IV. Imprenditori e sofisti
3. Trasimaco
Per quanto Polemarco non abbia il carattere di un padro- ne del discorso, un mondo come il suo è il terreno più adatto per l’insorgere di questa figura. Per Polemarco la partecipa- zione politica è impossibile, a causa della sua condizione di straniero; i valori collettivi sono dati per scontati e non ven- gono messi in discussione; la giustizia è ridotta a procedura, tanto che potrebbe essere affidata ad una classe di tecnici e asservita ad interessi commerciali; il dialégesthai è solo una forma di intrattenimento. Tutto è pronto per la discesa in campo di Trasimaco, il sofista.
Trasimaco si era agitato in tutto il corso della discussione e non aveva interloquito perché i presenti, interessati allo scambio di battute fra Socrate e Polemarco, lo avevano trat- tenuto. Ma non appena la conversazione ebbe una pausa, “non poté più restarsene quieto, ma, rannicchiatosi come una belva, si avventò su di noi quasi volesse sbranarci.” (Resp. 336b)
Trasimaco attacca Socrate urlando, e lo accusa, come già Polo nel Gorgia, di riservare a sé stesso la facile parte dell’interrogare, quando si sa che replicare è molto più diffi- cile, e di essere un dissimulatore che ricorre ad espedienti per non rispondere alle domande. (Resp. 337a ss.) Socrate, affet- tando ignoranza, se ne va in giro ad imparare dagli altri e non ringrazia neppure.19 Questa accusa ha senso solo col ––––––––––
18 S. Gastaldi, Polemarco, in Platone, La Repubblica, Napoli, Bibliopolis,
1998, vol. I, pp. 171-191
19 L’espressione eironéia, in bocca a Trasimaco, conserva il significato, an-
cora prevalente nel V secolo, di dissimulazione finalizzata ad ingannare, e non il senso, che dopo Socrate diverrà predominante, di figura retorica che
presupposto di una concezione patrimoniale della conoscen- za: per sostenere che Socrate “ruba” con destrezza le idee degli altri, bisogna essere convinti che le domande abbiano un valore conoscitivo nullo. La conoscenza si suddivide in unità discrete, di produzione individuale, e può essere tra- smessa meccanicamente. Trasimaco, evidentemente, non si è accorto che Socrate, esercitando con abilità l’arte del do- mandare, ha condotto per mano Polemarco – il quale ini- zialmente ragionava come Cefalo – da una concezione della giustizia arcaica, fondata sulle sentenze poetiche, a una più moderna visione della giustizia come techne, e finalmente all’idea della dikaiosyne come virtù personale, o eccellenza umana.
Trasimaco – che crede che la conoscenza sia fatta di ri- sposte e non anche di domande – è convinto di avere un re- sponso ottimo sulla giustizia, molto migliore degli altri. E muore dalla voglia di esibirlo al pubblico, per fare bella figu- ra. Ma vorrebbe anche essere pagato. Poiché Socrate gli promette di dargli soldi solo quando ne avrà, cioè mai, Glau- cone, fratello di Platone, si offre di contribuire a suo favore. Le pretese di Trasimaco non sono un elemento di colore: il sofista può chiedere soldi e rivendicare la proprietà intellet- tuale sulle sue idee solo col presupposto di una concezione patrimoniale della conoscenza.
La giustizia – rivela finalmente Trasimaco – è l’utile (sym- pheron) del più forte: (Resp. 338c)
… ciascun governo istituisce leggi (nomoi) per il proprio utile; la democrazia fa leggi democratiche, la tirannide tiranniche e allo stesso modo gli altri governi. E una volta che hanno fatto le leggi, proclamano che il giusto per i governati è ciò che è invece il loro proprio utile, e chi se ne allontana lo puniscono come trasgressore della legge ed ingiusto. Questo, mio ottimo amico, è quello che dico giusto, il medesimo in tutte quante le poleis, l’utile del potere costituito. Ma, se non erro, questo po-
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consiste nel dire scherzosamente il contrario di quello che si intende (G. Vla- stos, Socrates cit., pp. 21-44, trad. it. pp. 27-58).
