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LA PARABOLA DEI VIGNAIOLI OMICIDI (Mc 12,1-12)

Introduzione

La parabola dei vignaioli omicidi (Mc 12,1-12) è un racconto complesso che unisce in sé due elementi importanti: l’amore di un uomo e la malvagità di alcuni contadini. Articolata secondo una precisa climax ascendente, che vede in crescendo tanto il male, significato dai rifiuti violenti dei fittavoli, quanto il bene confermato dal padrone paziente e fiducioso, che continua ad inviare i suoi fattori e il figlio, si presenta come una storia umanamente incomprensibile, che descrive un comportamento assurdo e lascerebbe pensare al padrone come uno sciocco ed incosciente. Davanti ai servi che tornano malmenati egli non risponde con altrettanta malvagità, invero egli continua a parlare con il linguaggio della fiducia, nonostante il rifiuto, volendo che sia accettato e ricambiato nell’affetto che egli dona per primo.

Il padrone ama la vigna, ma ama anche coloro che vi lavorano, cerca di educarli, non li rimprovera, li lascia agire nella loro libertà, vuole dialogare. C’è una parola che può guarire ogni fredda sordità, illuminare le nostre tenebrose cecità. È la parola fatta di gesti, di silenzi, di frasi sobrie e discrete, che nutrono il cammino ferito della vita. La condizione di questi vignaioli riflette molto bene il sistema agricolo del tempo che era la mezzadria. Si tratta di un contratto agrario per cui il proprietario di un podere e il capo di una famiglia colonica si accordavano per la coltivazione del podere stesso, e stabilivano la spartizione a metà dei prodotti. Anche in Italia fino a non molti anni fa esisteva la mezzadria. Chi ricorda quei tempi capisce la sofferenza che si cela dietro il lavoro, spesso estenuante, di quegli uomini chiamati al lavoro, padroni solo della zappa e non della terra. Giovanni Verga ha descritto molto bene questa società e ce ne dà un quadro scarno e vero nelle novelle. Di Mazzarò dice che «era un omiciattolo che andava senza scarpe a lavorare nella terra, nel mese di luglio, a star con la schiena curva 14 ore, col soprastante a cavallo dietro, che piglia a nerbate se si fa di rizzarsi un momento»395. La mezzadria purtroppo è stata anche strumento di sopruso da parte dei padroni, e non di rado ha suscitato negli animi dei braccianti vivi sentimenti di rivalsa sociale, talvolta sfociati in aspre lotte proletarie. Ma questo non è il caso della nostra parabola. Ciò che mi preme sottolineare è invece l’epilogo della novella. Prima di morire, Mazzarò, che si era arricchito nel tempo, uscì come un pazzo, barcollando, e strillava:- roba mia vièntene con me!

I vignaioli nella parabola vedono il figlio e dicono:- questi è l’erede; su uccidiamolo e l’eredità sarà nostra –(Mc 12,7). Entrambe le scene ci aiutano e si aiutano a vicenda per far emergere la verità. La roba e la vigna sono di Dio; sono luoghi dove si consuma e si dimostra la vita dell’uomo, che tanto può essere versata in dono a Dio, tanto in miseria. Quando l’uomo non riconosce più Dio si attacca alle cose, evita ogni domanda scomoda, ogni autocritica, ogni capacità di rinuncia. Ci si crea così una coscienza essiccata e sterile oppure la si rende così elastica da essere capace di coprire tutto, «chiamando bene il male e male il bene, cambiando la tenebra in luce e la luce in tenebra, l’amaro in dolce e il dolce in amaro» (Is 5,20).

La tragedia di questi vignaioli è grande: ancor prima di uccidere e ferire altri, essi stessi sono già morti dentro. Tuttavia Dio che è più grande, sa che quei gesti in realtà sono un grido di aiuto e si china per curare. La parabola vuole raccontare in modo affascinante, la dolcezza e la sensibilità materna e paterna insieme che emerge in questo canto dell’amicizia di Dio.

