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2. LINGUA, GENERE E SESSUALITA’

2.3 Lingua e Sessualità

2.3.2 La linguistica Queer

L’influenza della Queer Theory è evidente fin da subito anche negli studi di linguistica e soprattutto di sociolinguistica. Il primo volume che si può definire apertamente queer esce, infatti, nel 1997: Queerly Phrased: Language,

Livia e Hall portano il concetto di performatività nella linguistica, sostenendo che un’espressione diventa tipicamente gay/lesbica se l’ascoltatore/lettore capisce l’intenzione del parlante/scrittore: il queerspeak è quindi un fenomeno intenzionale e performativo (1997: 14), che mostra delle caratteristiche simili al discorso ironico (1997:14).

Il volume si concentra principalmente su due tematiche: le espressioni che sono usate in diverse lingue per riferirsi alle persone in base alla loro identità sessuale e gli stili e modi di discorso e scrittura utilizzati per performare le identità sessuali. Il concetto di performatività entra quindi nella sociolinguistica, e la maggior parte delle ricerche si concentrano adesso sulla costruzione e sulla performatività delle identità sociali tramite l’uso della lingua.

Si diffonde l’idea che non esista un codice linguistico specifico all’identità gay/ lesbica ma che bisogna guardare alle specifiche comunità di pratica per comprendere come la lingua sia utilizzata per performare un certo atteggiamento (Morrish e Sauntson 2007:9-10 ).

Contemporaneamente, Barrett (1997) mette in discussione l’idea di una comunità linguistica gay/lesbica omogenea. Barrett (189) propone l’espressione “homo-genius speech community” che definisce così:

“a homo-genius community is one in which the very notion of community cannot be taken for granted. The essential nature of a queer community can be seen as the self-recognition that is totally constructed” (189).

Invece di ricercare un’omogeneità nel modo di parlare della comunità queer, bisogna adottare un approccio simile alla linguistica del contatto e analizzare come le caratteristiche linguistiche del queerspeak si sovrappongono e intersecano con gli altri gruppi sociali (Barret: 190-191). Con questo approccio, Barrett analizza i discorsi di drag queens nei bar di Dallas in Texas, affermando che la queerness di questi discorsi è situata nella co-occorrenza di forme, stili e registri linguistici diversi all’interno dello stesso discorso

Dagli anni ’90 si afferma dunque l’idea che non esistano lingue gay/lesbiche ma che le risorse linguistiche siano usate da individui queer (nel senso più ampio di non-eteronormativo) per indicare, cioè indessicalizzare, una determinata identità (Kulick e Cameron 2006: 14).

Non ci si chiede più come l’identità sessuale si rifletta nella lingua ma piuttosto come le diversità identità siano costruire tramite l’utilizzo di forme specifiche in contesti specifici.

La lingua è utilizzata dagli individui per auto-identificarsi come gay/lesbica/ transgender/queer: alcune parole, frasi e costruzioni morfosintattiche possono essere più comuni nel linguaggio di questi individui rispetto a quanto lo sono nella lingua di altri parlanti.

Kulick (2000: 257), riguardo ai queerspeak, sostiene l’importanza di ricordare che non tutte le persone che si identificano come non-eteronormative usano questo codice e al contrario molte persone che si identificano come eterosessuali lo padroneggiano perfettamente. Non bisogna dunque confondere le risorse simboliche di cui chiunque può fare uso per invocare delle immagini stereotipate sull’omosessualità con le pratiche reali degli individui queer (257).

Inoltre gli approcci post strutturalisti della linguistica queer contrastano il binarismo di genere e l’eteronormatività come punti di partenza. Motschenbacher (2010:7-8) sostiene che, sebbene sia impossibile prescindere da queste categorie di partenza (come uomo, donna, omosessuale o eterosessuale), bisogna dimostrare consapevolezza critica nell’utilizzarle e nello scorgere la materializzazione discorsiva che è attaccata ad esse. In questo senso, dal punto di vista della metodologia, la ricerca quantitativa deve sempre essere accompagnata e relativizzata da quella qualitativa.

Sebbene le pratiche linguistiche di individui queer mantengano un’importanza preponderante, la linguistica queer non equivale dunque alla ricerca linguistica su gay e lesbiche. L’approccio queer, mettendo in discussione l’eteronormatività, analizza tutti quei meccanismi linguistici che portano a percepire l’eterosessualità come naturale (Motschenbacher 2010: 10-11).

La linguistica queer può essere, dunque, descritta come la ricerca critica sull’eteronormatività da un punto di vista linguistico (Motschenbacher 2013: 522-523).

Cameron e Kulick (2003) criticano l’approccio identitario e prediligono una ricerca focalizzata sul rapporto tra lingua, sessualità e desiderio. Secondo loro (270) la ricerca sulla lingua e la sessualità dovrebbe abbandonare l’identità e riformulare tutto in termini del rapporto tra lingua e desiderio.

Al contrario Bucholtz e Hall (2004) insistono nel ritenere l’ identità sessuale come un fattore rilevante nello studio della lingua nelle pratiche sociali e culturali (473). Inoltre, riaffermano anche l’uso dei termini gay/lesbian/queer

speech in quanto utili a descrivere l’uso della lingua in determinati ambienti o

per riferirsi a ideologie e attitudini relative alla lingua piuttosto che alle pratiche reali di utilizzo linguistico (475). A questo proposito, Hall (2013: 640) portando ad esempio nuovamente il caso degli Hijras in India , afferma che la 35

distinzione che fa la Queer Theory tra pratica e identità non è sempre fruttuosa.

L’identità non è qualcosa di fisso e legato all’eteronormatività, come sostiene la Queer Theory, ma piuttosto è un processo strettamente legato alle pratiche attraverso cui si esprime, in primis il linguaggio (Hall 2013: 534-635).

In qualunque modo si vogliano chiamare queste forme linguistiche (registro, varietà, stile, lingua, dialetto o slang) il principio dell’indessicalità funziona allo stesso modo: i parlanti creano e utilizzano associazioni convenzionali tra forme linguistiche e significati sociali per costruire ideologicamente la propria identità (Bucholtz e Hall, 2004: 477).

Per Bucholtz e Hall (2004:489-90) la linguistica queer deve dunque mantenere al suo interno l’approccio femminista basato sulle relazioni di potere e coniugarlo con l’idea queer che non esistano categorie di genere esistenti a priori.

Hijra è un termine usato in India e Pakistan per riferirsi a individui transgender nati uomini ma

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A queste riflessioni fa da cornice l’approccio delle comunità di pratica (Eckert e McConnell-Ginet 1992) che vede le categorie di genere e sessualità come interconnesse ad una serie di altri fattori sociali (età, etnia, classe sociale) all’interno di pratiche sociali che si svolgono nelle comunità di pratica (485). Bisogna, dunque, analizzare come effettivamente gay, lesbiche e queer usano la lingua in contesti specifici (look locally) e analizzare questo comportamento in relazione alle dinamiche della costruzione del genere, della sessualità e delle relazioni di potere (think practically).