi alle imprese (professioni legali, consulenze e formazione), mentre sono molto meno partecipi nei settori più consueti del commercio al dettaglio e degli esercizi commerciali ed alberghieri (OECD, 2001).
Le imprenditrici più adulte, dal canto loro, vedrebbero nella rete delle loro relazioni la vera leva fondamentale per superare i problemi nella fase di avvio dell’impresa o per sostenerla nel suo sviluppo; per questa fascia di età, in generale, l’impresa è un’opportunità di crescita professionale e personale, che si deve abbinare con la vita familiare.
In conclusione, nella fase dell’industrializzazione il modello di donna emerso era quello per cui la donna che lavorava era giovane o senza responsabilità familiari oppure obbligata al lavoro per necessità economiche, con scarso interesse verso le esperienze lavorative e sempre proiettata verso la sfera familiare.
A partire dagli anni ’70 si afferma invece in modo generalizzato l’idea che per le donne adulte avere un lavoro retribuito non dipende più soltanto dalle necessità familiari, ma è sempre più un diritto-dovere connesso all’essere adulte.
Anche se esistono ancora alcuni elementi di fondo problematici, quali la segregrazione occupazionalee la doppia presenza5, il fenomeno
5 Concetto elaborato da Laura Balbo (1977), “rappresenta un tentativo di cogliere il significato in termini di struttura di vita e di definizione di sé, dell’intreccio di molteplici esperienze di
dell’imprenditoria femminile ormai è oggettivamente in crescita e questa situazione accomuna gran parte dei paesi economicamente sviluppati6.
Perciò non è cambiato soltanto il modello di partecipazione alle forze di lavoro (in termini percentuali di donne occupate), ma anche quello di tipo culturale e sociale e di investimento nell’esperienza lavorativa.
Appare chiaro cioè che il lavoro per la donna non è più una circostanza eccezionale o deviante, ma la normalità, in cui aspetti di costrizione (le necessità di reddito familiare) si intrecciano con quelli di emancipazione (Franchi, 1992).
Ovviamente, questo percorso è stato agevolato anche da parte della sfera politico-istituzionale sia mediante le leggi nazionali sia mediante iniziative a livello europeo, (come vedremo nel prossimo capitolo) poiché è importare garantire uno sviluppo significativo, equo e solidale anche sotto questo aspetto.
CAPITOLO 2