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INDICE CAPITOLO 1: L IMPRENDITORIA FEMMINILE: UN EXCURSUS STORICO

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INDICE

INTRODUZIONE

CAPITOLO 1:

L’IMPRENDITORIA FEMMINILE: UN EXCURSUS STORICO

1.1 Introduzione

1.2 La presenza delle donne nel mercato del lavoro 1.3 La figura della donna imprenditrice

1.4 Gli studi svolti sull’imprenditoria femminile

1.4.1 La condizione dell’imprenditrice tra gli anni ’70 e ’80 1.4.2 La condizione dell’imprenditrice dagli anni ’90 ad oggi

CAPITOLO 2:

LE POLITICHE PER L’IMPRENDITORIA FEMMINILE

2.1 Introduzione

2.2 Interventi comunitari

2.3 Ulteriori strumenti di agevolazione per l’imprenditoria femminile 2.4 Interventi a livello italiano

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CAPITOLO 3: IL FARE IMPRESA AL FEMMINILE

3.1 Introduzione

3.2 Il contesto socio-culturale ed economico 3.2.1 La segregazione occupazionale 3.2.2 Il soffitto di vetro: interpretazione 3.2.3 La doppia presenza

3.2.4 Fattori di cambiamento nel mercato dei beni e dei servizi 3.3 Motivazioni personali alla creazione d’impresa

CONCLUSIONI

BIBLIOGRAFIA

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INTRODUZIONE

Negli ultimi decenni il mondo del lavoro femminile è mutato notevolmente. In tutti i Paesi europei le donne hanno sempre più preso parte ad ogni settore delle attività lavorative, dal dipendente all’autonomo e perfino nel settore imprenditoriale.

Questa permeabilizzazione del mondo del lavoro non è dovuta soltanto alla maggiore emancipazione della donna od al continuo e progressivo cambiamento dell’idea donna nell’immaginario collettivo ma, anche e soprattutto al modificarsi della società, della politica e dell’economia, oltre chiaramente alle singole capacità individuali.

Quindi, anche in Italia le donne hanno iniziato ad occupare spazi lavorativi che fino a qualche anno fa erano di pertinenza esclusiva degli uomini.

Questo, senza dubbio, grazie alla maturata consapevolezza di poter gestire nuovi settori di attività a livelli di istruzione più elevati e conseguentemente all’acquisizione di maggiore professionalità, che hanno determinato anche il desiderio di utilizzare queste conoscenze/competenze nel mondo del lavoro.

L’essere donna ed optare per una vita professionale alla guida di un’attività imprenditoriale comporta spesso un onere individuale molto gravoso; nonostante tutto oggi, un numero sempre maggiore di donne provano e riescono a realizzare il loro sogno. Ciò, a dispetto di una burocrazia complessa, di un rapporto sempre problematico con il credito,

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L’argomento del presente lavoro sarà trattato in maniera unitaria considerando l’impresa donna come un qualcosa da valorizzare per la crescita del sistema produttivo ed economico non dimenticando i temi legati all’appartenenza di genere, alle politiche istituzionali ed al contesto storico in cui tutto questo ha avuto luogo. Questi fattori sono stati determinanti nella vita delle donne, tanto da condizionarne il loro percorso professionale e di impresa.

Nel primo capitolo ho esaminato la partecipazione della donna al mondo del lavoro, con un occhio particolare rivolto alla sua figura di imprenditrice, attraverso varie interpretazioni.

Parto da un punto di vista storico, descrivendo il cammino che le donne hanno dovuto percorrere nel mercato del lavoro, mostrando come la partecipazione femminile all’attività produttiva non rappresenta più una circostanza eccezionale, ma la normalità.

Questa introduzione storica di carattere generale sulla donna nel mondo del lavoro, è indispensabile per spiegare quali sono stati gli elementi che hanno permesso il cambiamento della condizione della donna nella sfera dell’attività lavorativa, rispetto a quello che avveniva prima della terziarizzazione e dei movimenti femministi.

Antecedentemente agli anni ’70, infatti, la donna viveva in famiglie patriarcali con più di sei componenti, lavorava soprattutto in agricoltura e solitamente aveva un basso livello di istruzione e la sua principale occupazione era rivolta alla cura della famiglia.

Negli anni successivi, alcuni dei simboli classici di subalternità femminile, la donna discriminata, sottoposta all’autorità del padre o del marito-padrone, sono venuti meno.

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Il miracolo economico, è stato una delle cause scatenanti, attraverso il quale la casalinga della società dei consumi, tutta dedita al marito e ai figli, può ora affermarsi nel mondo del lavoro essendosi dissolti molti di quei fattori negativi che ne relegavano il suo impiego a figura di secondo piano, anche se spesso non meno importanti.

Successivamente, tra le innumerevoli figure femminili professionali ho analizzato quella della donna imprenditrice; partendo da una introduzione storica di carattere generale, per contestualizzarla in modo più settoriale nell’ambito sia socio-culturale che storico.

Mentre il primo dei due contesti sarà ripreso e approfondito meglio nel terzo capitolo, in questa prima parte della tesi viene esaminato piuttosto il cammino storico. Infatti, ho descritto il percorso e la condizione di sviluppo in questo settore, sia prima, che dopo il momento cruciale di cambiamento, avvenuto per tutta una serie di circostanze, a partire dagli anni dagli anni Ottanta, fino ad arrivare ad oggi, in cui le imprese in rosa rappresentano il 23,8% del totale.

Per affrontare tale trattazione mi sono avvalsa in particolare, degli studi scientifici riguardanti l’imprenditoria femminile, mettendo in evidenza l’evoluzione che tale argomento ha maturato nel tempo sia nella realtà del mondo accademico, sia in quella delle politiche sociali.

Nel secondo capitolo, quest’ultimo aspetto viene ripreso ed esaminato con maggiore attenzione, approfondendo l’aspetto relativo all’ambiente politico istituzionale, descrivendone le politiche, sia a livello comunitario che nazionale, che hanno permesso di incentivare e di sostenere lo sviluppo dell’imprenditorialità e di garantirne le pari

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Infatti, tali importanti interventi sono stati creati con l’intento di realizzare politiche appropriate di programmazione economica ma soprattutto mirate, efficaci, trasversali e non solo specifiche di promozione e di sostegno allo sviluppo dell’imprenditoria femminile, all’interno del relativo contesto sociale e produttivo, inteso nelle sue diverse articolazioni.

In sintesi, ho cercato di mettere in evidenza, attraverso una breve rassegna degli interventi legislativi e politici, l’ottica istituzionale predominante in materia, fondata su un’analisi della realtà che sottolinea i vincoli a cui sono sottoposte le donne che decidono di diventare imprenditrici e che le qualifica come utenza debole da sostenere.

Nel terzo capitolo, ho analizzato la tematica del fare impresa al femminile, attraverso la descrizione, sia delle difficoltà circostanziali, sia delle motivazioni di natura socio-culturale e personali che spingono le donne ad intraprendere la carriera imprenditoriale.

Inoltre, viene fatta una breve descrizione dei cambiamenti avvenuti nel mercato dei beni e dei servizi, per spiegare anche il contesto economico in cui l’imprenditrice si è venuta ad inserire.

Tutte queste tematiche sono state affrontate mettendole in relazione con l’identità femminile condizionata da sempre da problematiche connesse al concetto di appartenenza di genere.

Ho cercato di chiarire il concetto di appartenenza di genere, le implicazioni dirette ed indirette che tale rappresentazione mentale comporta nel mondo del lavoro e dell’occupazione delle donne.

Spero, possa essere visibile come questo sistema di riferimento possieda vari significati spiegabili attraverso i concetti di doppia presenza, di segregazione occupazionale e di soffitto di vetro.

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Infine, ho dedicato un paragrafo alle motivazioni personali del fare impresa al femminile, rilevando che le imprenditrici non presentano un’identità unitaria nell’ambito lavorativo, poiché il desiderio di aprire un’attività in proprio è dettato da vissuti personali e lavorativi, da atteggiamenti, da risorse impiegate nel dare vita ad un’impresa, da percorsi lavorativi discontinui differenti.

Tali percorsi si raccordano in modo diverso a seconda del settore, della posizione lavorativa, della professionalità posseduta, dell’età e delle caratteristiche personali.

In sostanza, nonostante i pregiudizi sui ruoli ricoperti dalle donne e le difficoltà derivanti dal conciliare il lavoro d’azienda con quello della famiglia, l’attività imprenditoriale femminile è ormai diventata una componente sensibile del tessuto socio-economico.

