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Questione siciliana e “regionalizzazione politica” alla metà degli anni Cinquanta

I. 2.2 «scempio di lotte intestine»: la divisione interna e lo scontro tra corrent

I.3 Il «partito siciliano»: la politica autonomistica del Pc

I.3.2 La «linea strategica della rivoluzione siciliana»

Una nuova intensa stagione politica si apriva per la storia del Pci all’indomani delle elezioni politiche del 1953. Tra passi avanti e brusche frenate, seguendo un percorso irto di ostacoli e pieno di incognite, gradualmente sarebbero state superate le difficoltà del quinquennio precedente, segnato da una chiusura e un isolamento, riflesso di condizioni interne (accesa conflittualità sociale e politica, settarismo ideologico e organizzativo) e cause esterne (inasprirsi della guerra fredda)522.

La morte di Stalin e l’avvio di una fase di distensione nei rapporti internazionali, come pure i noti avvenimenti del 1956 (la pubblicazione del rapporto segreto al XX congresso del Pcus e la rivolta d’Ungheria), sebbene rappresentassero episodi e momenti di segno contrastante, costituivano chiari segnali sfruttati con grande abilità da Togliatti per rilanciare l’attività del partito e completare il processo di affermazione del “partito nuovo”. D’altra parte anche il panorama politico nazionale – dove sullo sfondo della lenta agonia del centrismo cominciavano le prime timide manovre verso un dialogo tra cattolici e socialisti – suggeriva ai comunisti la necessità di uscire dall’ombra per evitare una futura (e più pesante) emarginazione.

Erano questi dunque gli anni in cui giungeva a maturazione la cosiddetta “via italiana al socialismo”: il segretario, passando attraverso la proposta di un policentrismo che limitava la dipendenza dal modello sovietico e lanciando l’ipotesi di originali percorsi nazionali al socialismo, offriva al Partito comunista italiano la prospettiva di una conquista democratica del potere, che implicitamente sanciva il riconoscimento e l’accettazione (ma il processo cominciava adesso e si sarebbe svolto negli anni a venire) della via democratica prevista dalla Costituzione e del pluripartitismo523.

Il processo di graduale trasformazione avrebbe investito innanzitutto lo stesso partito al cui interno si registrava a partire dal 1954 un graduale esautoramento della vecchia guardia e la messa in disparte di Pietro Secchia, tra i più fedeli ai dettami di Mosca, mentre emergevano in posizione di

521 F. RENDA, Storia della Sicilia dal 1860 al 1970 cit., III vol., p. 306.

522 Sui cambiamenti avvenuti nel Pci tra il 1953 e la fine del decennio vedi G. MAMMARELLA, Il Partito comunista

italiano 1945/1975 dalla liberazione al compromesso storico, Vallecchi, Firenze, 1976, pp. 109-178; D. SASSOON, Togliatti e la via italiana al socialismo. Il Pci dal 1944 al 1964 cit., p. 149 e sgg.;

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maggiore autorità e prestigio i giovani della seconda generazione (Amendola, Ingrao, Pajetta, Alicata)524.

Al ricambio dei vertici si sarebbe comunque accompagnato un aggiornamento della proposta politica del partito, come venne sancito con l’VIII congresso, considerato non a caso come uno dei più importanti tenuti dal Pci nel dopoguerra per il momento in cui avvenne, per i temi dibattuti e le soluzioni offerte, e per l’impulso all’evoluzione politica ed ideologica del partito525

. Accanto al ricordato riconoscimento della via democratica e delle forme della lotta politico-parlamentare – che di fatto seppellivano ogni ipotesi di conquista rivoluzionaria del potere – altri nodi decisivi vennero affrontati, altri ripresi e sistematicamente fissati tra i punti programmatici del partito. Si cominciava dall’apertura alle alleanze di classe, dove si riconosceva ancora una volta la necessità di raccogliere attorno alla classe operaia le grandi masse contadine insieme ai piccoli e medi proprietari, i ceti medi urbani e i piccoli e medi industriali526.

