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Il quadro normativo previgente. Il regime di esecuzione differenziata

Come ricordato poco sopra, il secondo comma dell'art. 41-bis o.p. non è sempre stato parte dell'ordinamento penitenziario ed è stato introdotto in un momento particolarmente delicato della storia repubblicana, ovvero quello delle stragi di mafia di inizio anni '90.

Tale disposizione affondava, però, radici molto lontane nel tempo ed è oggi improprio affermare che sia stato solo il frutto del clima emergenziale in cui versò il nostro Paese a seguito dell'escalation di violenza che connotò l'azione di Cosa Nostra.

Sembra allora opportuno ripercorrere le tappe fondamentali che condussero all'emanazione di questa complessa disciplina.

Originariamente, e cioè con l'emanazione della l. 354/75324, il legislatore

aveva previsto una specifica norma a baluardo di possibili situazioni di emergenza nelle carceri: si trattava, come noto, dell'art. 90 o.p., inserito tra le 'Disposizioni transitorie e finali' del corpus penitenziario, ovvero a chiusura della

legge stessa325.

Recitava testualmente l'articolo: "Quando ricorrono gravi ed eccezionali motivi di ordine e sicurezza, il Ministro per la Grazia e la Giustizia ha la facoltà

324 Si tratta della legge sull'ordinamento penitenziario, come già specificato nel capitolo precedente.

325 Per questo motivo la norma era stata definita in dottrina "clausola finale", dizione attraverso cui si intendeva sottolineare la portata della disposizione, attraverso cui si "consentiva all'esecutivo di far prevalere la ragion di stato e rendere in tal modo inoperante l'intero ordinamento penitenziario in ossequio all'ordine ed alla sicurezza della collettività"; così in: MARTINI A., Art. 19 - Sospensione delle normali regole di trattamento penitenziario, in 'Leg.

pen.', 1993, f. 1, p. 208. Per un commento analogo: CORVI P., Trattamento penitenziario e criminalità organizzata, cit., p. 116.

di sospendere in tutto o in parte, l’applicazione in uno o più stabilimenti penitenziari, per un periodo determinato, strettamente necessario, delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla presente legge che possano porsi in concreto in contrasto con le esigenze di ordine e sicurezza".

La previsione, che apparve subito troppo vaga e imprecisa, intendeva far fronte a quelle ipotesi di tumulti e disordini intramurari frequenti negli anni '70, e che sarebbero stati una costante anche nel decennio successivo.

L'idea sottostante era quella che potessero ad esempio essere trasferiti in altre sezioni o altri istituti i detenuti più violenti, i quali rappresentavano un pericolo alla tenuta del sistema carcerario in tema di sicurezza interna.

Vale poi la pena sottolineare che nella maggior parte dei casi tali soggetti non erano criminali comuni, ma si trattava normalmente di affiliati ad associazioni di tipo terroristico o mafioso, che intendevano far valere la propria influenza anche all'interno delle mura del carcere, divenuto in breve tempo il

luogo prediletto per il reclutamento di nuova manovalanza criminale326.

Era allora in nuce la predisposizione di appositi circuiti penitenziari, volti ad accogliere i soggetti considerati maggiormente pericolosi non solo sotto il profilo del procurato allarme sociale, ma anche sotto quello dell'incolumità degli altri detenuti327.

Il Ministro di Grazia e Giustizia si assumeva la responsabilità politica del provvedimento di sospensione delle normali regole di trattamento, il cui contenuto disciplinava modi e tempi della sospensione medesima e doveva indicare i gravi motivi che avrebbero legittimato la sua applicazione.

Emanata la legge di riforma dell'ordinamento penitenziario, l'art. 90 o.p. divenne immediatamente bersaglio di critiche, in quanto diverse furono le voci che rilevarono quanto tale disposizione rappresentasse un ritorno a un approccio marcatamente general-preventivo dell'istituzione carceraria a scapito delle istanze risocializzative che, almeno formalmente, dovevano rappresentare

la ratio ispiratrice dell'intera riscrittura del sistema penitenziario328.