Le donne non si affacciano più al mondo dell’imprenditoria solo per rivestire un ruolo marginale o tutto al più di secondo piano rispetto al partner maschile ma, soprattutto, per raggiungere, competere e, perché no, superare il gap che da sempre l’ha relegata al solo ruolo di persona dedita alla cura della famiglia.

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CAPITOLO 1

L’IMPRENDITORIA FEMMINILE: UN EXCURSUS STORICO

1.1 Introduzione

A partire dalla fine della seconda guerra mondiale, per le donne italiane è iniziato un periodo ricco di grandi cambiamenti. Infatti, esse hanno avuto un processo di emancipazione molto più breve rispetto a quello degli Stati Uniti e dei Paesi dell’Europa del Nord.

Quanto detto è evidente se si pensa che, negli anni ’50, oltre un terzo delle donne ancora viveva in famiglie patriarcali con più di sei componenti. Lavoravano soprattutto in agricoltura, avevano un basso livello di istruzione e soltanto dal primo febbraio del 1945 avevano ottenuto i pieni diritti politici.

Inoltre per comprendere a fondo questo grande passaggio storico, sociale e culturale bisogna guardare al sesso dei lavori, spiegandone, come afferma Aris Accorro, i tratti principali: “Non più famiglie montate sul capofamiglia, il bread-winner maschio. Non più due cicli di vita attiva distinti e sessuati, quello dei lavori da maschi e quello da femmine, lavoratrici o no, modellati sul lavoro extra domestico di produzione e sul lavoro domestico e di riproduzione. Dal passaggio in corso si affacciano altri modelli di vita plasmati dal lavoro, ma anche altri modelli di lavoro plasmati dai cicli di vita.” (Accornero, 2000: 51)

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Sono venuti meno col passare del tempo, quindi, alcuni dei simboli classici di subalternità femminile, sia quelli relativi alla società contadina tradizionale (la donna discriminata, sottoposta all’autorità del padre o del marito-padrone), sia quelli relativi al miracolo economico (la casalinga della società dei consumi, tutta dedita al marito e ai figli, vittima designata della pubblicità dei prodotti di consumo e degli elettrodomestici).

Il processo di femminilizzazione e di affermazione della donna nel mondo del lavoro ha aperto loro strade del tutto inattese. Il percorso svolto ha permesso loro di cogliere opportunità in diversi settori dell’economia tali da competere con gli uomini in posizioni tutt’altro che subalterne.

Tuttavia rimangono ancora oggi alcune questioni che ancora penalizzano la loro partecipazione piena al mondo del lavoro. Infatti, per quanto riguarda, ad esempio, l’ambito lavorativo, le problematiche sono relative alle discriminazioni retributive ed alle diseguali opportunità di carriera, mentre per quanto riguarda quelle relative al contesto più propriamente sociale troviamo la tematica della doppia presenza (Fontana, 2002).

Nel presente capitolo viene esaminata la partecipazione della donna al mondo del lavoro, con particolare riguardo alla figura della donna imprenditrice, attraverso varie argomentazioni.

La prima affronta l’argomento da un punto di vista storico, descrivendo il percorso delle donne nel mercato del lavoro, facendo vedere come la partecipazione femminile al lavoro non rappresenta più una circostanza eccezionale, ma la normalità.

Successivamente si passa all’analisi di una specifica figura

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Il primo dei due contesti sarà comunque approfondito nel terzo capitolo, mentre in questa sede esamineremo specificatamente il cammino storico, che l’imprenditrice ha dovuto percorrere fino ad oggi per mostrare la condizione di sviluppo odierno che ha avuto in questo settore. Per affrontare tale trattazione ci si è avvalsi degli studi scientifici svolti sull’imprenditoria femminile, mettendo in evidenza l’evoluzione che tale argomento ha maturato nel tempo sia nel mondo accademico, sia in quello delle politiche sociali. Quest’ultimo aspetto sarà affrontato in modo più dettagliato nel secondo capitolo.

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1.2 La presenza delle donne nel mercato del lavoro

Non c’è ormai dubbio che nell’ultimo decennio si siano riscontrati cambiamenti di tale portata nelle dinamiche del lavoro femminile da farne uno dei fenomeni sociali di maggiore interesse degli anni ’80. In tutti i paesi economicamente sviluppati, compreso il nostro, la presenza delle donne nel lavoro retribuito ha mutato in maniera profonda le sue caratteristiche, sul piano sia qualitativo, sia quantitativo; tanto che oggi sembra definitivamente caduta la riluttanza, segnata forse dall’incredulità verso la portata del cambiamento, da parte degli esperti e degli studiosi del mercato del lavoro, che riconoscono in questo nuovo contesto il segno di trasformazioni strutturali e culturali profonde.

Molteplici sono, infatti, i fattori di conoscenza a tale proposito che, riferendosi ad un periodo temporale ormai lungo, vengono a contrassegnare una nuova fase storica. Le donne, in questa fase, hanno visto aumentata la loro presenza sul mercato del lavoro retribuito, fino al manifestarsi della tendenza, specie in alcuni paesi, ad un cambiamento radicale nella composizione per sesso della forza complessiva. Nonostante abbiano riscontrato anche notevoli difficoltà a trovare lavoro, hanno mostrato di essere molto meno scoraggiabili rispetto al passato, detenendo un tasso di partecipazione essenzialmente sganciato dall’andamento dell’economia.

In Italia in particolare, questo maggiore incremento rispetto agli uomini, di donne nel lavoro retribuito, ha riguardato tutti i settori di attività e le diverse posizioni professionali.

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La scolarizzazione, in effetti, sembra costituire l’elemento che maggiormente differenzia, dalle precedenti, la leva di donne presentatasi sul mercato del lavoro negli anni ‘80. Si è assistito negli ultimi tempi ad una vera e propria esplosione della formazione superiore ed universitaria della popolazione femminile, che ha avuto anche sviluppi importanti sul piano della qualità dei percorsi formativi e delle scelte professionali conseguenti, contribuendo a trasformare il modello di presenza delle donne nell’occupazione (Sullerot, 1969).

Un altro aspetto, che qualifica ulteriormente questa nuova presenza femminile sul mercato del lavoro, è la considerazione che il lavoro oggi non è più visto come un’esperienza transitoria. Questo significa che il lavoro non è più limitato alle fasce più giovani della popolazione femminile, che non viene interrotto al momento del matrimonio o della nascita dei figli ma riguarda in maniera crescente donne che entrano nel lavoro in età più avanzata, con un livello di istruzione più elevato e con l’intenzione di non abbandonarlo. Come è stato affermato da Patrizia David e Giovanna Vicarelli: “Siamo di fronte a modelli di comportamento e di corso di vita che scompigliano sia gli stereotipi sia le identità sociali di genere femminile” (David e Vicarelli, 1994: 16).

I termini del dibattito, inizialmente centrati, almeno in Italia, intorno alla questione, se tali cambiamenti fossero stati prodotti da una richiesta di lavoro particolarmente favorevole per le donne, quale quella proveniente dal settore terziario, oppure da una trasformazione culturale, prima ancora che strutturale, che avrebbe portato a presentarsi sul mercato una leva di donne differenti dalle generazioni precedenti, oggi sembrano meno polarizzati.

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Accettato è ormai il fatto che dietro al cambiamento del modello di partecipazione al lavoro delle donne ci sia non tanto o non solo, un mutamento della domanda, ma un fenomeno culturale di vasta portata, a sua volta sorretto dalla crescita considerevole del livello di istruzione femminile anche se non è completamente riconducibile a questa.

Negli ultimi anni, infatti, si sono avuti altri due importanti cambiamenti, l’uno di tipo politico culturale, l’altro demografico. Questi hanno contribuito a modificare, insieme alle trasformazioni verificatesi nel mercato del lavoro, largamente i modelli di riferimento della popolazione femminile nel nostro paese. La carica innovativa ed emancipatoria del movimento femminista1, da un lato, ha determinato cruciali mutamenti di tipo legislativo-istituzionale, unitamente ai profondi cambiamenti intervenuti nei comportamenti riproduttivi, dall’altro, ha contribuito a rendere percorribili, per le donne, quegli spazi di scelta e di progettazione della propria vita dai quali in precedenza erano escluse.

Questo il quadro economico, politico e culturale nel quale si inserisce il fenomeno del crescente ingresso delle donne in settori professionali di prestigio, tra cui l’imprenditoria, che in passato hanno visto la quasi esclusiva presenza maschile, fenomeno comune alla maggior parte dei paesi industrializzati (David, 1994).