I.Analisi letteraria

I.1 Articolazioni, contesto e differenze nel racconto sinottico

Il racconto inizia con una chiara affermazione: Gesù prese a parlare in parabole! Cos’è una parabola? Come la intendono gli evangelisti? Non è facile rispondere. È piuttosto evidente che Gesù utilizzi le parabole per la predicazione del Regno di Dio, ma non è lui il primo a farne uso. Già nella letteratura veterotestamentaria esistono esempi di linguaggio parabolico, pensiamo al brano di 2 Sam 12,1-5 dove si parla del peccato di Davide con Betsabea. Nell’Antico Testamento le parabole vengono usate a scopo dimostrativo, si usano per comunicare una realtà, per far sapere senza essere troppo espliciti. Somigliano ad una “trappola” che per mezzo di una attraente storia riesce a catturare l’interesse dell’ascoltatore per coinvolgerlo nella vicenda, provocarlo al giudizio e finalmente svelargli che il giudizio dato, in realtà interessa egli stesso.

Nel Nuovo Testamento la parabola ci dice innanzitutto come è Dio396; diventa la prerogativa di Gesù per farsi capire da tutti ed esprime al contempo la saggezza e la finezza di un efficacissimo metodo di comunicazione. Dato, però il linguaggio enigmatico, non sempre è evidente il significato; è necessario allora saperle interpretare: ad ogni evento e personaggio che viene narrato bisognerà attribuire una verità o una realtà che si vuole far emergere 397. È Gesù stesso che ce ne dà un esempio nella spiegazione della parabola del seminatore di Mc 4,13-20.

Detto ciò sembrerebbe che le parabole siano state tutte inventate ex nihilo, ma non è così. Spesso accade che nei testi si riconoscano fatti noti, elementi significativi, stralci di altri passi biblici, scene di vita comune. Tutto ciò è stato utilizzato, rielaborato e inserito nel racconto, perché emergesse alla fine il corpus del testo. Il motivo è anzitutto di ordine pratico: le parabole sono racconti per il popolo, se vogliono essere recepite devono rendersi interessanti, per cui è necessario calarle nello stesso Sitz im Leben del popolo. Bisogna fare attenzione a non confondere la parabola con l’allegoria. Nella parabola è l’intera narrazione (la trama narrativa, la struttura) che funziona come metafora, nell’allegoria troviamo invece, diversi elementi, di cui ciascuno ha la struttura di base di una metafora, tenuti insieme solo dal riferimento alla realtà significata 398.

Possiamo distinguere le parabole in due tipi: quelle “comiche” e quelle “tragiche” o della controversia, contrassegnate dal fatto che la struttura narrativa sfocia nella catastrofe e nell’isolamento del protagonista 399. La parabola dei vignaioli omicidi per l’evidente epilogo, appartiene a questo genere. Sin dalla pubblicazione dell’opera di Jülicher, Gleichnisreden Jesu la parabola dei vignaioli omicidi, è stata ampiamente considerata come un’allegoria costruita dalla Chiesa primitiva in riferimento alla morte di Gesù 400. Sia Weder che Léon-Dufour sostengono però, che dietro il brano dei sinottici, esista una parabola originaria401 raccontata da Gesù stesso.

La comunità primitiva, antecedente alla redazione dei vangeli avrebbe ritenuto opportuno rielaborarla, arricchendola di connotati post-pasquali e gli evangelisti, infine, avrebbero introdotto il brano all’interno dei rispettivi racconti, diversamente riadattati a seconda dell’uditorio per cui hanno indirizzato gli scritti.

La versione attuale pervenutaci in quattro documenti: i tre vangeli sinottici e il vangelo apocrifo di Tommaso, è chiaramente un’allegoria, una storia cioè, che ci parla di Gesù, Figlio di Dio, inviato nel mondo e rifiutato dagli uomini. Ma di quale allegoria si tratta? L’esistenza di diversi elementi presenti nel testo quali la siepe, il tino, la torre di matrice isaiana, ci inducono a pensare che non tutta la narrazione è pura allegoria402, se così fosse quale significato proprio avrebbero detti elementi in connessione con l’interpretazione cristologica? Il passo di Isaia non può che servire solo come aggancio per iniziare il racconto. Circa l’origine della parabola

396 H.WEDER, Metafore del Regno, 109.

397 In realtà il problema circa la genesi e l’interpretazione delle parabole è molto più complesso. Tra i diversi studiosi, i più significativi per innovazioni sono Dodd (chiave escatologica), Jeremias (chiave cristologica), Fuchs (applicazione sull’uditore). Per ulteriori approfondimenti vedi anche H. WEDER, Metafore del Regno, 17-23.

