IV. Imprenditori e sofisti
5. La funzione della giustizia
… secondo te, una polis o un esercito o una banda di predoni o di ladri, o qualsiasi altro gruppo di persone che tenti qualche azione ingiusta in comune, potrebbe- ro concludere qualcosa se si facessero reciprocamente ingiustizia? (Resp. 351C-d)
La giustizia è una questione politicamente essenziale, per- ché essa rende possibile l’azione in comune; e, dal momento che la vita teoretica non è una scelta meramente dottrinaria, ma esistenziale e comunitaria, anch’essa ha bisogno della giustizia. L’ingiustizia è fonte di discordia e rende impossibi- le agire in comune. Ovunque sorga ingiustizia – in una polis, in un clan, in un esercito – l’unità che ne è colpita diventa incapace di agire e nemica di se stessa e dei giusti. E lo stesso fenomeno si verificherà nella singola persona ingiusta. (Resp. 352a ss.) Questa tesi è una tesi politica, perché anticipa la psicologia politica che suddivide l’anima – e la città – in par- ti, ma è anche una tesi sulla conoscenza: se l’ambiente inte- riore ed esteriore della conoscenza è synousìa e dialégesthai, la conoscenza stessa ha bisogno della giustizia.
Conseguentemente, Socrate introduce il concetto di ergon di una cosa: lavoro o funzione di una cosa è ciò che essa sola può compiere, o comunque meglio di ogni altra. Funzione degli occhi è il vedere, funzione di una roncola, fabbricata apposta per quello scopo, è potare. (Resp. 352a) L’areté è
l’eccellenza di una cosa nello svolgere la propria funzione. Funzione dell’anima è amministrare, governare e deliberare; e la sua areté, cioè l’eccellenza nello svolgimento di questa funzione, è la giustizia.
Già nel primo libro, il medesimo concetto di giustizia come armonia e capacità di governo interiore è applicato al gruppo e al singolo. Per questo, Platone è stato accusato di olismo politico. L’olismo politico è quella prospettiva teorica che tratta la comunità politica come se fosse un intero (ho- lon), e gli individui che la compongono come sue parti. Come le cellule hanno senso e funzionalità solo entro l’organismo di cui fanno parte, così i cittadini hanno senso e valore esclu- sivamente in quanto parti dello stato, cioè dell’intero o del tutto che li ricomprende. Il “tutto” è legittimato a valersi di logiche che gli individui che ne fanno parte possono non ca- pire, o trovare immorali, o subire come distruttive.25
Olismo e individualismo possono essere parte di posizio- ni metafisiche quando si pensa che l’intero, o l’individuo, siano la realtà, cioè che sia reale, per usare una metafora he- geliana, la foresta e non i singoli alberi, com’è per gli olisti; oppure siano reali i singoli alberi ma non la foresta, com’è per gli individualisti. Ma se si è consapevoli del carattere fun- zionale e non metafisico-sostanziale dei nostri strumenti lo- gici, olismo e individualismo possono convivere. Per esem- pio, possiamo considerare la foresta come un tutto quando ci occupiamo della sua influenza sul clima globale, oppure il singolo albero, nella sua individualità, quando ci chiediamo come farlo crescere dritto.
Platone, nel I libro della Repubblica, ragiona come un oli- sta, quando fa dire a Socrate che lo schema della giustizia come armonia può essere applicato sia al singolo, sia alle comunità? Per rispondere a questa domanda, dobbiamo chiederci se l’olismo metafisico usi, nel trattare il tutto e le ––––––––––
25 Un esempio classico di questo modo di ragionare è rappresentato dalla
legittimazione del dileguare dell’interesse e del diritto dei singoli di fronte all’individualità sostanziale dello stato nella guerra, contenuta nel § 324 della Filosofia del diritto hegeliana.
sue parti, una o due logiche. Se, cioè, l’olismo legittimi l’applicazione al tutto e alle parti di un solo imperativo, op- pure se ne richieda due, uno per gli individui in quanto parti del tutto, e uno per il tutto in quanto intero.
Per esempio, in merito al problema della giustizia, un oli- sta potrebbe dire che per gli individui il giusto è comportarsi funzionalmente alla sopravvivenza della comunità (salus rei publicae suprema lex), e non alla loro, mentre per il tutto, in quanto individualità sostanziale, è giusto mirare esclusiva- mente alla sopravvivenza. Ma questo modo di ragionare, a ben guardare, comporta due imperativi, e non uno: quello del sacrificio per gli individui, e quello “egoistica” per il tut- to.