1Il movimento femminista, con questo nome, è venuto alla ribalta internazionale negli anni '60, con

l'intento di modificare radicalmente la divisione sessuale dei ruoli maschili e femminili e quindi di rimettere in discussione, in tutti gli aspetti del vivere associato, una gerarchizzazione umana che assegna un meno o un più ai diversi individui in base a meri rapporti di potere che trovano fondamento proprio nella sessualità maschile e nelle sue proiezioni sociali e politiche. Il femminismo ha pertanto rimesso in discussione, con un'analisi politica "a partire da sé" (autocoscienza), tutti i settori della società, della

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I tratti essenziali della nuova partecipazione femminile al mercato del lavoro negli ultimi decenni sono caratterizzati dalla maggiore eterogeneità della manodopera e dalla crescente variabilità nelle prestazioni lavorative.

Gli studi riguardanti il primo fenomeno hanno preso in considerazione una serie di soggetti sociali deboli, che si affacciano al mercato del lavoro, costituiti soprattutto da donne, senza considerare, ad esempio, le lavoratrici extracomunitarie o le figure in posizione non professionale, che pure hanno avuto un ruolo comunque importante nel determinare la crescente articolazione dell’offerta di lavoro. Alla eterogeneità della manodopera si affianca una maggiore variabilità nelle prestazioni lavorative in forza della durata del rapporto di lavoro e dei regimi orari: il mondo dell’industria e quello dei servizi richiedono caratteristiche professionali più variegate perché l’organizzazione fordistica non è più una realtà generalizzata.

La compresenza di più modelli organizzativi nello stesso momento storico consente alla manodopera femminile di introdursi negli spazi creatisi nel mercato del lavoro, che sempre più richiedono capacità e competenze cognitive e relazionali. Ciò dà loro maggiori opportunità di occupazione, cosicché questa componente della manodopera incomincia ad essere valorizzata dalle trasformazioni in corso. La ragione principale, di questo stato di cose, risiede nel fatto che la variabilità nelle prestazioni lavorative entra in relazione non solo con un nuovo mix di fattori che compone la professionalità, ma anche con un’offerta temporale di lavoro che tende a definire una relazione diversa tra la sfera delle attività per la riproduzione e la sfera delle attività per la produzione. Vale a dire che la

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prima non ha più il sopravvento sulla seconda, creando così nella vita delle lavoratrici più spazio per le attività produttive.

Procediamo con ordine, seguendo il percorso storico che ha portato alla eterogeneità sociale della manodopera ed alla complessità nelle prestazioni professionali. Sotto il versante sociologico l’aspetto più importante riguarda sia il massiccio afflusso di donne nel mondo del lavoro negli ultimi decenni, sia la loro posizione in questo mercato, ivi compresi i mestieri e le professioni in cui hanno avuto la capacità di entrare, raggiungendo, peraltro, gradini gerarchici talvolta piuttosto significativi.

Per un periodo assai lungo che va dal 1861 al 1961 i tassi d’attività nel nostro paese calano inesorabilmente, sia per la componente maschile sia per quella femminile: nel primo caso il tasso d’attività scende dal 69,9% al 61,1%, mentre nel secondo caso esso cala in modo assai vistoso dal 48,6% al 18,8%.

Data questa premessa storica, ho esaminato l’andamento dell’occupazione femminile dal 1960 fino ai giorni nostri.

Sul piano delle idee e delle rivendicazioni le donne si mettono in cammino nella seconda metà degli anni ‘60, mentre nell’ambito del mercato del lavoro la partecipazione femminile, misurata con il tasso di attività, sale ininterrottamente dal 1972 (quando era pari al 21,2%) fino a raggiungere il 35,3% nel 1998.

Per tutti gli anni Sessanta ed oltre la manodopera femminile era considerata di riserva ossia, veniva utilizzata per i posti lasciati vacanti dagli uomini perché eccedenti o perché ritenuti sotto standard per le quote

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bassa disponibilità di servizi sociali si traduce per la maggioranza in inevitabilità di doppi carichi di lavoro (familiare ed esterno); questa circostanza si presenta a sua volta come elemento di rigidità non solo dell’offerta sul mercato del lavoro, ma anche rispetto alla disponibilità sul luogo di lavoro; e quest’ultimo fatto posto in connessione con il precedente ha un triplice esito: può venir addotto come ragione tecnica della preferenza accordata alla forza lavoro maschile; rende meno rischioso sotto il profilo sociale e sindacale l’attacco ai livelli occupazionali; permette di continuare a scaricare sui nuclei familiari i costi della mancata attuazione della riforma dei servizi sociali. Così il circolo sembra chiudersi: questa è la proclamata debolezza o minore produttività della forza lavoro femminile” (Furnari, Pugliese, Mottura, 1975: 26).

Negli anni ‘60 la recessione economica colpisce l’occupazione femminile riducendo così i relativi tassi di attività. La diminuzione della partecipazione femminile alle attività lavorative per il mercato viene ufficialmente messa in relazione con il miglioramento del tenore di vita delle famiglie, data la tendenza delle donne a rientrare in famiglia per rivestire un ruolo più conforme a quello che la cultura attribuisce loro.

Smentita dal decennio successivo, questa tesi mostra la sua inadeguatezza dal momento che la partecipazione femminile al mondo del lavoro risale in presenza di un diffuso e crescente benessere, che riguarda il nostro Paese e più o meno tutti gli altri paesi dell’occidente industrializzato. Nella fattispecie, l’interpretazione ufficiale appena richiamata, si rivela debole poiché il processo di emarginazione della forza lavoro femminile, che tra il 1961 e il 1967 comporta una contrazione di un

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milione di unità, è spiegato da altri fattori riassumibili nel modo che segue.

Innanzitutto il calo del tasso di attività femminile in Italia è in funzione sia della crisi strutturale di un lungo periodo avvenuta in alcuni settori a forte intensità di lavoro femminile, quali l’agricoltura o l’industria tessile, sia della recessione economica degli anni 1963-67 che ha colpito in modo particolare l’occupazione femminile. In Italia accanto a questi due fattori, si affianca anche la pressione esercitata sul mercato del lavoro, soprattutto in periodi di bassa congiuntura, dall’abbondanza di offerta di lavoro maschile. Come afferma Renato Fontana oltre a queste ragioni strettamente economiche ve ne sono altre di carattere socio-culturale: “La scarsa mobilità delle lavoratrici di una certa età e di una certa qualificazione espulse dai settori in declino e l’assenza di strutture sociali per favorire il recupero e la riqualificazione di tali lavoratrici”, ma soprattutto la “Mancanza di una rete sufficientemente estesa di servizi di assistenza ai fanciulli ed agli anziani, che possono alleviare le incombenze casalinghe delle lavoratrici sposate”. E da ultimo “La insufficiente istruzione e qualificazione professionale delle donne e la conseguente scarsa gratificazione economica e psicologica che esse traggono dall’attività lavorativa” (Fontana, 2002: 18).

Le ragioni sociali e culturali facevano apparire il lavoro extradomestico e retribuito delle donne come un’attività secondaria e complementare rispetto a quella degli uomini. Il lavoro femminile, in sostanza, veniva considerato un’attività sostanzialmente aggiuntiva da cui attingere e/o di cui liberarsi senza troppe difficoltà in base all’andamento

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La responsabilità della sfera produttiva, invece, spettava ali uomini;

loro erano i capofamiglia e dovevano provvedere al sostentamento dell’intera famiglia. Il loro lavoro era la fonte del reddito primario e non di rado esclusivo. Avere una moglie che svolgeva un lavoro extradomestico era considerato una deminutio capitis, anche se alcuni uomini cominciavano a rassegnarsi all’idea che al giorno d’oggi anche le donne avrebbero lavorato, altri, di contro, ostentavano ad accettare questa nuovo stato di cose.

L’emarginazione delle donne nella sfera riproduttiva e nel mercato secondario insomma si caratterizzava per una molteplicità di ragioni. Essa non è attribuibile soltanto al disegno strategico del capitalismo italiano degli anni ‘60, come molti mostrano di credere, ma anche ad una serie di altri importanti fattori, che si possono rintracciare in quella mentalità collettiva che ha vistosamente condizionato i destini professionali delle donne e che ha difeso una data divisione del lavoro tra i generi.