A questo sistema di alleanze di classe si giungeva attraverso l’individuazione di un “nemico principale”, che nelle condizioni esistenti era il capitale monopolistico e le sue manifestazioni (rendita agraria, rendita monopolistica e superprofitti derivati dalla speculazione), tutte forze che impedivano un sano sviluppo industriale e un’accumulazione indirizzata verso la produzione527

. Nelle analisi svolte dal congresso la strategia antimonopolistica portava anche a riassegnare centralità alla questione meridionale, un fronte che si era rivelato proficuo per il partito, come testimoniava l’avanzata elettorale nei primi anni Cinquanta. Infatti la crescita del capitale monopolistico aveva aggravato lo storico contrasto economico e sociale tra Nord e Sud.

Il problema fondamentale del Mezzogiorno restava in ogni caso ancora quello contadino, per il quale il partito lanciava la parola d’ordine “la terra a chi la lavora”, che segnava un nuovo orientamento del partito rispetto alla questione contadina. Veniva, seppure con ritardo, riconosciuto ai coltivatori diretti, ai piccoli e medi proprietari, un ruolo nella costruzione di un nuovo blocco sociale per avviare uno sviluppo democratico del capitalismo nazionale, così sancendo la prevalenza della proposta di Emilio Sereni su quella di Ruggero Grieco, più fedele all’ortodossia leninista, che privilegiava come naturali alleati della classe operaia i contadini poveri e senza terra528. Era un passaggio reso sempre più necessario in seguito alle trasformazioni sociali provocate dall’applicazione delle leggi di riforma, ma il cui obiettivo – come dimostrava anche la nascita nel

524 G. MAMMARELLA, Il Partito comunista italiano 1945/1975 dalla liberazione al compromesso storico cit., pp.

177-178.

525 Ivi, p. 145.

526 D. SASSOON, Togliatti e la via italiana al socialismo cit., p. 290. 527 Ivi, p. 291.

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G. BARONE, Stato e Mezzogiorno (1943-60). Il «primo tempo» dell’intervento straordinario, in Storia dell’Italia

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1955 dell’Alleanza Contadini – era quello di competere con la Dc sul suo stesso terreno, contrastando la penetrazione ideologica e organizzativa dei cattolici tra i coltivatori diretti.

All’indomani del congresso era Giorgio Napolitano a prospettare al partito il rilancio della battaglia meridionalista, che dopo la crisi del “Movimento per la rinascita del Mezzogiorno” dovuta a divergenze con i socialisti ed incertezze, doveva avvenire anche attraverso la formazione di una “Commissione meridionale”, un maggiore contributo della rivista «Cronache meridionali» e iniziative come l’Assemblea meridionale del Pci529

.

In tale assemblea, che si svolse a Napoli nei giorni 11 e 12 maggio 1957 e alla quale parteciparono i rappresentanti di tutte le organizzazioni comuniste del Mezzogiorno e delle Isole, fu Giorgio Amendola, con una lunga relazione a sviluppare una analisi delle attuali condizioni del Sud e a proporre le direttive dell’azione politica del Pci530

. Nel quadro complessivo, segnato dal movimento e dalla trasformazione, spiccava il dato dell’arretramento del Mezzogiorno rispetto al Nord, prova concreta dell’insufficienza delle misure adottate dai governi democristiani (in particolare si citano i limitati successi della riforma agraria, il fallimento della pre- industrializzazione della Cassa per il Mezzogiorno e l’assenza di investimenti dell’Iri nel Sud).

Nonostante questo fallimento la Dc si era comunque lanciata alla conquista del Mezzogiorno dopo la svolta fanfaniana del ’54: sempre secondo Amendola il partito cattolico, che intanto aveva assunto una più efficiente struttura di partito, si era inserito nel vuoto creato dalla rottura del vecchio blocco agrario, e sfruttando l’apparato statale e gli enti economici dello Stato, era riuscito ad attrarre nella sua orbita – per le prospettive di sviluppo economico e di carriera personale – strati notevoli di piccola e media borghesia531.