tere detiene la forza. Così ne viene, per chi sappia ben ragionare, che in ogni caso il giusto è sempre identico all’utile del più forte. (Resp. 338e-339a)
La tesi di Trasimaco è più radicale di quella espressa da Tucidide nel colloquio fra Ateniesi e Melii,20 e di quella di Callicle nel Gorgia (483a ss.). In Tucidide appare conveniente parlare di giustizia in situazioni di parità, dove c’è un equili- brio di forza. Callicle afferma che la giustizia del nomos (de- mocratico) è un inganno, perché impone l’uguaglianza ove, secondo natura, avrebbe diritto a dominare il più forte. Ma in entrambi i casi si riconosce alla giustizia un contenuto proprio: la giustizia, cioè, non è riducibile alla forza appunto perché è o un modus vivendi fra persone che sono soggette a una uguale necessità, o una convenzione ingannevole impo- sta dai deboli, e peggiori, per sfuggire al legittimo dominio dei forti, e migliori. Trasimaco, con la sua tesi, si sottrae alle difficoltà caratteristiche della critica di Callicle al governo della maggioranza: dopo aver invocato il principio generale della prevalenza naturale della forza, si finiva contradditto- riamente per affermarlo come legittimo solo nel caso parti- colare del regime dei “migliori”. (Gorgia, 483a ss.) La giusti- zia, per Trasimaco, si riduce in tutti i casi a uno strumento del potere costituito – sia esso democratico, aristocratico o tirannico – finalizzato al suo utile.
Il contenuto della tesi di Trasimaco è in armonia con la sua concezione patrimoniale della conoscenza: se qualsiasi sapere è per definizione qualcosa di mio, e non qualcosa di intersoggettivo, l’unico motivo che ho per condividerlo con gli altri è il mio utile. L’unico sapere che merita di essere condiviso è dunque quello che mi legittima, se sono al pote- re, o quello che mi mantiene, se non lo sono. Anche la sua clamorosa discesa in campo, in questa prospettiva, va vista in una luce sinistra: nulla ci garantisce che la scenata di Trasi- maco non sia semplicemente una strategia di promozione del suo prodotto, per indurre il ricco Glaucone ad acquistarlo a ––––––––––
scatola chiusa. Il sapere – anche quello di Trasimaco – si ri- duce ad un gioco di potere. L’unica pubblicità possibile, in questa prospettiva, dipende dall’imposizione e dall’inganno. È inoltre significativo che Trasimaco consideri la propria de- finizione della giustizia come interamente originale, senza rendersi conto che essa stessa deriva direttamente dal com- mons dell’etica tradizionale21 – come invece era risultato mol- to chiaro a Socrate, nella parte finale della sua conversazione con Polemarco.
Socrate dice di essere d’accordo che il giusto sia qualcosa di utile, ma di non aver chiaro il senso dell’aggiunta “del più forte”. E comincia a interrogare Trasimaco, seguendo una linea di attacco simile a quella usata contro Polo nel Gorgia: se il giusto è l’utile del più forte, e questi, ingannandosi, or- dina ciò che gli sembra utile, ma non lo è, i deboli che gli ubbidiscono non fanno in realtà l’utile del più forte. Forse si dovrebbe dire, suggerisce un altro dei presenti, Clitofonte, che Trasimaco identifica col giusto ciò che il più forte stima tale. (Resp. 340a)
Trasimaco non cade nella trappola: dopo aver dato a So- crate del sicofante, che tende tranelli per farlo incorrere in contraddizione, precisa che per kréitton, più forte, intende co- lui che è più competente e non sbaglia: il governante, perché è al governo e riesce a rimanerci, non sbaglia, e stabilisce il giusto come suo utile. (Resp. 341a)
Trasimaco compie questa precisazione per evitare che Socrate possa ricorrere alla strategia argomentativa del Gorgia per la quale chi ha potere senza avere conoscenza è debole e impotente, perché fa ciò che gli sembra bene, ma non fa ciò che vuole. La precisazione di Trasimaco connette stretta- mente potere e conoscenza: chi è al potere, lo è perché ha una competenza tale da permettergli di mantenere la sua po- sizione. Socrate, allora, passa ad esaminare quale sia il conte- ––––––––––
21 Su questo carattere si veda quanto scrive M. Vegetti in L’etica degli anti-
chi, Roma-Bari, Laterza, 1989, pp. 19-34, a proposito della “città impossibi- le”.
nuto di questa competenza. L’esperto di una techne si qualifi- ca come tale non tanto perché sa badare al proprio interesse economico ma perché sa fare l’utile di ciò di cui la techne stes- sa è oggetto: un bravo medico, per esempio, non è in primo luogo un abile uomo d’affari, ma uno che sa curare i malati. Analogamente, un buon governante non si occupa tanto del proprio utile, quanto di quello dei suoi sudditi. (Resp. 442e)
Trasimaco reagisce in modo sprezzante: i pastori e i bova- ri, certo, si preoccupano che il loro bestiame sia grasso, ma per il loro utile e non certo per quello degli animali. E così fanno anche i governanti nei confronti dei sudditi.