Gli anni ‘70 sono gli anni del decentramento delle attività produttive, gli anni della cosiddetta fabbrica diffusa (Accornero, 1978). In questo intervallo di tempo si verifica una specie di esplosione delle attività produttive. Tale situazione produce una sempre maggiore segmentazione sul territorio, ponendo in discussione da un lato i costi economici, sindacali e umani che le grosse concentrazioni industriali comportano e mettendo in risalto dall’altro un’inedita visibilità delle piccole imprese. La grande varietà e ricchezza di interpretazioni sul decentramento produttivo e sulla piccola impresa poggiavano sulla convinzione comune, che allora era sintetizzata efficacemente con: piccolo è bello. E in effetti la struttura puntiforme del nostro sistema economico ha permesso di reggere ai duri colpi della crisi e di competere con successo sui mercati internazionali.

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Alla fine degli anni ‘70 Aris Accornero descrive i due principali motivi di cambiamento della grande impresa: “Quello di risparmiare lavoro all’interno dell’azienda sistematicamente e in difensiva ed al tempo stesso quello di decentrare fuori dell’azienda quel lavoro che non si può o non si vuole più fare dentro” (Accornero, 1978: 13).

Molti dei settori che subiscono la frammentazione delle attività produttive sono a larga prevalenza femminile. Le trasformazioni in esame si svolgono nell’ambito di una trama organizzativa riguardante il ciclo produttivo. Esse sono:

- la frammentazione del processo tra le diverse unità del medesimo gruppo;

- l’esportazione di fasi complete della lavorazione dalla grande azienda a quelle di minori dimensioni;

- l’espansione e l’ampliamento della catena del decentramento produttivo,

- la frantumazione accentuata in particolari comparti fino al lavoro a domicilio, come nel calzaturiero, nella maglieria e nell’abbigliamento.

Questa trama organizzativa si regge sulla compresenza in un medesimo settore della concentrazione finanziaria e della dispersione produttiva, come nel caso del tessile.

Le ragioni dell’esportazione del lavoro dalla fabbrica al territorio, possono essere brevemente schematizzate come segue:

- recupero dell’elasticità nell’uso della forza lavoro;

- indebolimento della forza contrattuale dei lavoratori e

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- maggiore reattività della produzione di fronte all’andamento della domanda.

Se pensiamo ai primi due punti di questo elenco possiamo ritenere che, se fino al decennio precedente la donna era emarginata dall’offerta di lavoro per le ragioni sopra richiamate, negli anni ‘70 essa invece comincia paradossalmente ad essere tenuta in considerazione dalla domanda. Infatti, le caratteristiche di flessibilità e di discontinuità del lavoro femminile, rispondono meglio alle esigenze poste dal ciclo economico.

Nell’ambito del lavoro regolare le donne costano di più perché sono meno propense degli uomini agli straordinari, ai turni e si assentano di più; mentre esse si inseriscono più facilmente nel lavoro irregolare, dove sono più richieste perché il loro è ancora considerato un reddito secondario all’interno della famiglia, un reddito cioè che non è associato a un’occupazione stabile e per tutta la vita. La discontinuità dell’esperienza lavorativa delle donne poggia su ragioni sia culturali sia strutturali e questo favorisce il loro impiego come una risorsa che erode significativi margini di potere contrattuale ad una classe destinata ad incamminarsi verso un declino irreversibile: la classe operaia.

Accanto al settore industriale si affianca il settore terziario, dove inizia ad osservarsi un discreto incremento del tasso di attività femminile, soprattutto nelle classi centrali d’età. Dal 1970 al 1979 le occupate aumentano di 887 mila unità.

Questo settore ha assorbito negli anni ’70 la manodopera femminile che dopo l’esodo dell’agricoltura non ha trovato posto nell’industria. Il settore terziario, date le sue caratteristiche composite e la molteplicità dei suoi comparti, ha rappresentato un bacino di allocazione importante per la quota di donne secolarizzate. Infatti, queste donne non potevano essere

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occupate in un ambito, quale quello industriale, che allora non richiedeva né abilità né competenze granché qualificate.

Tra i settori del terziario quote significative di manodopera femminile si trovano in particolare nel credito e nelle assicurazioni, nella pubblica amministrazione e nei servizi, nel commercio, nel campo dell’educazione, dell’assistenza e nel comparto sanitario. Il terziario presenta al suo interno condizioni di lavoro molto differenziate, sostanzialmente polarizzate: da una parte vi sono situazioni qualificate, con posti di lavoro stabili e orari poco ingombranti, dall’altra una vasta area di lavoro precario e/o non istituzionale, come nel caso del commercio, dei servizi privati, del turismo, ma anche dell’insegnamento.

In altri termini, il decentramento sia produttivo, sia del lavoro non istituzionale va incontro a due esigenze complementari: quella della famiglia e quella degli imprenditori. Il gruppo familiare, cioè, offre forza- lavoro femminile a patto che essa sia compatibile con gli impegni attinenti la sfera della riproduzione, mentre gli imprenditori chiedono forme di discontinuità che consentano una gestione meno rigida della manodopera, che è tipica delle piccole imprese e più in generale del mercato secondario.

A partire da questa situazione si affermerà nel prossimo decennio una certa eterogeneità della manodopera ed una crescente variabilità nelle prestazioni professionali, all’insegna della flessibilità e dell’espansione dei lavori atipici.

Negli anni ‘80 l’occupazione femminile provoca la disoccupazione femminile, ovvero invoglia altre donne a cercare un lavoro. Ciò è vero in particolar modo per quei ceti sociali e quelle classi d’età dove il lavoro per

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maschile diminuisce di poco; le forze di lavoro femminili poi crescono in termini percentuali 5 volte di più di quelle maschili. In questo decennio, inoltre, la domanda di lavoro femminile offre oltre un milione di posti di lavoro, la metà dei quali nella Pubblica Amministrazione.

L’imponente ingresso nel mercato del lavoro da parte delle donne ormai rappresenta un fenomeno destinato a durare nel tempo, in quanto è sempre meno condizionato dal matrimonio e dalla nascita del primo figlio e sempre più motivato da crescenti livelli di istruzione che spostano in avanti l’età media in cui si cerca il lavoro. Per gli uomini gli anni ’80 sono gli anni dello yuppismo, mentre per le donne sono gli anni dell’affermazione sociale, in cui si profila, in vari ambiti, una nuova immagine nelle relazioni con l’altro sesso.

Occorre però contestualizzare questa situazione nell’ambito dei processi di flessibilità e di frammentazione dei lavori, allo scopo di decifrare quali conseguenze essi comportino per la manodopera femminile in termini di incentivazione e/o di inibizione per l’ingresso e la tutela legislativo-contrattuale nel mondo del lavoro.

In questo periodo la valorizzazione delle donne si sostanzia da una parte sulla base di una confluenza tra le caratteristiche oggettive dell’organizzazione del lavoro postfordista e quelle della spinta ai consumi nei paesi sviluppati; dall’altra con le caratteristiche soggettive dell’offerta femminile.

Dall’interazione tra le prime e le seconde caratteristiche le donne troveranno lungo il loro cammino per l’emancipazione opportunità ma anche difficoltà.

Esaminiamo brevemente ciò che avviene sul piano legislativo, familiare e produttivo. Alla fine degli anni Settanta viene approvata una

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legge che produrrà i suoi effetti nel decennio successivo: è la legge 903/1977, denominata Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro, che rappresenta una tappa fondamentale nel percorso verso le pari opportunità. Sulla base di un ampio impegno internazionale e comunitario anche in Italia vengono approvate rilevanti iniziative in favore delle pari opportunità, tra cui per esempio, la nomina della Commissione nazionale nel 1984, l’istituzione del Comitato nazionale nel 1983, il primo disegno di legge volto a disciplinare la realizzazione di azioni positive per il conseguimento delle pari opportunità nel 1987.

Sul piano familiare poi, la forte critica del movimento femminista ha contribuito a rivedere la posizione della donna in ambito domestico: i progetti di vita delle giovani ragazze sono lontani anni luce da quelli delle loro madri, perché dedicano una parte non trascurabile di energie e di tempo al lavoro extradomestico, rendendo migliore le loro collocazioni professionali ed allentando i retaggi socio-culturali considerati da sempre naturali. La loro vita è pur sempre improntata sulla doppia presenza e sul fatto che esse hanno conquistato più diritti nelle imprese che tra le mura domestiche, anche se le giovani generazioni faticano a riconoscersi nei destini di genere che attengono all’educazione familiare, alla configurazione della famiglia, al ruolo ed all’immagine materna come fattori connotanti.

Sul piano produttivo, infine, gli anni ‘80 sono quelli in cui il modo di porsi nel mondo del lavoro, per le donne e per gli uomini, è dettato da rapporti profondamente rinnovati, date le trasformazioni nell’organizzazione e nei requisiti richiesti per lavorare.

