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La vita teoretica come problema politico

Nel documento I padroni del discorso (pagine 37-42)

II. La pubblicità degli antichi e la pubblicità dei moderni

1. La vita teoretica come problema politico

Quando Hannah Arendt attaccò la vita teoretica,1 come fuga dalla vita activa della politica – la sfera della pluralità, dell’azione e del discorso –, trascurò deliberatamente2 un a- spetto che oggi appare più evidente: la vita teoretica, sia nel senso consueto di vita dedicata alla teoria, sia in quello eti- mologico di vita dello spettatore, può essere ed è di per sé po- litica. La vita teoretica richiede scelte esistenziali, relazioni interpersonali e forme di discorso e di propagazione della conoscenza da cui deriva uno spazio pubblico che sembra oltrepassare sia la sfera privata dell’economia, sia la politica nel suo senso meramente istituzionale. I teorici – filosofi an- tichi, hacker, programmatori, scienziati, agricoltori che svi- luppano tecniche di selezione biologica sulla base della loro cultura tradizionale – hanno bisogno di una sfera pubblica perché le loro conoscenze siano tramandate, discusse e mi- gliorate; hanno bisogno del discorso e dell’interazione con una pluralità di persone; e il loro scegliere di dedicarsi alla teoria e di condividerla è una forma di azione che ha conse- guenze politiche, giuridiche e morali. La vita teoretica può apparire impolitica o antipolitica solo se è riservata a una minoranza: quando una città intera mette sotto processo un ––––––––––

1 H. Arendt, The Human Condition, University of Chicago Press, 1958, cap.

I, trad. it di S. Finzi, Vita Activa, Milano, Bompiani, 1989, pp. 7-17.

2 Si veda, su questo, l’ultimo capitolo di The Human Condition, che si con-

clude significativamente col detto di Catone: Numquam se plus agere quam nihil cum ageret; numquam minus solum esse quam cum solus esset (Cicerone, De Re Publi- ca, I.27).

filosofo solo, una considerazione superficiale può far pensa- re che la politica sia tutta dalle parte della città e che il filoso- fo, in quanto solo, non sia politico. Ma se i teorici – ricerca- tori e spettatori – sono o possono essere molti, e se produ- cono modelli e idee che possono creare un mondo, diventa chiaro che la politica deve stare anche dalla loro parte. Di- venta chiaro che il regime di quel tipo peculiare di spazio pubblico che è la sfera della conoscenza va trattato come un problema filosofico-politico.

Non è casuale che le epoche che assistono a rivoluzioni nei mezzi di comunicazione siano costrette ad affrontare sempre di nuovo il tema della vita teoretica come questione politica.

In una cultura come la nostra, abituata a frazionare ogni cosa al fine di controllarla, è sconvolgente sentirsi ri- cordare che, sul piano pratico e operativo, il medium è il messaggio. Questo significa semplicemente che le con- seguenze individuali e sociali di ogni medium, cioè di o- gni estensione di noi stessi, derivano dalle nuove pro- porzioni introdotte nelle nostre questioni da ognuna di tali estensioni o da ogni nuova tecnologia.3

Come hanno mostrato gli studi di Walter Ong4 e – per quanto riguarda l’antichità e il pensiero platonico – di E.A. Havelock, dalle rivoluzioni nei mezzi di comunicazione deri- vano mutamenti sia quantitativi, sia qualitativi. Se è vero che, come afferma Havelock, “tutte le civiltà umane fanno rife- rimento a una sorta di ‘libro’, cioè alla capacità di mettere in serbo le informazioni al fine di reimpiegarle”,5 ogni muta- mento nel “libro” incide sia sull’accessibilità dei contenuti conoscitivi, sia sul modo in cui questi sono pensati e orga- nizzati, sia sul tipo di società con cui sono compatibili. ––––––––––

3 M. McLuhan, Understanding Media, cit., p. 7 (trad. it. p. 15). 4 W. Ong, Orality and Literacy cit.

5 E.A. Havelock, Preface to Plato, Cambridge Mass., Harvard UP. 1963,

Preface; trad. it. di M. Carpitella, Cultura orale e civiltà della scrittura, Roma-Bari, Laterza, 1973, pp. 3-7.

