Capitolo II. Dal diritto alla tecnica: prove di dialogo
4. La sicurezza dei prodotti industriali e le norme tecniche armonizzate
4.1. La normazione privata fra tecnica e mercato unico
Il terzo caso esaminato al fine di portare alla luce le diverse modalità di ingresso del dato tecnico-scientifico nel tessuto normativo è quello della disciplina dei requisiti di sicurezza dei prodotti industriali.
Se le norme tecniche finora considerate si collocano, a seconda dei casi, esclusivamente all’interno della sfera pubblica o al confine tra quella pubblica e quella privata, qui l’analisi si intreccia necessariamente con il più ampio fenomeno della produzione privata di norme. Si tratta di “documenti che definiscono le caratteristiche (ad esempio dimensioni, aspetti di sicurezza, requisiti prestazionali) di un prodotto, di un processo o di un servizio, secondo quello che è lo stato dell’arte tecnico/tecnologico”273, nati per dare riposta ad esigenze tutte interne al mondo
imprenditoriale, fra cui in primo luogo un incremento dell’efficacia della produzione, esaurendosi, in un primo momento, nella sfera dell’autonomia privata.
La produzione di norme tecniche ad osservanza volontaria da parte di enti espressione delle categorie interessate (c.d. enti di normalizzazione), quali l’Ente Italiano di Unificazione (UNI) e il Comitato Elettrotecnico Italiano (CEI), e dei loro corrispondenti stranieri274, si è però presto intersecato con l’espandersi dell’intervento
pubblico nell’economia, finalizzato a garantire la sicurezza individuale e collettiva e la qualità dei prodotti, fino a comprendere, in tempi più recenti, la stessa tutela dell’ambiente275.
Già con tale circostanza si è incrinata la rilevanza esclusivamente privatistica delle norme tecniche industriali, assistendosi ad una loro sempre più stretta relazione con il diritto. Per quanto riguarda in particolare l’ordinamento italiano, il modello di disciplina delle tecnologie in campo industriale era stato originariamente delineato nel
273 F. Salmoni, Le norme tecniche, cit., p. 241.
274 Si vedano ad esempio la British Standards Institution (BSI), il Deutsches Institut fur Normung (DIN) o l’Association Francaise de Normalisation (AFNOR).
275 Sull’evoluzione che ha interessato il fenomeno della normalizzazione si vedano E. Chiti, La normalizzazione, in S. Cassese (a cura di), Trattato di diritto amministrativo, vol. IV, 2003, pp. 4003 e 4043. L’A. mette in luce come, nel perseguire la libera circolazione delle merci, il processo di armonizzazione delle norme tecniche nazionali abbia finito per fare proprie anche le istanze di tutela legate alla funzione di “regolazione sociale, […] che non si configura come limitazione o correttivo della concorrenza, ma che si integra in maniera stabile e permanente con essa, secondo il dettato del principio dello sviluppo armonioso, equilibrato e sostenibile”.
decreto luogotenenziale 1 marzo 1945, n. 82, in base al cui art. 4 il CNR, d’intesa con le amministrazioni interessate, era tenuto a compilare le norme “per l’accettazione e l’unificazione di materiali, strumenti, apparecchi, macchinari ed accessori varii per usi tecnici e scientifici, nonché per l’esecuzione, il collaudo, la protezione degli impianti e delle costruzioni”. Per quanto riguardava in particolare le norme per l’unificazione, il CNR si avvaleva dell’opera “di enti ed organizzazioni specializzati”, ossia i già ricordati UNI e CEI: questi redigevano le norme, che venivano successivamente incluse all’interno di atti normativi di rango primario o, più di frequente, secondario, e perciò dotate di valore cogente276.
A latere di tale procedura si sono però sviluppate altre modalità di disciplina delle
tecniche industriali, in particolare attraverso l’impiego di clausole generali, quali “la regola dell’arte” o “lo stato della tecnica”, e infine un modello simile a quello adottato dal nuovo approccio comunitario (su cui vedi infra), basato su una combinazione di clausola generale e rinvio alle norme private, accompagnate da una presunzione di conformità. A questa categoria possono essere ascritte la legge 1 marzo 1968, n. 186 e la legge 5 marzo 1990, n. 46: in entrambi i casi, la legge dispone l’obbligo di realizzare i prodotti oggetto della disciplina (rispettivamente i materiali, apparecchiature, macchinari, installazioni e impianti elettrici ed elettronici e gli impianti termici civili) “a regola d’arte”, salvo poi prevedere che quelli realizzati secondo le norme elaborate da UNI e CEI si considerano conformi a tale requisito277.
276 Sulle criticità presentate da questo modello, si veda A. Cagli, Organizzazione e procedure dell’attività amministrativa tecnica nel settore dei prodotti industriali, in P. Andreini, G. Caia, G. Elias, F. Roversi Monaco (a cura di), La normativa tecnica industriale: amministrazione e privati nella normativa tecnica e nella certificazione dei prodotti industriali, Bologna 1995, pp. 183 e ss.