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le spinte provenienti dall’offerta e quelle provenienti dalla domanda di lavoro. Il reddito familiare diventa la sommatoria di una serie di attività che ricorda una specie di patchwork assai composito, ben diverso dagli anni ‘60-‘70, in cui esso era dovuto al lavoro del capofamiglia, al quale qualche volta si sommava il lavoro della moglie, in quanto contributo secondario.

Dopo l’imponente espansione dei lavori femminilizzati e la femminilizzazione del mercato del lavoro, gli anni ’90 impongono una pausa di riflessione e richiedono di guardare al fenomeno in esame, per così dire, dal di dentro. Non che gli indicatori socio-economici, come il tasso di attività e quello di occupazione, non continuino a crescere, ma è attraverso lo studio qualitativo del fenomeno che vengono posti in evidenza i limiti ed i rischi della espansione femminile.

Insomma, se fino agli anni ’80 la coppia opportunità-traversie era a vantaggio del primo fattore, nell’ultimo decennio del secolo si pone maggiore attenzione al secondo fattore ed alla sua evidenza empirica. A supporto di questa tesi vengono forniti tre elementi di riflessione.

Nonostante le donne abbiano compiuto notevoli progressi in tante professioni tradizionalmente riservate agli uomini, di fatto la loro effettiva partecipazione al mondo del lavoro è ancora limitata in alcuni settori.

In sintesi, i processi di femminilizzazione dei lavori potrebbero rappresentare un tappa intermedia verso una sorta di ri-segregazione futura, più temperata ma non per questo meno iniqua.

È stato fin qui sostenuto che la presenza femminile in alcuni settori nuovi e in alcune posizioni professionali tipicamente maschili rappresenta importanti segnali di de-segregazione. Dati i processi di frammentazione del lavoro e soprattutto di differenziazione della manodopera femminile,

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non tutte le donne hanno ridotto allo stesso modo lo svantaggio differenziale che le separa dalla manodopera maschile: questo vale specie per quella quota di donne che non dispone di elevati livelli di scolarità. È nell’ambito di questi processi quindi che si determina una convergenza tra i nuovi lavori a tempo ridotto e/o a tempo determinato e l’espansione dell’occupazione femminile e ciò è vero solo per alcuni settori.

Previsioni fosche, in terzo e ultimo luogo, sono quelle che si dipanano lungo il piano delle idee senza prestare grande attenzione alle statistiche ed ai soggetti in carne ed ossa. Nell’ambito di questo orientamento, volto a ripensare in chiave critica i progressi della manodopera femminile, si prevede che le donne saranno le principali vittime della politica neoliberista volta a deregolamentare il mercato del lavoro.

Quindi si osserva la presenza sia di una ri-segregazione che agisce all’interno delle singole professioni, sia di nuove forme di segregazione associate ai lavori flessibili, mentre si espongono alcuni principi, che determinerebbero ancora una sorta di dominio maschile sulle donne.

Comunque alla fine del secolo il lavoro che cambia ha trasformato profondamente il mercato del lavoro, ha introdotto una maggiore eterogeneità nella manodopera ed una crescente variabilità nelle prestazioni professionali, dove c’è più spazio per le donne. La crescente competizione con gli uomini si gioca sul titolo di studio, ovvero i percorsi socio-culturali di vita tendono ad essere meno differenziati a cominciare dalle scelte scolastiche ed universitarie (Fontana, 2000).

Ai giorni nostri, è possibile vedere che in Italia le donne che

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35% delle donne in età lavorativa era presente nel mercato del lavoro, nel 2005 la quota di donne attive ha oltrepassato il 50%. Nello stesso periodo, la partecipazione maschile è rimasta pressoché invariata, intorno al 75%.

Da questi tre soli numeri si possono desumere una serie di considerazioni sulla specificità del caso italiano, che impone di osservare il fenomeno della partecipazione delle donne al mercato del lavoro da diverse prospettive.

In primo luogo, è degno di nota il forte avanzamento della partecipazione femminile, che appare tanto più sorprendente quanto più lo si inquadra nel contesto italiano, culturalmente poco favorevole all’abbandono da parte delle donne del ruolo domestico e familiare a loro attribuito. Le prove della loro forte resistenza all’inserimento delle donne sono molte ed inequivocabili. Per trent’anni l’offerta pubblica di servizi alle famiglie è rimasta quasi immutata in confronto al continuo aumento dell’offerta di lavoro femminile e le politiche familiari non sono state affatto ripensate in funzione della crescente entrata delle donne nel mondo del lavoro. Si può ben dire che l’organizzazione del paese ha assecondato con estrema lentezza l’aumento delle lavoratrici: basta pensare, ad esempio, che la scuola primaria a tempo pieno è ancora lontana dall’essere la norma.

In secondo luogo, merita una seria riflessione il livello ancora molto basso della presenza femminile nel mercato del lavoro, malgrado il netto avanzamento di cui si è appena detto. Tuttora nel nostro paese quasi la metà delle donne in età lavorativa non partecipa alla vita economica: si tratta di 9 milioni e 600 mila persone, di cui un terzo è nella fase centrale della vita (35-54 anni). Gli uomini inattivi sono meno di 5 milioni e di questi solo 580 mila sono nella fascia di età centrale. Questi numeri

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tracciano i contorni di un primato del nostro paese poco lusinghiero e poco noto: pochi sanno che il nostro paese ha il più basso livello di partecipazione femminile al mercato del lavoro tra tutti gli Stati Membri dell’Unione Europea e che figura al terzultimo posto tra i 30 paesi aderenti all’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico.

L’Italia è al 28° posto, con un tasso di attività del 50,4%. Dopo l’Italia c’è il Messico, e molto più indietro, ultima in elenco, la Turchia, dove le donne attive sono meno del 27%. Una notevole distanza separa dunque l’Italia dai paesi che hanno i livelli più alti di partecipazione femminile al mercato del lavoro, ma un divario molto più ampio segna anche la distanza rispetto a paesi europei a noi più vicini, come la Francia e la Germania.

Bisogna considerare, peraltro, che dove i tassi di attività femminili sono più elevati le differenze di genere sono più contenute: nei paesi scandinavi, in Islanda e in Canada, le differenze tra i tassi di attività maschili e femminili variano tra i 3 e i 10 punti percentuali, mentre in Italia raggiungono i 24 punti percentuali. In Europa siamo al 4° posto per l’ampiezza delle disparità di genere nella partecipazione al mercato del lavoro.

Infine, si può osservare la partecipazione femminile al mercato del lavoro esaminando il persistente divario rispetto a quella maschile. Benché diminuito, resta estremamente ampio: le maggiori disparità di opportunità sono quelle tra gli uomini del nord e le donne del sud, con livelli di partecipazione alla vita attiva distanti 40 punti percentuali ma in nessuna macroarea del paese le differenze di genere sono inferiori a 18 punti

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Tuttavia, queste disuguaglianze sono meno generalizzate che in passato, in parte per il miglioramento della condizione femminile ed in parte per il peggioramento di quella maschile (Pruna, 2006).

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1.3 La figura della donna imprenditrice

La figura della donna imprenditrice rientra in una delle categorie professionali tradizionalmente maschili. Negli ultimi anni però le donne sono riuscite, nonostante gli ostacoli di natura sia culturale sia strutturale, ad accrescere la loro presenza anche in questo campo di attività (David, 2006).

Infatti nell’ultimo decennio, come afferma Maura Franchi, si è manifestato, nei vari paesi sviluppati, un forte desiderio, da parte di queste, per la creazione di imprese: “Il fenomeno può essere considerato una delle più significative espressioni dei mutamenti intervenuti nell’offerta di lavoro femminili” (Franchi, 1992: 13).

Anche l’imprenditoria, come altri settori professionali, è stata fin dalla sua comparsa nella moderna scena economica e sociale un ambito di vera e propria esclusione per il genere femminile. Tale condizione è il risultato del sex-typing, ossia la conseguenza di un processo che ha prodotto nella storia del lavoro umano, in seguito all’intreccio della sua dimensione tecnica con le dimensioni culturali e di potere attinenti ai rapporti tra i sessi, i lavori da uomo ed i lavori da donna (Piva, 1994).

Tale concetto deriva dall’assegnazione, sia al genere maschile sia a quello femminile, di alcuni tratti peculiari, tali da influenzarne l’universo lavorativo. Infatti, per esempio, la sfera maschile veniva vista come improntata all’azione, mentre quella femminile alla passività.

È diffusa, inoltre, l’idea che per esercitare determinate professioni servissero delle doti eccezionali, riscontrabili solo nella natura maschile.