Di contro, l’uso di un solo imperativo per il “tutto” e le “parti” non comporta necessariamente, sul piano pratico, una prospettiva olistica, perché gli individui possono recla- mare l’attuazione, se l’imperativo è uno, degli stessi valori cui si ispira il tutto: ad esempio, se la libertà è un principio di ri- ferimento, allora deve poterlo essere non solo per la città, ma anche per me come individuo. Inoltre, in questo modo di ragionare non si richiede che la totalità o l’individuo abbiano una realtà metafisicamente autonoma: posso applicare a me e allo stato gli stessi criteri organizzativi perché la mia e la sua unità sono qualcosa che assumo in funzione degli strumenti che uso, e non posso dire che siano “tutto” o “parte” onto- logicamente, cioè per il loro essere intrinseco.
L’applicazione di un criterio determinato di armonia tanto all’individuo quanto alla comunità politica distacca Platone sia dalla tradizione di Parmenide, sia da quella di Democrito, se accettiamo la caratterizzazione unitaria di queste due tra- dizioni offerta da J. Stenzel.26 Parmenide si schiera dalla par- te dell’intero: per lui, solo l’Uno è, il suo essere equivale al pensiero, tutto il resto è apparenza, doxa, e quindi non è. L’uno è una sfera che abbraccia tutto, che costituisce il limite ––––––––––
26 J. Stenzel, Plato der Erzieher, Leipzig, F. Meiner, 1928; trad. it di F. Ga-
del mondo e racchiude in sé ogni essere pensabile. L’idea dell’infinito è per Parmenide, come per tutti i greci, qualcosa di insoddisfacente e di indefinito: occorre una meta (telos) e un limite (peras), altrimenti il mondo sarebbe informe e in- comprensibile. Occorre trovare la conclusione formatrice del mondo, che nasce solo dal pensiero. A questo scopo, Par- menide sacrifica la struttura del mondo, che viene detta irra- zionale e illusoria, perché introdurrebbe molteplicità e inde- finitezza; razionale è solo l’unità e totalità del mondo: il puro essere è indivisibile. Ma lo stesso ragionamento è applicato da Leucippo e Democrito all’infinitamente piccolo: la divi- sione ha fine con un indivisibile concettuale, l’atomo o in- dividuo, cioè quello che non si può più tagliare o dividere. La differenza fra Parmenide e Democrito sta solo nelle dimen- sioni e nel carattere di singolarità o pluralità dell’unità essen- ziale indivisibile.
Platone si distacca sia dall’olismo, sia dall’individualismo metafisico perché non si chiede se sia “reale” l’individuo sin- golo o l’intero sociale, ma cerca, per così dire, un modulo funzionale che consideri non la natura degli oggetti, ma le relazioni fra questi. Per questo, può applicare lo stesso mo- dello sia ai rapporti dell’individuo con se stesso, sia a quelli degli individui fra loro. Quindi, se è così, il carattere unitario del modello platonico non è di per sé un sintomo di olismo metafisico.27 Piuttosto, il primo passo di un progetto di so- cietà politica che sia anche un progetto di società della cono- ––––––––––
27 Questo risulta ancora più chiaro se ricordiamo che nel IV libro della
Repubblica (436d-437a) viene posto esplicitamente il problema di come sia possibile parlare di una stessa cosa in rispetti differenti senza cadere in con- traddizione, e viene risolto in un modo che presuppone un uso funzionale e non sostantivo dei concetti. È possibile descrivere nella sua molteplicità un elemento assunto come unitario senza cadere in contraddizione, se ricorria- mo all’espediente di suddividerlo in parti distinte. Per esempio, una trottola che ruota mantenendo fisso il suo asse potrebbe, sofisticamente, essere detta immobile e in movimento nella stesso tempo. Ma questa contraddizione ca- de se si suddivide la trottola in asse e circonferenza, e si dice che il primo, essendo fisso, resta immobile, mentre la seconda gira.
scenza, consiste nel non dare né la società, né se stessi per scontati, bensì nel rimettere in discussione le proprie relazio- ni interne ed esterne. Altrimenti si corre il rischio di intende- re valori e gerarchie storicamente condizionati – per esempio l’etica agonistica della tradizione greca – come se fossero as- soluti, credendo così di essere realisti, quando si è soltanto conservatori.