Nella costante tensione tra istanze custodialistiche e trattamentali sembrava fossero qui prevalse le prime, senza che ciò fosse quantomeno riequilibrato attraverso la predisposizione di un sistema di impugnabilità del

provvedimento restrittivo329.

326 MARTINI A., Art. 19 - Sospensione delle normali regole di trattamento penitenziario, cit., p. 210.

327 ARDITA S., Il regime detentivo speciale 41-bis, Milano, Giuffrè, 2007, p. 4 ss. L'autore ripercorre con molta linearità i passaggi fondamentali che portarono all'istituzione nel 1977 delle prime carceri speciali, che si caratterizzarono per l'applicazione generalizzata del regime di cui all'art. 90 o.p. Non essendo possibile in questa sede esaurire adeguatamente l'argomento, si ritiene opportuno rinviare a quelle pagine per un approfondimento.

328 Per una riflessione in tal senso si veda: MARTINI A., Art. 19 - Sospensione delle normali

regole di trattamento penitenziario, cit., p. 208.

329 DE RIENZO N., Il regime sospensivo previsto dal secondo comma dell'art. 41-bis

2.1. Le novità della 'legge Gozzini'. La sospensione delle normali regole di trattamento in caso di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza interne

Proprio per valorizzare le sempre più ineludibili esigenze di prevenzione speciale nel 1986 faceva ingresso nel panorama penitenziario la prima grande riforma della l. 354/75; si sta parlando, come è ovvio, della c.d. 'legge Gozzini', ovvero la l. 663/86.

In realtà, alcuni formali cambiamenti non comportarono un mutamento nell'impostazione con cui si affrontava il tema della sicurezza all'interno degli

istituti di pena.

Tra le novità introdotte, per quel che qui rileva, vi era l'art. 41-bis o.p.330,

formulato (inizialmente) in un unico comma, con il quale veniva abrogato quanto disposto dall'art. 90 o.p.

La norma, apparentemente sovrapponibile nei contenuti a quanto stabilito dalla vecchia disciplina, aveva sì la medesima ratio, ma presupposti parzialmente differenti.

Prima di addentrarsi in altri commenti, conviene allora riproporne il testo, tuttora vigente: "In casi eccezionali di rivolta o di altre gravi situazioni di

emergenza, il Ministro della Giustizia ha facoltà di sospendere nell'istituto interessato o in parte di esso l'applicazione delle normali regole di

trattamento dei detenuti e degli internati. La sospensione deve essere motivata dalla necessità di ripristinare l'ordine e la sicurezza e ha la durata strettamente necessaria al conseguimento del fine suddetto".

Intento del legislatore era ancora una volta quello di arginare eventuali fenomeni violenti all'interno degli istituti di pena a salvaguardia dei funzionari e degli altri detenuti, stabilendo "il preciso diritto-dovere dello Stato di difendere la collettività (...) dai rischi impliciti ad una perdita di controllo dell'istituzione penitenziaria"331.

Migliorata era, però, la definizione dei presupposti che legittimavano il ricorso a provvedimenti sospensivi; veniva lasciata minore discrezionalità all'autorità politica, che aveva maglie interpretative meno larghe: a differenza di quanto era stato possibile nel vigore dell'art. 90 o.p., tale opzione era legata al verificarsi di rivolte e altri gravi emergenze scaturite all'interno dell'istituto o di una sua sezione.

In sostanza, veniva in questo modo inibito al potere esecutivo di intervenire con provvedimenti sospensivi laddove le situazioni di emergenza

cura di), Criminalità organizzata e politiche penitenziarie, cit., p. 133; tale limite è stato messo in evidenza anche da: ARDITA S., Il regime detentivo speciale 41-bis, cit., p. 8, nonché CORVI P., Trattamento penitenziario e criminalità organizzata, cit., p. 114.