La strategia democristiana, unita all’indirizzo delle politiche meridionaliste – che avevano favorito unicamente gli interessi dei grandi gruppi monopolistici che si erano accaparrati crediti,

529

Vedi il “Piano di lavoro della commissione meridionale”, allegato alla lettera di Giorgio Napolitano alla Direzione nazionale del 14 marzo 1957, in IG, APC, Direzione, Verbali 1944-1958, mf. 157.

530 Il testo della relazione svolta da Giorgio Amendola l’11 maggio 1957 all’Assemblea meridionale di Napoli è ora

pubblicato col titolo I comunisti per la rinascita del Mezzogiorno in «Cronache meridionali», n. 5, maggio 1957, pp. 257-282.

531 Sin dal congresso di Napoli la “nuova” Democrazia cristiana, e gli sviluppi della sua azione nel Mezzogiorno, era

stata al centro dell’attenzione del gruppo dei meridionalisti del Pci, come testimonia pure l’articolo di Amendola uscito sempre su «Cronache meridionali» pochi mesi dopo il congresso (La D.C. nel Mezzogiorno, n. 7-8, luglio-agosto 1954, pp. 538 e sgg.). Alcuni mesi dopo la relazione di Amendola all’Assemblea meridionale usciva invece, un articolo di Giorgio Napolitano, dal titolo Il fanfanismo nel Mezzogiorno (n. 11, novembre 1957, pp. 728-734). Qui Napolitano evidenziava come l’obiettivo della Dc fosse di raggiungere – attraverso l’espansione del capitalismo monopolistico di Stato, l’insediamento di propri uomini di fiducia alla testa degli enti economici, l’utilizzazione di tutte le leve del potere statale e locale, la moltiplicazione e il rafforzamento delle organizzazioni di massa - «un sempre più pieno monopolio della direzione della vita politica ed economica meridionale e di permetterle la riconquista della maggioranza assoluta nelle elezioni.» Per ripetere l’operazione del 18 aprile 1948 – sempre secondo Napolitano – la Dc, che in un primo tempo aveva tentato di accentuare in senso riformista la propria piattaforma per recuperare voti a sinistra, di fronte all’insuccesso di questa strategia, aveva concentrato i suoi sforzi «in direzione delle destre, nel tentativo di svuotarle politicamente ed elettoralmente».

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concessioni e commesse – non aveva saputo rispondere a una situazione di disagio sociale che investiva nuovi strati di piccola e media borghesia, ma anche i piccoli ceti dell’artigianato e del commercio e le masse di disoccupati nelle campagne e nelle grandi città. Il suo «tentativo totalitario di conquistare con ogni mezzo una maggioranza assoluta, per rafforzare il suo monopolio politico e trasformarlo in un regime clericale», l’aveva portata ad abbandonare ogni piattaforma riformista e cercare spazio a destra, per evitare lo schieramento di quelle forze su un fronte su di opposizione meridionalista, come in qualche modo si poteva osservare a Napoli con il “laurismo”, fenomeno interpretato da Amendola come l’espressione politica di un diffuso malessere sociale532

.

In queste condizioni di profonda trasformazione, nella quale tra i ceti e gli elettori dei partiti di destra, come anche tra l’elettorato cattolico, erano avvertite nuove esigenze di miglioramento delle condizioni di vita, la soluzione politica auspicata era quella di «realizzare fra queste forze, oggi ancora divise e lontane, un avvicinamento per giungere all’incontro e all’accordo per la realizzazione di un comune programma». E proseguendo nella relazione precisava:

Oggi, nella crisi che scuote la società meridionale, si delineano convergenze e nuove possibilità di alleanze, tra la classe operaia e il ceto medio della campagna e della città, sul piano della lotta antimonopolistica. Ma queste convergenze e alleanze non si realizzano spontaneamente, ci vuole un’azione politica, un’iniziativa, per rimuovere gli ostacoli e creare le condizioni che rendano possibile una larga azione unitaria. La grande borghesia cerca con l’anticomunismo di tenere divise e opposte forze che potrebbero invece ritrovarsi vicine e alleate in una lotta comune. Perciò l’anticomunismo è nefasto non tanto per noi – che oramai ci siamo cresciuti dentro – ma per il Mezzogiorno e per l’Italia.533