Pierre Lévy, proseguendo su una strada già battuta, co- struisce tre tipi di civiltà, corrispondenti a tre tipi di condivi- sione della conoscenza: la civiltà orale, le civiltà della scrittu- ra e la civiltà della rete. Le società orali, sebbene affidassero la trasmissione dell’informazione a tecnici della memoria – per esempio i poeti nella Grecia preclassica –, non separava- no il discorso dal suo contesto: la conoscenza, trasmessa da persona a persona, non poteva staccarsi dal flusso vitale nel quale era immersa,6 se voleva perdurare senza cadere nell’oblio. Questo produceva quello che Lévy chiama totalità senza universale: il soggetto conoscente era tale solo in quanto rimaneva legato e indifferenziato rispetto al suo con- testo. Il contesto è una totalità per chi ne fa parte, ma non un universale, perché è inseparabile dalla particolarità degli individui e delle relazioni interpersonali. Forse questo sapere poetico e preconcettuale si avvicina a quanto vagheggiano i critici della tecnica: ma i suoi limiti comunicativi, cioè il suo carattere radicalmente particolare, non assicurano che esso sia al riparo dalla disuguaglianza e dall’estraneazione. Il pote- re appartiene a chi sa ricordare e far ricordare in modo auto- revole. Anche il cosiddetto evento – l’accadere nella sua nu- da fattualità – ci è noto solo se viene raccontato e imposto alla memoria da qualcuno in una storia.

Con l’avvento della scrittura, i testi si separano dal loro contesto vivente originario. La scrittura offre, in cambio del- la perdita dell’immediatezza della relazione faccia a faccia, uno spazio di comunicazione maggiore, ed è l’occasione per la nascita del sapere concettuale, con la sua aspirazione all’universalità. L’universalità del libro, tuttavia, è di natura totalizzante: il testo è qualcosa di limitato e in sé conchiuso: per avere un senso deve, almeno in qualche aspetto, preten- dere di esaurire in sé tutto il senso, lasciando fuori la pluralità aperta dei contesti chi si trova ad attraversare e la diversità delle comunità che li fanno circolare.

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I media tradizionali, continua Lévy, proseguono sulla falsa- riga dell’universalizzazione totalizzante iniziata dalla scrittura: giornali e televisioni devono coinvolgere – essendo una for- ma di comunicazione di tipo uno-tutti – il maggior numero di persone possibili, e per questo devono incontrare il mini- mo comune denominatore mentale dei destinatari. Il loro spazio di comunicazione è privo di interazioni, dato che i ri- ceventi sono tecnicamente costretti ad essere passivi: per questo, devono fabbricarsi un pubblico indifferenziato, e giocare su emozioni e conoscenze elementari. Per definizio- ne i media contemporanei “totalizzano”, cioè pretendono di racchiudere – o di essere – il mondo, con una pretesa di e- saustività. Non a caso questi media, intrinsecamente autorita- ri, sono stati e sono il veicolo privilegiato della propaganda totalitaria – sia essa politica o economica – e del totalitarismo della propaganda.7

La rete rende pensabile qualcosa di differente sia dalla to- talità senza universale delle culture orali, sia dall’universale totalizzante delle culture scritte e mediatiche. Al dispositivo comunicativo di tipo uno-uno (posta, telefono) e di tipo uno-tutti (televisione, giornale), si è aggiunta la possibilità di una comunicazione tutti-tutti, cioè di un nuovo modo di di- stribuire la conoscenza, cui tutti coloro che sono connessi possono partecipare interattivamente e ove non esiste un emittente virtualmente privilegiato. Diventa così possibile sia comunicare in maniera universale, come nella civiltà della scrittura, sia interagire e creare dei contesti, come nelle cultu- re orali. Queste possibilità si possono attualizzare in presen- za di un movimento sociale che sappia trar vantaggio da questi tre princìpi:8

- interconnessione: i veicoli di informazione non sono più nello spazio, ma diventano uno spazio, una telepresenza generalizzata in un continuum, che può essere pensato e percorso come un grande ipertesto;

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7 Ibidem, pp. 107-117. 8 Ibidem, pp. 119-129.