277 L’art. 1 della l. 186/1968 prevede che “tutti i materiali, le apparecchiature, i macchinari, le installazioni e gli impianti elettrici ed elettronici devono essere realizzati e costruiti a regola d’arte”; a seguire l’art. 2 specifica che “i materiali, le apparecchiature, i macchinari, le installazioni e gli impianti elettrici ed elettronici realizzati secondo le norme del Comitato elettrotecnico italiano si considerano costruiti a regola d’arte”. In termini analoghi l’art. 7, c. 1, secondo cui “Le imprese installatrici sono tenute ad eseguire gli impianti a regola d’arte utilizzando allo scopo materiali parimenti costruiti a regola d’arte. I materiali ed i componenti realizzati secondo le norme tecniche di sicurezza dell’Ente italiano di unificazione (UNI) e del Comitato elettrotecnico italiano (CEI), nonché nel rispetto di quanto prescritto dalla legislazione tecnica vigente in materia, si considerano costruiti a regola d’arte”. Sul quadro precedente al recepimento della direttiva sulle procedure di informazione, avvenuto con legge 317/1986, si veda più in dettaglio A. Cagli, Organizzazione e procedure, cit., pp. 183-185. L’A. mette in luce in particolare come “il principale problema cui il nostro Paese si trovava di fronte in materia di norme tecniche, era dunque quello dato dalla mancanza di una precisa ed organica definizione delle competenze dei vari soggetti coinvolti nella elaborazione e nell’emanazione di tali norme. Mancava inoltre qualsiasi definizione dei rapporti intercorrenti tra tali soggetti e, soprattutto, dei rapporti intercorrenti tra norme ‘pubbliche’ (cogenti) e norme ‘private’ (consensuali)”. Sulle diverse modalità impiegate dal legislatore per dare rilevanza alle norme tecniche private
E’ stato tuttavia il processo di integrazione economica europea a costituire la leva per l’elaborazione di un vero e proprio modello (l’unico, come si avrà modo di vedere) di produzione di norme tecniche.
Vale quindi la pena di accennare al contesto in cui tale modello è stato elaborato. E’ noto come una delle tappe fondamentali dell’effettiva realizzazione del mercato unico e della libera circolazione delle merci al suo interno sia stato l’abbattimento degli ostacoli costituiti da un lato dai divieti di importazione e dalle misure ad effetto equivalente (le c.d. barriere tecniche, ossia dalle diverse regolamentazioni nazionali in materie quali la fabbricazione, la sicurezza e l’omologazione dei prodotti), dall’altro dalle norme tecniche private che, in quanto ad aderenza volontaria ed emanazione da parte di enti privati (quali gli enti di normalizzazione) sfuggivano all’applicazione dell’art. 28 CE (ora art. 34 TFUE), riferito esclusivamente alle disposizioni statali278.
La riconduzione ad unità del quadro frammentato costituito dalle norme tecniche nazionali è stata dapprima tentata attraverso l’“armonizzazione totale” (o “vecchio approccio”), ossia per mezzo di direttive che individuassero nel dettaglio le caratteristiche cui i singoli prodotti e processi produttivi si dovevano conformare279.
L’inefficienza di tale strategia non ha però tardato ad emergere: l’“estrema difficoltà di codificare in modo unitario specifiche tecniche disparate” unita all’“imbuto della decisione finale, con votazione all’unanimità, in seno al Consiglio CE, dove i rappresentanti delle amministrazioni nazionali avevano buon gioco nel frapporre
nell’ordinamento, al di fuori dei settori coperti dal “nuovo approccio”, si veda E. Chiti, La normalizzazione, in S. Cassese (a cura di), Trattato di diritto amministrativo, vol. IV, Milano 2003, p. 4030 e ss.: “la disciplina nazionale dei prodotti industriali ha seguito, tradizionalmente, tre modelli: l’incorporazione delle specifiche tecniche in atti imperativi; il rinvio alle specifiche tecniche adottate dagli organismi interni di normalizzazione; un modello misto, che combina i due precedenti”. Si tratta comunque di modelli destinati a diventare recessivi a fronte dell’estensione delle politiche comunitarie di armonizzazione.
278 Sul punto si veda H. Schepel, The constitution of private governance, product standards in the regulation of integrating markets, Oxford 2005, pp. 41-42: “only those standards that are rendered obligatory by state measures are tackled […] But the capacity of standards to effectively close off markets to those products which do not comply with them hardly depends on their being obligatory. They can do so on mere market strength […] most notably through insurance policies or supplies contracts”. Sulla giurisprudenza della Corte di giustizia diretta ad ampliare la portata dell’art. 28 alle norme poste in essere dagli enti di normalizzazione (affiancando al criterio formale della natura vincolante della norma quello sostanziale del condizionamento pubblico alla formazione degli standard privati, per mezzo di finanziamenti, nomina degli organi direttivi o meccanismi di delega e/o controllo), vedere Id., pp. 43-44, e F. Salmoni, Le norme tecniche, cit., pp. 342-346.
279 Tali direttive si inserivano all’interno del “General programme for the elimination of tecnical barriers to trade that result from disparities between the provisions laid down by law, regulation or administrative action in the member states” (1969) GUCE C 76/1.
ostacoli pretestuosi”280, rendevano i tempi (anche decennali) del procedimento di
approvazione delle direttive armonizzate inidonei a rispondere sia alla rapidità del progresso tecnico, sia alle esigenze di unificazione del mercato interno. A ciò si aggiungevano poi i problemi posti dal margine lasciato agli Stati membri nel recepire le direttive, che rischiava di vanificarne l’effetto “armonizzante”.
Il metodo dell’armonizzazione totale è stato quindi abbandonato in favore del c.d. nuovo approccio alla normalizzazione, che rappresenta un modello del tutto originale di relazione tra dato tecnico-scientifico e produzione normativa, oltre che tra produzione normativa pubblica e privata. Così delineate, almeno sommariamente, le dinamiche sottese all’elaborazione delle norme tecniche armonizzate, si cercherà di metterne in luce le peculiarità attraverso l’analisi di uno dei settori produttivi in cui esse hanno trovato applicazione.