… la giustizia (dikaiosyne) e il giusto (dìkaion) sono in re- altà un bene altrui (allòtrion agathòn), un utile di chi è più forte e governa, ma un danno proprio di chi ubbidisce e serve; e l’ingiustizia è l’opposto e comanda a quelli ve- ramente ingenui e giusti; e i sudditi fanno l’utile di chi è più forte e lo rendono felice servendolo, mentre non riescono assolutamente a rendere felici se stessi. (Resp. 343c)
I giusti, continua Trasimaco, nelle relazioni con gli ingiu- sti perdono sempre, sia nei contratti d’affari, sia quando si tratta di pagare le tasse, sia quando si tratta di ricoprire una carica pubblica. L’ingiusto, che sa pleonektéin – soverchiare gli altri – è invece felice: e la massima felicità si realizza con l’ingiustizia perfetta, cioè con la tirannide. (Resp. 344a ss.)
Infatti, chi viene sorpreso a commettere ingiustizia in un ambito parziale (meros) viene punito e ricoperto di biasimo. Ma se realizza l’ingiustizia perfetta, divenendo tiranno, viene detto da tutti felice (eudàimon) e beato (makàrios). Chi biasima l’ingiustizia lo fa solo perché teme di subirla. Ma se realizzata in modo adeguato, l’ingiustizia è più forte, più da uomo libe- ro e più da signore della giustizia. (Resp. 344c)
La tesi di Trasimaco non riguarda i contenuti della giusti- zia, ma solo la sua funzione, nella prospettiva di un soggetto morale – assunto acriticamente – che è molto simile all’agathòs dell’etica aristocratica omerica. Chi vuol essere giu- sto, anche solo parzialmente, si fa asservire dal potere costi-
tuito; il perfetto ingiusto, cioè il tiranno, è l’unico in grado di smascherare il potere che sta dietro l’inganno della giustizia. Ma questo smascheramento può aver luogo solo sostituendo potere a potere: anche il tiranno, divenuto tale, imporrà a proprio vantaggio l’inganno della sua giustizia.
Nelle Leggi (IV,714c), la tesi che il giusto sia l’utile del più forte – nel senso che nella polis le leggi sono poste sempre dal più forte, per conservarsi il governo – viene elencata fra gli assiomi tradizionali del potere. Quando si combatte per il potere, infatti, i vincitori si impadroniscono a tal punto degli affari della città da non lasciarne nulla agli sconfitti, né ai lo- ro discendenti, e vivono in guardia l’uno dall’altro. Ma queste – dice lo straniero ateniese – non sono costituzioni, non so- no leggi corrette, perché non sono state stabilite per tutta la polis in comune. E se le leggi sono stabilite per qualcuno, questi non è cittadino ma stasiòtes, cioè fomentatore di guerra civile. (IV, 715a-b) Ove il nomos è archòmenos (comandato) e senza autorità, è pronta la distruzione. Queste cose – scrive il vecchio Platone – chi è anziano le vede con più chiarezza di chi è giovane. (IV, 715d-e)
Questo giudizio, se paragonato alla complessità della con- futazione di Trasimaco contenuta nella Repubblica, può sem- brare moralistico, ma ha il pregio di cogliere il cuore della questione. Un realismo politico coerente non può escludere se stesso: perché trattare Trasimaco, con la sua concezione patrimoniale e privatistica della conoscenza, come un con- templatore disinteressato? Quando Trasimaco fa politica – ma anche quando parla – lo fa solo per il suo proprio utile, come gli altri, se la sua tesi va preso sul serio. Trasimaco non demistifica solo il potere e il discorso altrui. Demistifica an- che se stesso, perché la sua tesi rende impossibile sia un di- scorso comune, sia una legittimazione politica che vale per tutti. Per questo, il trasimacheo non può mai parlare come un cittadino, o come un ricercatore, ma sempre e soltanto come il membro di una fazione: gli manca, infatti, il senso della pubblicità. Com’è possibile parlare in altra veste, e non semplicemente nell’ambito cognitivo, ma in quello politico?