330 Norma introdotta dall'art. 10, l. 10 ottobre 1986, n. 633.

331 MARTINI A., Art. 19 - Sospensione delle normali regole di trattamento penitenziario, cit., p. 210.

non facessero peculiare riferimento a fatti e circostanze intramurarie, non essendo presupposti legittimanti gli accadimenti fuori del carcere.

Degna di nota era pure la rinnovata collocazione sistematica della norma, ora inserita nel Capo IV del Titolo I, dedicato più specificatamente al 'Regime penitenziario', come a suggerire la ricerca di una maggiore armonia con i

principi fondamentali dell'ordinamento332.

Sulla scia dell'abrogato art. 90 o.p. anche con riferimento al regime di cui all'art. 41-bis, comma 1, o.p. il legislatore non ritenne necessario prevedere espressamente la reclamabilità del provvedimento sospensivo.

Ancora una volta si era inteso sottolineare il carattere amministrativo e non giurisdizionale del relativo decreto.

Il regime stabilito con l'art. 41-bis, comma 1, o.p. non ebbe comunque grande successo pratico: la prassi giudiziaria conosce ad oggi un solo caso di applicazione della suddetta disposizione, quando il Ministro di Grazia e Giustizia sospese con decreto del 24 maggio 1989 alcune regole di trattamento presso una sezione della casa circondariale di Palermo Ucciardone fino al 31

luglio dello stesso anno333.

2.2. Il regime di sorveglianza particolare

Con la 'legge Gozzini' faceva poi ingresso un nuovo istituto penitenziario, questa volta del tutto peculiare rispetto alle esperienze del passato.

Si trattava del c.d. regime di sorveglianza particolare, disciplinato dai nuovi

artt. 14-bis, ter e quater o.p.334, tuttora vigenti.

La ratio legis da cui muoveva l'introduzione di questo articolato era qui molto diversa rispetto a quella appena analizzata in riferimento al comma 1 dell'art. 41-bis o.p., così come differente era la struttura delle norme.

Anche in questo caso l'ubicazione delle disposizioni è sintomatica delle intenzioni con cui ha operato il legislatore: le norme trovano infatti collocazione nel Capo III del Titolo I, rubricato 'Modalità di trattamento', scelta da cui trapela l'idea che il regime ivi disciplinato si caratterizzi per "l'individualizzazione del

trattamento basata sulla personalità del soggetto e sulla sua pericolosità"335;

detto altrimenti, appare questo un indizio della cifra non punitiva, bensì cautelare dell'istituto.

Come sempre, prima di compiere ulteriori valutazioni si rende necessario riproporre il testo dell'art. 14-bis o.p., e, in particolare, il suo comma 1, in cui il legislatore definisce presupposti legittimanti e funzionamento del suddetto regime.

332 CORVI P., Trattamento penitenziario e criminalità organizzata, cit., p. 116. 333 ARDITA S., Il regime detentivo speciale 41-bis, cit., p. 13 (nota 2).

334 Norme introdotte dall'art. 1, l. 10 ottobre 1986, n. 633.

335 FASSONE E., BASILE T., TUCCILLO G., La riforma penitenziaria, Napoli, Jovene,1987, p. 103.

Ecco, dunque, la norma: "Possono essere sottoposti a regime di sorveglianza particolare per un periodo non superiore a sei mesi, prorogabile anche più volte in misura non superiore ogni volta a tre mesi, i condannati, gli

internati e gli imputati:

a) che con i loro comportamenti compromettono la sicurezza ovvero

turbano l'ordine negli istituti;

b) che con violenza o minaccia impediscono le attività degli altri detenuti o internati;

c) che nella vita penitenziaria si avvalgono dello stato di soggezione degli altri detenuti nei loro confronti."