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Le donne, infatti, anche per buona parte del XX secolo, erano definite con stereotipi sessuali tendenti ad evidenziarne una natura emotivamente instabile ed insicura.

Si consideri, ad esempio, la definizione che Michel Bauer ha dato alla parola imprenditore: “In parte homo economicus interessato ai risultati dell’azienda e ai guadagni che produce. In parte è homo politicus che, come tutti gli uomini politici cerca di consolidare il suo potere o quanto meno di conservarlo. Infine è pater familias che, come molti padri di famiglia, cerca a suo modo di aiutare i figli” (Bauer, 1997: 65).

Inoltre, oltre ai problemi di tipo culturale appena descritti, bisogna considerare anche un altro fattore di natura più pratica quale l’istruzione.

Infatti, per lungo tempo, la popolazione femminile non ha avuto la possibilità di avere un’istruzione elevata, se non addirittura di un titolo universitario. Ovviamente questo requisito minimo e indispensabile ha reso difficile l’accesso delle donne alla maggior parte delle alte professioni.

Quanto detto finora ha influenzato anche le ricerche e le analisi svolte nel tempo, poiché condotte sulla base di modelli professionali-tipo appartenenti all’universo professionale esistente, costituito quasi esclusivamente da uomini. Come sostiene Maura Franchi, quando si parla di impresa, infatti il riferimento è sempre ad un soggetto “Neutro, asessuato, in genere maschio o trattato implicitamente come tale anche quando non lo è” (Franchi, 1992: 16).

Infatti, i tradizionali studi in ambito manageriale e sull’imprenditorialità tendono a trattare l’imprenditoria con un approccio economicistico e fondamentalmente neutro nei confronti degli attori operanti in quel settore di attività, ossia questi studi presentano

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disinteresse verso le tematiche di genere e modellano le analisi sull’imprenditoria intorno alla figura di imprenditore di sesso maschile. In altre parole, la componente femminile o non viene presa in considerazione oppure viene considerata come minoritaria e da assimilare per comportamenti ed attitudini alle caratteristiche dell’imprenditore-tipo.

Comunque, come detto all’inizio, vi è un aumento dell’imprenditoria femminile e tale fenomeno è diventato evidente, in particolare, a partire dagli anni Ottanta. Le imprese in rosa oggi sono il 23,8% del totale e sebbene molte di loro appartengano ai settori di attività considerati di naturale pertinenza delle donne, quali i servizi alle persone ed il commercio, le donne si stanno mettendo alla prova anche nei settori ad elevata crescita e ad alta tecnologia.

Negli Stati Uniti, per esempio, nota Adriana Castagnoli, docente dell’Università di Torino, il 43% delle giovani imprese femminili, pur partendo da condizioni simili (start up o acquisizione dei capitali) a quelle guidate da uomini, ha superato in tre anni la quota del 30% come crescita nel reddito e nell’occupazione, sorpassando il 38% delle aziende maschili che hanno toccato lo stesso traguardo (Anonimo, 2006b).

La percentuale delle imprenditrici è in crescita e negli ultimi anni è diventato un fenomeno talmente evidente da fare storia a sé, poiché è in controtendenza con lo sviluppo del mercato del lavoro che penalizza ancora l’occupazione femminile (scesa, secondo l’Istat, dal 45,1% del 2004 al 44,8% del 2005, il tasso più basso in Europa) (Brugnoli, 2006).

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1.4 Gli studi sull’imprenditoria femminile

L’imprenditoria femminile è un argomento che, fino ad alcuni anni fa non aveva riscosso grande interesse ed attenzione sia da parte del mondo accademico sia dalle politiche sociali ed economiche.

Lo scarso interesse riguardava sia le tematiche legate allo sviluppo locale in relazione alla creazione d’impresa, sia quelle più generali legate alla presenza femminile nel mercato del lavoro ed agli altri ruoli della donna nella società.

Sulla base di queste premesse è quindi facile comprendere come mai il recente interesse per l’imprenditoria femminile si sia venuto ad introdurre in un panorama teorico che non è stato in grado di elaborare gli strumenti concettuali necessari a comprendere il fenomeno in questione.

È soltanto a partire dagli anni ‘70 che si è verificata una crescente attenzione, soprattutto negli Stati Uniti ed in Gran Bretagna, per l’imprenditoria femminile mediante studi caratterizzati da una forte interdisciplinarità che hanno attinto da più strumenti concettuali inseribili in diverse discipline, in particolare nella sociologia, negli studi psicosociali, nell’approccio manageriale e nella cultura d’impresa (Franchi, 1992).

Da parte del mondo accademico non sono state svolte molte ricerche se non a partire dagli anni ‘80 e questo ha determinato la presenza di contributi teorici minimi nei confronti di tale argomento cui fare riferimento.

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Tra le ragioni che sono alla base di questa situazione ci sono quelle relative:

- agli studi in ambito manageriale ed organizzativo, che hanno trattato l’imprenditoria solo con un approccio di tipo economico e fondamentalmente neutro nei confronti degli attori operanti in quel settore di attività;

- agli studi sociologici sul lavoro femminile incentrati su un approccio legato prevalentemente alla domanda piuttosto che all’offerta di lavoro, limitando così la conoscenza dei comportamenti dell’offerta e delle strategie messe in atto dai soggetti nella costruzione del proprio percorso di lavoro.

Nelle indagini sociologiche sulla formazione delle imprese degli anni ‘70 la categoria genere è rimasta estranea per lungo tempo, in quanto, come afferma Maura Franchi si fa riferimento ad un soggetto “Neutro, asessuato, in genere maschio, o trattato implicitamente come tale anche quando non lo è”( Franchi, 1992: 16).

La scelta imprenditoriale è stata così riportata a dinamiche eccessivamente lineari di sviluppo di un unico modello: quello del maschio lavoratore, che in un’età compresa tra i 30 e i 40 anni investe le risorse professionali accumulate nel lavoro dipendente nella creazione di una nuova attività.

In altre parole, la componente femminile o non era presa in considerazione oppure veniva considerata come minoritaria e da

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Anche dopo la diffusione degli women’s studies2, paradossalmente, non si è automaticamente posta fine al disinteresse per questa tematica.

Infatti, nella loro stagione iniziale, gli studi di genere applicati al mondo del lavoro si sono concentrati prevalentemente sugli aspetti più negativi delle esperienze lavorative femminili, mettendo in evidenza le situazioni di discriminazione e di segregazione di cui le donne sono state spesso vittime.

Il filone degli studi condotti da alcune donne sul tema del lavoro femminile ha attribuito la causa di tale disinteresse alla prevalenza per lungo tempo (motivata dalla segregazione e dalla debolezza di tanta parte del lavoro femminile) di una visione volta ad evidenziare le discriminazioni cui le donne erano soggette.

Un tale approccio, ha segnato a lungo le analisi ed il dibattito attorno al lavoro femminile ed alle politiche, da quelle di tutela a quelle di pari opportunità (Franchi, 1992).

2 women's studies: "Approccio multidisciplinare all'analisi e alla conoscenza della posizione e dell'esperienza delle donna nelle società patriarcali di oggi e di ieri. Emersi di pari passo con la crescita del movimento di liberazione femminile alla fine degli anni '60, i programmi di women's studies sono stati sviluppati ed estesi in istituti di studi superiori in Europa e negli Stati Uniti. Basati essenzialmente sulla fedeltà alle teorie femministe, sia metodologiche che pratiche, i programmi di women's studies cercano, attraverso un approccio alla conoscenza incentrato sulle donne, di sfidare le false rappresentazioni della donna nelle discipline tradizionali, inclusa la sociologia. Il contenuto dei corsi di women's studies è nato dal lavoro delle femministe nelle scienze umanistiche, naturali e sociali. E' stato inoltre influenzato dal lavoro delle femministe nella comunità ed in particolare nelle organizzazioni di donne. In questo modo i programmi degli studi delle donne sono emersi dall'esperienza diretta di donne e dalla risposta al dominio e all'oppressione sessuale. Un obiettivo essenziale degli studi sulle donne è quello di rendere visibile l'impegno delle donne nella società e nella cultura rendendo nello stesso tempo chiaro il pregiudizio maschile sotteso alla conoscenza tradizionale. I programmi di women's studies cercano di gettare una sfida alle maggiori forme di discriminazione e ai rigidi confini che demarcano nettamente una materia accademica da un'altra. Così facendo offrono una critica radicale delle conoscenze accademiche e della pratica educativa. Il contenuto di questi programmi è vario, ma la maggior parte dei corsi tende ad unire un'analisi femminista dell'oppressione della donna con lo sviluppo di capacità pratiche come la capacità decisionale. I tradizionali metodi di insegnamento sono rivalutati alla luce dei bisogni delle donne e vengono messi in relazione agli aspetti teoretici con

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È soltanto durante gli anni Ottanta che gli studi femministi sul lavoro cominciano ad ampliare i propri orizzonti ed a considerare temi quali la cultura sessista, prendendo in esame, in particolare, le relazioni tra genere e potere nei luoghi di lavoro.