398 H. WEDER, 121-122.

399 H. WEDER, 71; V. TAYLOR, Marco, Assisi 1977, 551.

400 V. TAYLOR, 551.

401 H. WEDER, 189; X. LÉON-DUFOUR, Studi sul Vangelo, 436.

nascono due ipotesi: una sostiene la gesuanità del testo, l’altra ne affida la paternità alla comunità cristiana primitiva e agli evangelisti.

Gesù parla agli ebrei del suo tempo, questa parabola è indirizzata ai sommi sacerdoti, agli scribi, agli anziani e ai farisei, tutti profondi conoscitori della “Parola”. Non a caso sceglie un’icona agreste famosa, quale è appunto quella della vigna. Gesù sa bene in che modo incidere sul suo uditorio e sa che questo è un argomento caro al popolo, sa che alle prime parole subito riconosceranno quella storia tante volte ascoltata nella sinagoga e avrà l’attenzione giusta per poter rivelare la buona novella. L’evangelo di Marco, più antico rispetto agli altri due sinottici è il nostro punto di riferimento per l’intera analisi della parabola. In base alle diverse ipotesi circa la formazione ci interessa sapere che l’evangelo è stato costruito a partire da alcuni dati preesistenti, forse trasmessi oralmente o per iscritto da comunità primitive e premarciane. Tra le sezioni individuate c’è una raccolta di controversie gerosolimitane che comprende la sezione 11,15-12,40 403, entro cui si trova il nostro brano.

Chiaramente Marco intende presentare un Gesù cosciente non solo di quello che gli sta accadendo, ma anche della sua fine. Tutta l’opera marciana è impregnata di questa autobasilea.

Marco ripropone sostanzialmente il Dio giudaico, espresso nei connotati di potente (10,27;14,26), creatore del mondo (13,19), ecc., ma fa ruotare tutto intorno al Figlio che è venuto per rivelare il volto vero del Padre. È importante sottolineare che Marco è il «teologo dei titoli cristologici». Tutto l’evangelo è un continuo susseguirsi di aggettivi riferiti a Gesù bene incastonati nel discorso narrativo: Messia, Figlio di Dio, Figlio dell’Uomo, Signore, figlio di Davide; ma uno dei tratti della cristologia marciana viene spesso designato come “segreto messianico”. W. Wrede ha studiato il comportamento di Gesù e ha notato che effettivamente, non si dichiara mai né lascia che altri lo identifichino come il Messia (cfr 1,34.44; 3,12; 5,43…).

Soltanto alla fine, con la sua morte emerge in maniera molto chiara ed evidente la sua messianicità. Tenendo conto di quanto espresso, dalle pagine successive, emergerà chiaramente che la parabola è un microevangelo di Marco perché in essa è racchiusa gran parte della sua teologia. Il brano si trova al capitolo 12, vv 1-12, prima cioè del grande discorso escatologico che interessa il capitolo 13 fino alla fine. Al capitolo 11 Gesù è acclamato come colui che viene nel nome del Signore (v. 9), ma subito dopo, la sua autorità viene messa in discussione perché entra in conflitto con l’istituzione del Tempio e i suoi funzionari corrotti. La parabola che stiamo analizzando si colloca come risposta a questa obiezione, ma nello stesso tempo vuole evidenziare che Gesù si pone in continuità con la grande collezione dei profeti veterotestamentari, dopo Giovanni, che è citato immediatamente prima, tra gli ingiusti perseguitati e uccisi.

Considerando, quindi, la parabola quale chiave d’interpretazione per la successione degli avvenimenti, possiamo dichiarare di trovarci in una cornice già e non ancora pasquale, in cui s’inaugura l’ultima sezione dell’intero vangelo di Mc, segnata dal binomio morte – risurrezione.