- creazione di comunità virtuali: una comunità virtuale si costruisce, data l’interconnessione, su affinità di interessi e di conoscenze, sulla condivisione di progetti, in un pro- cesso di cooperazione e di scambio, che prescinde dalle appartenenze istituzionali;

- intelligenza collettiva: è ciò che può venir prodotto dalla compresenza di una massima accessibilità dell’informazione, di una conoscenza messa in comune, e dalla possibilità offerta alla persone di interagire fra loro senza mediazioni.

Questo nuovo scenario può essere compreso con la no- zione di universale senza totalità: ogni universalizzazione, nella misura in cui pretende di essere esauriente e in sé con- chiusa, produce nello stesso tempo totalità ed esclusione. La rete, la cui unica pretesa è la connessione in un ordine non gerarchico che può essere variamente interpretato nella pro- spettiva di ciascun nodo, esprime una esigenza di universalità che però, non avendo in se stessa un senso, non è totalizzan- te.9 Chi è fuori dalla rete non è escluso, bensì sconnesso: e questo, significativamente, viene percepito come una defi- cienza non dell’escluso, ma della rete stessa, pensata come dispositivo di informazione e di comunicazione.

Con un linguaggio diverso da quello di Lévy, si potrebbe dire che le rivoluzioni mediatiche producono e sovrappon- gono sempre nuovi tipi di spazi pubblici e rimettono in di- scussione i confini della vita teoretica. Nel mondo dell’oralità, la sfera pubblica si identificava con quella, parti- colaristica, alla portata del canto del poeta, della parola per- suasiva dell’oratore e della capacità della memoria collettiva. Nel mondo della scrittura alla sfera pubblica a portata di vo- ce si aggiunge quella, temporalmente e spazialmente più am- pia, del testo che si faceva lo sforzo di copiare o che si aveva la possibilità di stampare. Nel mondo dei media autoritari del XX secolo, che è ancora in gran parte il nostro mondo, ab- ––––––––––

biamo in più l’ambito raggiungibile dalla radio e dalla televi- sione, con la sua capacità di incidere sulle emozioni colletti- ve. In rete, si aggiunge la possibilità, per tutti, di comunicare interattivamente con tutti. In questo processo, la vita teoreti- ca, da esperienza riservata a pochissimi, diventa qualcosa con cui molti sono costretti ad aver contatto: in una sovrabbon- danza di informazione, la ricerca e la valutazione delle cono- scenze diventa un problema rilevante per un numero sempre maggiore di persone.

Sarebbe, tuttavia, superficiale, trattare i mutamenti tecnici e quantitativi come se risolvessero da soli il problema del rapporto fra vita teoretica, economia e politica. Il confronto fra conoscenza, politica ed economia deve essere affrontato direttamente, da un punto di vista speculativo: le tecnologie della parola, così come le strutture dell’agire comunicativo, incidono su delle possibilità, ma non producono, automati- camente, degli indirizzi e delle soluzioni. La rete rende più diffusi e richiesti alcuni valori e metodi propri della vita teo- retica, ma questa ultima rivoluzione mediatica non può, da sola, chiarire se la sfera della conoscenza e la sua peculiare pubblicità possa identificarsi con la pubblicità propria della politica, o con quella del mercato, o si tratta di un ambito che le trascende entrambe, non occasionalmente, ma struttu- ralmente; e se una simile trascendenza si risolve immediata- mente in una posizione apolitica, o può produrre una prassi politica sua propria.

Nel documento I padroni del discorso (pagine 37-42)