Già a una prima lettura del comma 1 dell'art. 14-bis o.p. appare evidente la differenza con quanto statuito dal comma 1 dell'art. 41-bis o.p.: il legislatore intendeva sottoporre a regime di sorveglianza particolare quei soggetti, che si caratterizzavano per aver espletato condotte direttamente ascrivibili alla loro persona.

In ragione di un determinato comportamento, possibilmente reiterato, al detenuto o all'internato veniva applicato un trattamento esecutivo maggiormente restrittivo.

Il legislatore si è preoccupato di elencare in maniera puntuale quali condotte degne di censura costituissero presupposto del relativo provvedimento emesso dal Ministro della Giustizia, scongiurando per questa via un'interpretazione troppo discrezionale del dettato normativo, criticità già riscontrata a proposito dell'istituto di cui all'art. 41-bis, comma 1, o.p.

Il regime di sorveglianza particolare, che pure non fu esente da critiche, ebbe comunque il pregio di introdurre una serie di importanti cambiamenti nell'approccio al tema della sicurezza intramuraria.

Va infatti rilevato che, sin dal suo ingresso nell'ordinamento penitenziario, il legislatore si era premunito di prevedere una serie di statuizioni accessorie, volte a rendere l'istituto considerato certamente più compatibile con i principi generali dell'esecuzione penale.

Il riferimento corre al contenuto degli artt. 14-ter e 14-quater o.p., riguardanti rispettivamente il procedimento di reclamo giurisdizionale avverso il provvedimento ministeriale di applicazione del regime, e le situazioni giuridiche soggettive incomprimibili attraverso il medesimo decreto.

Con la prima disposizione il legislatore stabiliva le modalità attraverso cui era possibile per il soggetto interessato far valere le proprie doglianze, garantendo in questo modo l'effettivo esercizio del diritto di difesa

costituzionalmente enunciato all'art. 24, comma 2, Cost.336; con la seconda

veniva, invece, cristallizzato un nucleo fondamentale di diritti della persona, che

336 DE RIENZO N., Il regime sospensivo previsto dal secondo comma dell'art. 41-bis

non poteva essere compresso nemmeno in ragione, di pur rilevanti, istanze

general-preventive337.

Il regime di sorveglianza particolare fu, dunque, da subito elevato a paradigma di un possibile bilanciamento tra esigenze diverse, ovvero quelle securitarie e quelle trattamentali, laddove in uno Stato di diritto le prime non dovrebbero mai prevalere nettamente sulle altre.

Tale constatazione diventa ancor più interessante se si considera che il legislatore degli artt. 14-bis, ter e quater o.p. è lo stesso dell'art. 41-bis, comma 1, o.p. e che con riferimento alla disciplina di questo secondo istituto sembrava ancora essere legato a ideologie del passato, volte a valorizzare le sole ragioni di difesa sociale.

Volendo comunque accentuare i tratti in comune, gli artt. 14-bis, comma 1, o.p. e 41-bis, comma 1, o.p. erano, però, apparentati sotto il profilo applicativo dal fatto che, in entrambe le ipotesi, si trattava di discipline che intendevano salvaguardare la sicurezza interna agli istituti di pena, salvo il fatto che nel primo caso il regime di sorveglianza particolare sarebbe stato applicato a singoli soggetti, mentre nel secondo caso il provvedimento sospensivo avrebbe riguardato l'intero penitenziario o una parte di esso.

Ciò che, invece, non fece ingresso con la 'legge Gozzini' fu un regime di detenzione differenziata applicabile a determinate categorie di ristretti in ragione del mero titolo di reato per cui si trovavano in stato di detenzione: a supplire a questa 'lacuna' avrebbe pensato qualche anno dopo il d.l. 8 giugno 1992, n. 306, conv. in l. 7 agosto 1992, n. 356, introducendo nell'ordinamento penitenziario un comma 2 all'art. 41-bis o.p.