Anche in questi ambiti l’attenzione tende però a concentrarsi maggiormente sul lavoro dipendente, sia perché in questo campo sono più evidenti le situazioni di segregazione e di discriminazione nei confronti delle donne, sia perché l’imprenditoria femminile, oltre che poco significativa dal punto di vista dimensionale, tende ad essere considerata come una situazione di privilegio alla portata di poche donne e quindi non abbastanza importante da essere presa in considerazione.

Solo a partire dagli anni ’90 inizia l’interesse per l’imprenditoria delle donne secondo un’ottica di valorizzazione delle risorse imprenditoriali.

Oggi ha senso parlare delle imprese femminili per il crescente peso economico che stanno acquistando a livello sia nazionale sia locale (a livello nazionale, infatti, rappresentano il 23,8% del totale mentre a livello locale la percentuale all’interno di alcune regioni è distribuita come segue: Lazio 26,5%, Campania 28,0%, l’Abruzzo 28,4%, Basilicata 29,7%, Molise 32,1), sottolineandone quindi la realtà produttiva, le potenzialità di crescita in relazione allo sviluppo economico del territorio (vedi figura 1).

Per la donna, infatti, nota Adele Pesce, il lavoro è diventato

“Importante per la possibilità che offre nel presente, immettendola in un ambito allargato, con altri punti di riferimento che non siano la famiglia;

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della sua prestazione lavorativa non sono più affidati alla sola mediazione affettiva”(Pesce, 1986: 86).

La femminilizzazione del mercato del lavoro legato alla terziarizzazione, avvenuta a partire dagli anni ’80, ha costituito un momento di cambiamento che ha portato delle conseguenze indelebili, oltre che sull’assetto socio-economico e sulla distribuzione dei ruoli di lavoro, anche sull’identità lavorativa della donna.

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1.4.1 La condizione dell’imprenditrice tra gli anni ’70 e’80

In effetti, gli studi sulle imprenditrici, che prendono il via negli anni

‘70 negli Stati Uniti, basandosi su modelli interpretativi neutri, non possono che evidenziare le carenze mostrate dalle donne nell’avvicinarsi a tale professione, idealmente costruita sulla figura maschile: mancanza di adeguata formazione, responsabilità familiari, che ne limiterebbero la totale dedizione all’impresa, scarsa presenza di network professionali e di conseguenza maggiori difficoltà a reperire informazioni e ad accedere al credito. Da quanto descritto affiora la figura di un’impresa femminile strutturalmente debole, a causa della sottovalutazione degli aspetti manageriali, della sottocapitalizzazione, delle minori dimensioni e di una più bassa redditività.

Negli anni ‘80, l’aumento delle esperienze imprenditoriali femminili ha permesso lo svolgimento di ricerche e di analisi maggiormente mirate alla comprensione delle peculiarità di tali imprese.

A tale proposito Rosabeth Moss Kanter3, ad esempio, nel campo degli studi organizzativi, ha messo in evidenza, in questo periodo, la necessità di inserire variabili quali la struttura di genere delle opportunità e del potere, nonché la distribuzione quantitativa dei due sessi, negli studi che necessitano la comprensione delle diversità di comportamento tra uomini e donne nelle imprese (Kanter, 1982).

3 Afferma Rosabeth Moss Kanter: “ Lo stereotipo più diffuso a giustificare l’esclusione delle donne da posizioni di potere riguarda la loro presunta eccessiva emotività, laddove gli uomini detengono il monopolio della razionalità: le donne rappresentano l’antitesi del dirigente

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In effetti, vicino alle problematiche incontrate dalle donne nella creazione d’impresa (scarsa formazione specifica, barriere ed ostacoli soprattutto nei settori economici non tradizionali), gli studi svolti in questo periodo iniziano a soffermarsi maggiormente sulle peculiarità specifiche delle imprenditrici, sia dal punto di vista socio-demografico, sia sotto il versante delle motivazioni che, nelle diverse situazioni, porterebbero le donne ad entrare nel mondo dell’impresa.

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Figura 1 - Consistenza delle imprese italiane per regione e ripartizione geografica

Fonte: Rapporto di genere, Retecamere, marzo 2006

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Le questioni a cui tentano di dare risposta, sono proiettate alla ricerca dei o del significato che ha per una donna la scelta di un percorso imprenditoriale, accantonando così il tradizionale modello neutro, per basarsi sulla progressiva affermazione del paradigma di genere, quale variabile interpretativa principale, per capire le diverse dinamiche presenti all’interno del sistema delle imprese e della professione imprenditoriale (David, 2006).

Dagli studi svolti è emerso che la crisi del fordismo, alla fine del XX secolo, ha aperto il mercato a tipologie del tutto nuove, sotto l’aspetto organizzativo; l’impresa di successo non si connota più per la grande dimensione, quanto invece per la capacità di essere reattiva. Tale capacità è più facile da garantire con la piccola dimensione aziendale strutturata orizzontalmente, perché può poggiare sulla consapevolezza di network professionali e sulla flessibilità mentale del fattore umano (Accornero, 1997).

Sotto questi aspetti, dunque, l’impresa post-fordista è indubbiamente più vicina ad un approccio gestionale proprio della realtà imprenditoriale femminile, perché caratterizzato dalle seguenti peculiarità:

- l’abitudine alla flessibilità ed all’adattabilità;

- le capacità relazionali ed organizzative accumulate nella gestione del proprio quotidiano;

- uno stile prevalentemente informale;

- l’abitudine all’impiego di risorse personali;

- la ricerca della soddisfazione del cliente, quale punto chiave per la valutazione del risultato.

Queste caratteristiche oggi rappresentano un punto di forza per le imprese in genere ed è sempre maggiore la consapevolezza che esse

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costituiscano risorse da sostenere e valorizzare, piuttosto che segnali di debolezza e di irrazionalità economica (Giannini, 2000).

1.4.2 La condizione dell’imprenditrice dagli anni ’90 ad oggi

Negli anni ‘90, come già accennato, i paesi industrialmente avanzati si trovano di fronte al fenomeno della diffusione dell’imprenditoria femminile, visibile attraverso l’alta percentuale di crescita delle nuove imprese costituite da donne. In Danimarca, ad esempio, il 33% delle nuove imprese nate tra il 1990 ed il 1998 sono femminili; in modo analogo, anche le statistiche francesi rilevano un tasso di incremento delle nuove aziende del 30 % tra il 1994 ed il 1998. Alla fine del periodo, negli Stati Uniti è il 38% delle aziende ad essere femminili, mentre in Canada è il 33% delle piccole e medie imprese ad avere a capo una donna, come in Corea, dove tale percentuale è pari al 32% (OECD, 2001).

Per quanto riguarda l’Italia, le statistiche nazionali a disposizione, classificando in un’unica categoria gli imprenditori ed i lavoratori autonomi, non sono di grande aiuto per conoscere precisamente la reale consistenza del fenomeno imprenditoriale. Non sorprende, quindi, come negli ultimi anni siano aumentate le esperienze di ricerca e le analisi statistiche, specie su base locale, orientati a fornire un quadro di conoscenza dell’imprenditoria più ampio ed analitico.

Riferendoci intanto alle statistiche nazionali, si rileva come fra gli anni ’60 e ‘90 il nostro Paese abbia registrato una crescita di donne

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coadiuvanti e l’incremento delle lavoratrici che si definiscono imprenditrici (Ruggerone, 2000).

Per avere un indicatore aggiornato e specifico della diffusione del fenomeno imprenditoriale nella realtà italiana, occorre fare riferimento a statistiche relative alla titolarità d’impresa, che mostrano come in Italia, nel 2000, le donne titolari d’impresa fossero 875.703, pari al 25,4% del totale4.

Come si vede, la presenza delle imprenditrici, è cresciuta quantitativamente, anche se comunque continua a costituire una fetta minoritaria nella classe degli imprenditori e ciò vale sia in Italia che negli altri paesi sviluppati.

