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La difficoltà di intraprendere la scelta collaborativa

Si è giunti quasi alla fine di questo capitolo.

Mi sia concesso svolgere ora una serie di considerazioni che esulano parzialmente da una disamina dai toni distintamente giuridici e che potrebbero apparire maggiormente pertinenti a una trattazione di tipo sociologico.

Anche se in apparenza i membri delle organizzazioni coinvolti dalle inchieste ottengono numerosi vantaggi dalla scelta di collaborare con la giustizia, bisogna sempre ricordare che concretamente è molto più difficile di quanto sembri intraprendere questo percorso.

Nonostante la disciplina legislativa appresti una tutela definita nei confronti dei collaboratori e dei loro familiari, non si può certo negare che nella prassi si sono talvolta manifestati problemi applicativi.

la specifica accusa, alla stregua della sua personalità e delle ragioni che l’hanno indotto a coinvolgere l’indagato”.

118 Cass. Pen., Sez. VI, sent. n. 513/99: “Occorre apprezzare la precisione, la coerenza interna e la ragionevolezza...ai fini dell’attendibilità intrinseca”.

119 Cass. Pen., Sez. VI, sent. n. 661/96: si tratta di “fatti storici che, se anche da soli non raggiungono il valore di prova autonoma di responsabilità del chiamato in correità (...) complessivamente considerati e valutati risultino compatibili con la chiamata in correità e di questi rafforzativi”.

Aldilà di pochi irriducibili che non intendono collaborare perché si ritengono ‘uomini d’onore’ e come tali non vogliono venir meno al giuramento di fedeltà compiuto al momento dell’affiliazione, in molti casi gli affiliati vorrebbero rompere questo muro di silenzio e superare per questa via i rigidi limiti imposti dall’applicazione degli artt. 4-bis e 41-bis o.p. (di cui si dirà nei capitoli seguenti); se non lo fanno è perché temono di esporsi personalmente ad atti ritorsivi e hanno paura di mettere in pericolo l’incolumità dei propri cari.

Questo elemento non va sottovaluto perché impedisce di estendere il più possibile la disciplina della collaborazione di giustizia con evidente danno per il nostro ordinamento, che promuove tale istituto, e per tali soggetti, ai quali è così impedito di accedere a determinati benefici penitenziari e di vedersi stemperare il trattamento di rigore che caratterizza l’esecuzione della propria pena.

Non ne beneficia nemmeno il prosieguo delle indagini: è indubbio che la mancata collaborazione di giustizia dei membri delle organizzazioni, che costituiscono una fonte indispensabile di notizie per gli inquirenti, comporti un nocumento per le inchieste antimafia, in quanto i magistrati e le forze di polizia non possono in questo modo poggiare sulle dichiarazioni dei diretti appartenenti alle cosche per compiere i loro riscontri.

A questo proposito è significativo il dato riguardante il numero di collaboratori di giustizia provenienti dalle ‘ndrine calabresi: come si è già avuto modo di evidenziare, nonostante l’espansione raggiunta dalle indagini riguardanti la mafia calabrese, considerata ad oggi la più potente organizzazione criminale d’Italia, e l’impegno profuso da magistrati indefessi per debellare in queste aree tale fenomeno, la ‘Ndrangheta continua a rappresentare il gruppo con il minor numero di collaboratori di giustizia rispetto alle sue proporzioni: i clan hanno struttura parentale ed è più difficile per i membri rinunciare ai propri affetti e ‘tradire’ la famiglia d’origine, da cui sarebbero irrimediabilmente abbandonati.

Se non ci è dato sapere i nomi di coloro che rimangono restii alla collaborazione per i succitati motivi, è vero, però, che si conoscono molte storie di lungo travaglio interiore, sfociate infine nella scelta di dissociarsi e intraprendere il percorso collaborativo a fianco dello Stato.

Purtroppo non sempre lo Stato sembra aver cura di queste persone, tradite dall’illusione di poter ricostruire una vita serena lontano dalle ritorsioni dei vecchi sodali mafiosi.

7.1. Un caso emblematico: la storia di A.

Tra le tante storie che si potrebbero raccontare si è pensato di riportare

quella di A121.

121 La vicenda di A. è raccontata, tra gli altri, in: CARDELLA C., MACALUSO M., Vite sotto

Ovviamente non è dato sapere il suo nome, né dove adesso si trovi assieme alla sua famiglia; si tratta di un collaboratore di giustizia siciliano che ha deciso di affidare il suo malumore e la sua sensazione di abbandono alle lettere col suo avvocato.

Nel lungo scambio epistolare intercorso con il legale A. racconta con tono disincantato le sofferenze che ha dovuto patire la sua famiglia in seguito alla scelta di collaborare con la giustizia, scelta che forse non rifarebbe più potendo tornare indietro.

Oltre al costante limbo in cui si trova sospeso nel non sapere se il programma di protezione gli verrà revocato o meno, sono anche altre le carenze che A. denuncia: una sera suo figlio è tornato a casa terrorizzato perché era stato pedinato da un’auto con targa siciliana; la bambina più piccola non riesce a costruirsi un’identità a causa del continuo cambio di località protetta e, conseguentemente, dei documenti di copertura.

L’insicurezza patologica è divenuta una costante delle vite di questa famiglia: lo stesso protagonista della storia è finito più volte al pronto soccorso a causa di una forte depressione ansiosa.

A tutto ciò si accompagna la consapevolezza di essere soli nel riprendere in mano la propria esistenza a causa della burocratizzazione del sistema, che sembra non tener conto che di mezzo ci siano delle persone.

Gli alloggi di emergenza sono spesso alberghi non attrezzati in cui questi soggetti sono costretti a permanere per molto tempo. Significativo il passaggio in cui A. denuncia di essere stato obbligato a trasferirsi improvvisamente con la famiglia in altro luogo per ragioni di sicurezza: “Ci hanno buttati in un albergo, siamo ridotti come degli zingari, siamo senza vestiario, è rimasto tutto a M. Mia moglie il bucato che lava lo mette da per tutto sulle sedie per asciugare, i miei figli si vergognano a uscire perché non hanno vestiti”.

Il futuro di A. e dei suoi familiari è incerto, manca di progettualità: lo Stato non è riuscito a mantenere la promessa di consentire loro una vita dignitosa lontano dalle possibili rappresaglie del gruppo criminale di provenienza.

A. si deve confrontare quotidianamente con le proprie fragilità e la consapevolezza che la scelta di collaborare ha sconvolto anche la vita dei suoi affetti più importanti. A. è tormentato da una domanda, da quella domanda: e se potessi tornare indietro?

Lungi da chi scrive cercare di suscitare del pathos nel lettore.

Questa brevissima parentesi è stata pensata per fornire delle suggestioni di natura non prettamente giuridica, al fine di aprire uno squarcio in un mondo talvolta osservato dai giuristi con freddo distacco e rispetto al quale assumere una prospettiva diversa può, a modesto parere, essere, invece, un arricchimento.