Nelle parole di Amendola si rispecchiava l’obiettivo tattico e strategico del Pci che, di fronte alle condizioni e contraddizioni generate da un momento di transizione e di forte instabilità del contesto politico e sociale meridionale, mirava a cementare un largo “fronte meridionalista”, aperto ai ceti medi e a tutte le forze minacciate dal capitale monopolistico, per schierarlo in opposizione al blocco egemonico democristiano.

Il fronte, o meglio l’arco di forze, disegnato da Amendola seguiva sempre l’impostazione dell’VIII congresso, dove la convergenza partiva dall’individuazione del nemico principale, che si

532

«Dietro all’accesa demagogia meridionalista di Lauro c’è tuttavia il dramma di una grande città come Napoli che non vuole morire, anche se non sa riconoscere ancora le vie della sua salvezza, c’è il rancore di ceti medi condannati alla decadenza e alla rovina, c’è l’ambizione insoddisfatta di nuovi ceti mercantili e imprenditoriali che vogliono farsi le ossa gli uni e gli altri, inquieti e agitati. V’è una piccola e media borghesia di «galantuomini» che non può più vivere del semplice godimento della rendita fondiaria, o non più trarre da questa il necessario complemento a una magra attività impiegatizia o professionale, e che vuole trasformarsi in borghesia industriale, ma cacciata dalle campagne dal capitale finanziario trova nell’industria la strada sbarrata dai gruppi monopolistici che accaparrano crediti, concessioni, commesse e estendono su tutto il Mezzogiorno la loro rete soffocante» (G. AMENDOLA, I comunisti per la rinascita

del Mezzogiorno, «Cronache meridionali», n. 5, maggio 1957, pp. 268-269).

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presentava nei panni politici del monopolio politico Dc e in quelli economici dei gruppi monopolisti privati.

La manovra comunista, la quale si dirigeva dunque in più direzioni e si articolava in diversi momenti, va letta e compresa – come suggerisce lo storico Donald Sassoon – alla luce dell’insegnamento e del criterio metodologico gramsciano, che prevedeva una differenziazione tra le alleanze a livello socio-economico (di classe), a livello ideologico (per esempio l’alleanza con i cattolici) e a livello politico (alleanze con i partiti)534.

All’interno di questa cornice, ed in continuità con l’elaborazione togliattiana sulla questione siciliana, si inscrive la «linea strategica della rivoluzione siciliana». Questa riassumeva la politica del Pci in Sicilia dalla metà degli anni Cinquanta, la quale venne espressa e presentata di fronte ai 200 delegati delle 12 federazioni isolane, e alla presenza del segretario nazionale, nel corso del III congresso regionale del Pci (Palermo, 25-28 aprile 1957).

Nelle conclusioni della risoluzione finale535

si affermava:

1) che l’obiettivo principale e permanente contro il quale si deve rivolgere senza tregua l’attacco dei lavoratori è costituito dal connubio tra i monopoli e l’agraria siciliana che sono le principali forze alleate dell’imperialismo la cui espressione politica è costituita dal gruppo clericale fanfaniano della D.C.;

2) che contro questo principale nemico può costituirsi una larghissima unità siciliana che abbia come pilastro l’unità delle forze lavoratrici;

3) che i ceti medi urbani e rurali debbono essere considerati come alleati permanenti della classe operaia, dei braccianti e dei contadini poveri e la loro forza come una forza indispensabile alla rivoluzione siciliana e che a tale fine i comunisti sono impegnati a sostenere le rivendicazioni e a difendere gli interessi degli artigiani, dei commercianti, dei piccoli e medi imprenditori industriali siciliani, dei piccoli proprietari, dei professionisti, degli impiegati, degli artisti, degli uomini di cultura, degli intellettuali;

Come conseguenza le mosse fondamentali della tattica comunista sarebbero stati:

1) isolare e distruggere i residui feudali, la grande proprietà terriera;

2) impedire l’instaurazione di un regime coloniale ad opera dei monopoli nostrani e stranieri, lottando contro di essi per uno sviluppo economico e industriale sano e organico, fondato su un decisivo intervento dello Stato, sul controllo dei monopoli, sullo stimolo e sostegno della piccola e media industria siciliana;

3) creare un fronte unitario di lotta incentrato sulla alleanza della classe operaia e dei contadini con i ceti medi urbani e rurali e la classe imprenditoriale isolana;

4) lottare in unità con tutte forze politiche regionali e nazionali democratiche che si richiamano agli interessi autonomisti della Sicilia per avere nella regione un governo democratico delle classi

lavoratrici e di unità autonomista.

534

D. SASSOON, Togliatti e la via italiana al socialismo. Il Pci dal 1944 al 1964 cit., pp. 290-291.

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Nella lettura della realtà offerta dal Pci, dove venivano messe in evidenza le difficoltà presenti tra i ceti medi e la borghesia produttiva a causa dell’azione dei monopoli e del connubio stretto con l’agraria, l’autonomia assumeva un valore di fondo, e veniva indicata come uno strumento essenziale per la rinascita dell’isola e la difesa della loro esistenza. Dunque difesa dell’autonomia e lotta ai monopoli erano i nodi centrali attorno cui si allacciava la strategia del Pci per rompere il fronte egemonico del blocco democristiano nell’isola536

.

I comunisti sollevavano pertanto, attraverso la stampa, la propaganda e la retorica pubblica dei comizi e degli interventi nelle sedi istituzionali, una sorta di “ideologia autonomista” che, sfruttando i contrasti sorti tra centro e periferia, anche in seno ai partiti, e intercettando la protesta di varie categorie produttive, in realtà mirava a ridestare l’antica anima sicilianista e presentare il Pci alla testa delle rivendicazioni siciliane.

Lo stesso ammonimento di Togliatti («L’autonomia è in pericolo»), unito all’appello rivolto a tutte le «forze fondamentali dell’autonomia», lanciato dal palco del congresso regionale del 1957537

, dimostrava come il Pci intendesse presentarsi di fronte all’opinione pubblica – come già in precedenza aveva segnalato una fonte del Sifar – quale il «paladino dell’autonomia», suggerendo persino la conclusione che «chi non è comunista è antiautonomista»538.

In Sicilia d’altra parte il rilancio della battaglia autonomistica e la posizione di intransigente difesa delle prerogative assegnate dallo Statuto – a cominciare dall’Alta Corte per la Sicilia – si inquadrava nelle stesse conclusioni dell’VIII congresso, dove venivano sollevate con enfasi le tematiche regionalistiche e le lotte per lo sviluppo delle autonomie locali, tanto che lo stesso Togliatti nel corso del congresso aveva indicato questi obiettivi tra le priorità della lotta per le libertà e contro le violazioni della Costituzione539.

Se dunque l’autonomia diventava nella retorica comunista il motore dello sviluppo economico e sociale, l’insistenza per attuare una politica di aperture e alleanze sociali su scala regionale doveva rappresentare il primo obiettivo verso cui tendere per cementare un “fronte unico” che sembrava

536 R. BATTAGLIA, M. D’ANGELO, Alcune considerazioni sulla linea politica comunista, in R. BATTAGLIA, M.

D’ANGELO, S. FEDELE (a cura di), Il milazzismo. La Sicilia nella crisi del centrismo cit., pp. 89-90.

537 Vedi il testo del discorso conclusivo di Palmiro Togliatti al III congresso regionale del Pci siciliano, ora in I

Congressi regionali del P.C.I. in Sicilia cit., I vol., pp. 310-330.