Inoltre gli anni ’90 vedono il moltiplicarsi anche di indagini e ricerche sull’universo imprenditoriale femminile, che utilizzando metodologie spesso caratterizzate dalla interdisciplinarità e dalla forte attenzione agli aspetti qualitativi, propongono diverse immagini di imprenditrici, tra loro accomunate da alcuni elementi caratteristici:

- il grande valore assegnato all’autorealizzazione ed alla esperienza concreta rispetto agli elementi più strettamente economici dell’impresa;

- il forte peso attribuito, per misurare il proprio successo, alle opportunità di crescita personale e professionale;

- l’accentuato senso di autostima alla base della sfida del mettersi alla prova in un campo pesantemente segnato da modelli maschili.

Le imprese femminili non sono diffuse in modo omogeneo nei diversi settori economici e nelle possibili forme aziendali. Risultano più

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concentrate in alcuni specifici settori di attività a tradizionale occupazione femminile, come nel terziario, nei servizi alle persone, nel commercio al minuto, nell’ambito manifatturiero e nell’abbigliamento. Diverse sono le spiegazioni di tale fenomeno.

La prima si riferisce al fatto che le imprenditrici potrebbero avere di questi specifici settori una conoscenza maggiore, anche per possibili esperienze di lavoro precedenti, e quindi essere più interessate da questi.

Un’altra spiegazione punta, invece, a mettere in evidenza l’eventuale carenza, nelle imprenditrici, di quelle professionalità tecniche indispensabili per entrare in settori diversi da quelli tradizionali femminili, verso i quali non si avvierebbero.

Una terza interpretazione, infine, collega le scelte delle imprenditrici al perdurare, nel campo delle relazioni economiche, di situazioni di disparità tra i sessi, rappresentate, ad esempio, dalle maggiori difficoltà incontrate dalle donne nell’accesso al credito. Tali scogli le spingerebbero verso i settori a più bassa intensità di capitale, quali, appunto, i settori tradizionalmente femminili (Ruggerone, 2000).

Per quanto riguarda la dimensione d’impresa c’è una decisa prevalenza, nel caso di aziende femminili, della forma microimprenditoriale, che peraltro permetterebbe l’uso di procedure gestionali semplificate (Ligabue, 1992).

Altrettanto accade per ciò che riguarda la natura giuridica delle aziende, dal momento che le imprenditrici sembrano privilegiare la ditta individuale rispetto alla società ed alle forme giuridiche più complesse (vedi figura 2).

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lavorativi più eterogenei dei maschi e sono caratterizzati da una maggiore discontinuità: ancora oggi i loro percorsi professionali sono spesso fermati dal matrimonio o dalla nascita dei figli. Tra le imprenditrici una percentuale più alta che tra gli uomini, proviene da una condizione di non occupazione (il 60% contro il 5%); così, più donne che uomini, vedono nell’impresa un mezzo per tornare nel mondo del lavoro e pianificano la loro attività professionale in maniera meno ambiziosa.

Figura 2 - Distribuzione delle imprese femminili attive per classe di natura giuridica a livello nazionale

Fonte: Rapporto di genere, Retecamere, marzo 2006

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Sono quindi, la maggiore discontinuità e le differenti esperienze di lavoro che spiegano il diverso bagaglio di risorse disponibili, il minore affidamento su abilità di mestiere e su competenze di tipo tecnico e la maggiore mobilitazione, invece, di abilità organizzative e relazionali (Franchi 1992).

Ciò non significa che i percorsi delle imprenditrici non siano eterogenei. Questo aspetto è stato messo in evidenza già alcuni anni fa da una ricerca relativa all’analisi delle ragioni che spingerebbero le donne ad avviare un’attività. Lo studio ha fatto risaltare l’esistenza di tre figure di imprenditrici: quelle che utilizzano l’impresa per sviluppare la propria carriera lavorativa, quelle che l’hanno scelta spinte dall’esigenza di ricoprire un duplice ruolo, lavorativo e familiare e quelle, infine, che dopo aver interrotto il lavoro, magari per crescere i figli, vogliono recuperare una dimensione di autonomia e di gratificazione personale (Cromie e Hayes, 1998).

Anche altre ricerche hanno messo in evidenza l’eterogeneità dei percorsi, anche se hanno incluso tra le varie figure della donna imprenditrice anche quella che desidera portare avanti l’attività dell’azienda di famiglia (Franchi, 1992).

Comunque, sembra essere la variabile età quella maggiormente significativa per capire molte differenze nei comportamenti delle imprenditrici.

Le giovani, in generale, puntando di più sull’impresa come soluzione alla disoccupazione, mostrerebbero un più deciso orientamento alla ottimizzazione dei profitti, compensando la carenza di esperienze

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Negli ultimi anni, ad esempio, si hanno alcuni riscontri del fatto che le donne hanno iniziato a fare il loro ingresso nei settori economici più competitivi ed innovativi; in effetti, sono proprio le giovani ad essere più rappresentate in alcune particolari categorie di servizi alla persona (salute, tempo libero, cultura e sport) e nei servizi alle imprese (professioni legali, consulenze e formazione), mentre sono molto meno partecipi nei settori più consueti del commercio al dettaglio e degli esercizi commerciali ed alberghieri (OECD, 2001).

Le imprenditrici più adulte, dal canto loro, vedrebbero nella rete delle loro relazioni la vera leva fondamentale per superare i problemi nella fase di avvio dell’impresa o per sostenerla nel suo sviluppo; per questa fascia di età, in generale, l’impresa è un’opportunità di crescita professionale e personale, che si deve abbinare con la vita familiare.

In conclusione, nella fase dell’industrializzazione il modello di donna emerso era quello per cui la donna che lavorava era giovane o senza responsabilità familiari oppure obbligata al lavoro per necessità economiche, con scarso interesse verso le esperienze lavorative e sempre proiettata verso la sfera familiare.

A partire dagli anni ’70 si afferma invece in modo generalizzato l’idea che per le donne adulte avere un lavoro retribuito non dipende più soltanto dalle necessità familiari, ma è sempre più un diritto-dovere connesso all’essere adulte.

Anche se esistono ancora alcuni elementi di fondo problematici, quali la segregrazione occupazionalee la doppia presenza5, il fenomeno

5 Concetto elaborato da Laura Balbo (1977), “rappresenta un tentativo di cogliere il significato in termini di struttura di vita e di definizione di sé, dell’intreccio di molteplici esperienze di

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dell’imprenditoria femminile ormai è oggettivamente in crescita e questa situazione accomuna gran parte dei paesi economicamente sviluppati6.

Perciò non è cambiato soltanto il modello di partecipazione alle forze di lavoro (in termini percentuali di donne occupate), ma anche quello di tipo culturale e sociale e di investimento nell’esperienza lavorativa.

Appare chiaro cioè che il lavoro per la donna non è più una circostanza eccezionale o deviante, ma la normalità, in cui aspetti di costrizione (le necessità di reddito familiare) si intrecciano con quelli di emancipazione (Franchi, 1992).

Ovviamente, questo percorso è stato agevolato anche da parte della sfera politico-istituzionale sia mediante le leggi nazionali sia mediante iniziative a livello europeo, (come vedremo nel prossimo capitolo) poiché è importare garantire uno sviluppo significativo, equo e solidale anche sotto questo aspetto.

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CAPITOLO 2

LE POLITICHE PER L’IMPRENDITORIA FEMMINILE

2.1 Introduzione

Nel capitolo precedente si è parlato delle tematiche storiche legate all’occupazione femminile sia in generale, sia nel campo dell’imprenditoria femminile. Da quanto detto è emersa l’importanza che il contesto socio-culturale ha avuto ed ha tuttora al fine della nascita e dello sviluppo delle imprese.

Non si può tuttavia, non considerare anche le tematiche relative all’ambito politico istituzionale poiché questo contesto ha contribuito, di fatto, a definire l’insieme delle opportunità disponibili per la creazione d’impresa e per il generale sviluppo economico.

Inoltre, di fronte ad un problema di sviluppo, le istituzioni intervengono attraverso azioni specifiche, che hanno lo scopo di favorirlo ed è proprio in questa ottica che si propongono le misure per la promozione dell’imprenditoria e dell’imprenditorialità femminile.

L’attenzione rivolta all'imprenditoria femminile dalle politiche pubbliche, si fonda su un’analisi della realtà che sottolinea i vincoli per le donne che decidono di diventare imprenditrici, infatti, come afferma Castellano: “Le donne più di altri soggetti, incontrano ostacoli di ordine economico, sociale – prevalentemente legato al doppio ruolo – e culturale, nel duplice significato di cultura della società e cultura del singolo, che

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