3. Gli anni '90 e la stagione delle stragi di mafia: ratio e introduzione del comma 2 dell'art. 41-bis o.p.

La seconda metà degli anni '80, ovvero quella immediatamente successiva all'introduzione dell'art. 41-bis, comma 1, o.p., si ricorda per la recrudescenza del fenomeno mafioso, affiancata parallelamente dalla forte volontà di repressione statuale messa in campo da indefessi magistrati specializzati nel contrasto alla criminalità organizzata.

Il 'maxiprocesso' di Palermo era stato istruito nel febbraio del 1986 e si era concluso con la storica sentenza della Corte di Cassazione, datata 30 gennaio

337 Si tratta di quelli che taluni autori hanno definito come "diritti di civiltà penitenziaria", ovvero quelle situazioni giuridiche attive che non possono mai essere pregiudicati fino al loro annullamento. Così in: DE RIENZO N., Il regime sospensivo previsto dal secondo comma

dell'art. 41-bis dell'ordinamento penitenziario, cit., p. 133. Nello stesso senso: CORVI P., Trattamento penitenziario e criminalità organizzata, cit., p. 116. Si rimanda alla lettura diretta

dell'art. 14-quater, comma 4, o.p. per l'elenco puntuale delle situazioni giuridiche soggettive che devono essere escluse dalle restrizioni del provvedimento di applicazione del regime di sorveglianza particolare.

1992, che aveva confermato quasi tutte le condanne già emanate con i verdetti

di primo e secondo grado338.

La vendetta della 'Cupola' di Cosa Nostra non tardò ad arrivare e si dimostrò particolarmente feroce; vennero commissionati gli omicidi dei due giudici che in quel periodo erano divenuti il simbolo della lotta alla mafia e che con tenacia avevano scoperto la rete di collegamenti e di responsabilità interne all'associazione criminale: il riferimento corre, come è ovvio, a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Ricordare ancora una volta questi tragici avvenimenti non è indifferente ai fini della presente disamina, in quanto fu proprio in questo esatto frangente che il legislatore decise di introdurre un nuovo regime carcerario di rigore, diverso in obiettivi e contenuti rispetto a quello applicabile a norma del comma 1 dell'art.

41-bis o.p.339

L'insufficienza di tale disposizione derivava dal fatto che il regime ivi stabilito veniva imposto all'intero istituto penitenziario o a parte di esso in ragione del verificarsi di tumulti interni che potessero metterne a repentaglio la governabilità; il provvedimento sospensivo veniva, dunque, emanato solo in presenza di tali comportamenti e rimaneva in vigore per il tempo strettamente necessario a garantire un ritorno alla normalità della vita carceraria.

Allo stesso modo si manifestava nella sua insufficienza anche il regime di sorveglianza particolare ex art. 14-bis o.p., posto che, pur non essendo ipotesi improbabile l'applicazione di tale istituto con riferimento a criminali di stampo

mafioso340, sembrava molto più plausibile che questi avrebbero mantenuto

all'interno del carcere un comportamento irreprensibile; ciò al fine di essere assoggettati a trattamento esecutivo ordinario, modalità attraverso cui erano facilitati i contatti col mondo esterno, indispensabili nella prospettiva di un sodale mafioso che intendesse portare avanti i propri progetti criminali e custodire una certa autorità nonostante lo stato di detenzione.

Va infatti fin da subito posto in evidenza un dato: la restrizione della libertà personale non impediva di per sé ai boss mafiosi di controllare i propri affari criminali; era infatti possibile impartire direttive servendosi in primo luogo dei

familiari e, come la cronaca giudiziaria dimostrò, pure dei difensori341.

338 Si veda, a questo proposito, il capitolo introduttivo, § 1.5.

339 VITELLO S. F., Brevi riflessioni sull'art. 41-bis dell'ordinamento penitenziario nel più vasto

contesto del sistema penitenziario, in 'Cass. pen.', 1994, f. 12, p. 2862.