538 ACS, MI, DGPS, AARR, 1954-56, cat. f 6, b. 52, f. “Sicilia. Elezioni regionali”, sottof. 3, Aspetti della situazione in

Sicilia nella imminenza delle elezioni regionali, 2 febbraio 1955. Il prefetto di Palermo segnalava nel maggio 1957

come i comunisti siciliani, per festeggiare il decennale dell’autonomia, svolgessero una intensa attività propagandistica per esaltare i successi dell’autonomia «della quale – commentava il funzionario – tendono ad ergersi come paladini» (ACS, MI, GAB 1957-60, b. 297, fasc. 16995/54, Relazione del prefetto di Palermo al Ministero dell’Interno per il mese di maggio 1957, 31 maggio 1957).

539 VIII Congresso del Partito comunista italiano. Atti e risoluzioni, Editori Riuniti, Roma, 1957, p. 71. Sul ruolo delle

sinistre nelle rivendicazioni regionaliste nel corso degli anni Cinquanta vedi E. SANTARELLI, L’ente regione cit., pp. 115-119.

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richiamare, più ancora dell’interclassismo di matrice cattolica, quel «fronte di difesa degli interessi siciliani» già teorizzato nel dopoguerra dalla propaganda separatista540.

A incoraggiare il Pci nella ricerca di nuovi interlocutori era in primo luogo il complesso di profondi mutamenti avvenuti nel terreno sociale e politico siciliano degli anni Cinquanta. Si trattava naturalmente di una evoluzione che investiva direttamente lo stesso partito: da una parte l’esaurirsi del movimento contadino e la progressiva scomparsa dei suoi più diretti protagonisti, in seguito all’applicazione della riforma agraria e all’esodo massiccio dalle campagne541, e dall’altra la crisi

dello zolfo542, provocavano una riconfigurazione della composizione sociale del partito, dove perdevano peso (pur restando prevalenti) le categorie dei braccianti e operai543 e invece – seguendo anche un trend nazionale – si realizzava a partire dalla metà degli anni Cinquanta un aumento della presenza delle classi medie (impiegati, commercianti, artigiani, piccoli imprenditori)544.

Questo cambiamento, oltre che un prodotto spontaneo dell’evoluzione dei tempi e delle mentalità, era certamente incoraggiato e favorito dalla politica di apertura verso questi ceti che il Pci avrebbe promosso e perseguito con sempre più insistenza.

Nell’isola un passaggio importante fu segnato dall’attenzione rivolta verso le grandi città, dove intanto la popolazione cresceva tumultuosamente, e dove – come suggeriva allora lo stesso Togliatti – bisognava penetrare per esercitare un’attrazione, oltre che verso i nuclei sempre più consistenti di operai, anche verso la piccola borghesia e gli intellettuali545, che insieme al sottoproletariato, costituivano la cospicua dote elettorale delle destre in declino.

540

In un manifesto dei separatisti si leggeva diceva: «Il M.I.S. non impedisce a nessuno di professare una idea politica. Esso accoglie tutti, Comunisti, Socialisti, Democratici Cristiani, Liberali, perché il M.I.S. non è un partito, ma è un fronte di difesa degli interessi dei Siciliani» (il testo è citato in A. LI VECCHI, Autonomismo e separatismo, in Aa. Vv.,

Storia della Sicilia cit., p. 284.

541

Come ricordava un sindacalista comunista intervistato dalla giornalista Giuliana Saladino: «partivano interi direttivi di sezioni comuniste e socialiste, sindaci e presidenti di cooperative, tutto il quadro politico che era stato l’anima delle lotte per la terra e le miniere. Come sindacato non ci accorgemmo subito delle proporzioni del fenomeno, non capimmo che le partenze, prima sporadiche e clandestine, diventavano un fatto di massa che investiva in primo luogo il nostro quadro dirigente (G. SALADINO, Terra di rapina cit.,p. 58).

542

Vedi le testimonianze di alcuni dirigenti comunisti contenute nel volume F. P. VITALE, La memoria dei comunisti

nisseni cit. Nella provincia di Caltanissetta, dove erano migliaia gli operai impiegati nelle miniere di zolfo, furono forti i

contraccolpi della crisi zolfifera sul partito che nell’arco di pochi anni non perse solo voti, ma fu depauperato anche di