340 Caso emblematico di applicazione congiunta del regime 41-bis, comma 2, e 14-bis o.p. è quello riguardante Salvatore Riina, come di recente specificato nella 'Relazione sullo stato di attuazione della legge recante modifica degli articoli 4-bis e 41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354 in materia di trattamento penitenziario', relativa al triennio 2012-2014.

341 Per un contributo significativo focalizzato sulla copiosa giurisprudenza a riguardo si rimanda a: DELLA BELLA A., Il regime detentivo speciale del 41 bis: quale prevenzione sociale nei

confronti della criminalità organizzata?, cit., il cui capitolo 1 è interamente dedicato alla

Allo stesso modo, l'assoggettamento a trattamento esecutivo comune non impediva a queste personalità di parlare diverse ore al giorno con altri mafiosi detenuti nel medesimo penitenziario; ciò costituiva terreno fertile per stringere nuovi patti criminali e ampliare, anziché restringere, la propria sfera di influenza. Il tutto era, poi, condito dalla circostanza in base a cui si rendeva difficile alla polizia giudiziaria e alla magistratura requirente investigare in tal senso, dato che la criminalità mafiosa si sapeva muovere in maniera strisciante anche dentro le mura del carcere: la perpetuatio delicti poteva aver luogo grazie alla trasmissione di messaggi criptici di non facile decodificazione, che potevano

essere scritti, vocali o gestuali342.

Volendo dare un'interpretazione sociologica di ciò, si potrebbe affermare che, dimostrando di saper gestire i propri affari criminali da una posizione di apparente subordinazione alle istituzioni statuali, i boss mafiosi acquisivano sempre maggior riverenza da parte dell'organizzazione di appartenenza, che

non veniva così a perdere i propri punti di riferimento343.

Come suggerito da autorevole dottrina, alle direttive impartite da un capomafia detenuto doveva essere dato seguito proprio perché provenienti "da

intra"344 , ovvero dall'interno dell'istituto penitenziario, segno di mantenuto

prestigio e di caparbietà nel non voler cedere spazi di autonomia agli affiliati in libertà.

I recenti agguati mafiosi e l'aggressività dimostrata dai membri di Cosa Nostra avevano, dunque, convinto la classe politica della necessità di intervenire con uno strumento diverso: sulla scia di quanto già stabilito con l'art. 4-bis o.p. doveva essere imposto un regime restrittivo basato sul mero titolo di reato, in quanto la pericolosità sociale degli affiliati alle cosche mafiose era presumibile e indipendente rispetto alla condotta da essi sostenuta all'interno dell'istituto di pena.

collegamenti con la criminalità organizzata in costanza di detenzione fosse la regola e non certo l'eccezione.

342 ARDITA S., Il regime detentivo speciale 41-bis, cit., p. 14.

343 Nella già richiamata monografia di Angela Della Bella l'autrice fornisce numerosi esempi in tal senso: emblematico è il passaggio, acquisito grazie ad intercettazioni ambientali, in cui Emanuele Sciascia, figura di spicco del clan gelese degli Emmanuello, affermava che chiunque, anche all'interno del carcere, gli dimostrava smisurato rispetto. Può essere utile riportare un momento significativo del colloquio con il fratello: "Anche perché qua uno ha un certo, un certo prestigio (...). Io là dentro lo sai chi sono: il Re. [Vogliono] passeggiare solo con me". Si tratta di un'affermazione che non lascia adito ad interpretazioni e che mette bene in evidenza come la leadership di un boss non fosse certo posta in pericolo dallo

status di detenuto comune. Per un approfondimento e la lettura completa di questo dialogo

si rinvia, dunque, a: DELLA BELLA A., Il regime detentivo speciale del 41 bis: quale

prevenzione sociale nei confronti della criminalità organizzata?, cit., p. 37.

344 La dizione, molto evocativa, è ancora una volta tratta da: DELLA BELLA A., Il regime

detentivo speciale del 41 bis: quale prevenzione sociale nei confronti della criminalità