I.2 Struttura ed analisi esegetica di Mc 12,1-12

Sulla scia di Léon-Dufour, che riparte il testo in cinque momenti,404 suggeriamo la seguente suddivisione e proponiamo per ogni articolazione l’analisi esegetica.

1. Aggancio biblico-narrativo v. 1

2. Invio dei servi vv. 2-5

3. Invio del Figlio prediletto e uccisione vv. 6-8

4. Invito al giudizio vv. 9-10a

5. Aggiunta scritturistica vv. 10b-11

6. Epilogo v. 12

1. Aggancio biblico-narrativo

403 R. A. MONASTERIO -A.R.CARMONA, Vangelo e Atti degli apostoli, 155.

v. 1:

Gesù prese a parlare in parabole: “un uomo piantò una vigna, vi pose attorno una siepe, scavò un torchio, costruì una torre, poi la diede in affitto a dei vignaioli e se andò lontano”.

Questa prima parte riflette il clima del racconto in senso proprio: i verbi sono posti tutti all’aoristo. Tralasciando le prime battute d’introduzione, ci troviamo di fronte ad una ipotiposi, cioè una descrizione impressiva e vivace che apre la scena con un’immagine spaziosa e armoniosa. Tenendo presente il contesto marciano, come si è detto, Gesù risponde all’obiezione circa la sua autorità e “s’inventa” questo racconto in cui giustifica la sua persona e il suo operato.

Certamente, Gesù fu rifiutato dagli ebrei, ma non è solo questo il motivo per cui racconta la parabola. Il v. 1 è una chiarissima rievocazione del brano di Isaia 5,1-2, il famosissimo canto della vigna. Si riporta qui di seguito il testo masoretico messo in parallelo con quello della LXX e dei vangeli di Mt e Mc 405.

Testo ebraico | Testo greco | Mt, Mc

E innalzò una torre e innalzò un torre E innalzò una torre nel suo mezzo nel suo mezzo

e vi scavò e vi scavò e vi scavò

un tino. un tino. un tino.

La vangò e lo circondò Piantò la liberò dai sassi di una siepe una vigna

e la piantò e piantò e la circondò

con uva rossa una vigna di Sorec di una siepe.

Perché Gesù avrebbe scelto proprio questo brano per iniziare a parlare di sé? Quale incidenza aveva sul popolo il profeta Isaia e soprattutto questo carme in particolare? Il contesto del profeta non è molto diverso da quello in cui opera Gesù. Isaia è un uomo del regno di Giuda che abita a Gerusalemme. Per quarant’anni si dona alla predicazione, come profeta. Si scaglia contro l’ipocrisia, l’immoralità, il lusso delle donne, i culti idolatrici, contro l’anarchia che regna in città, contro il popolo che si è allontanato da Dio. La situazione politica in cui è chiamato a vivere è molto precaria, l’Assiria minaccia di invadere e assediare; se Giuda non si ravvedrà andrà verso la perdizione, verso il castigo, già imminente. Poiché il popolo ha abbandonato Dio, viene a mancargli il sostegno contro il nemico406.

Isaia riprende per suo conto la predicazione di Natan: sostiene che Dio non potrebbe allontanarsi dalla casa di Davide, non lo fa ora che il popolo gli è contro, non lo farà in seguito, quando addirittura porterà la salvezza con la nascita di un bambino, “l’Emmanuele”. Qualunque cosa accada, dice Isaia, vi sarà sempre un resto, una radice che potrà rigermogliare. Questa predicazione di Isaia che, storicamente, vuol sostenere un regno barcollante, un popolo disperato, avrà una influenza decisiva circa la speranza giudaica in un Messia della stirpe di Davide. Il canto della vigna allora si pone anzitutto come un lamento, come espressione amara dell’esperienza di un viticultore laborioso, di un amante che canta e racconta il proprio fallimento in amore. L’amante non desidera che sia amato lui, ma che venga amato un altro407.

Il brano di Isaia è chiaramente una metafora della condizione attuale e serve da richiamo, ma non verrà compreso subito, riletto posteriormente agli eventi che preannuncia, avrà grande eco presso il popolo e per mezzo della lex orandi s’imporrà molto anche nella lex credendi, quale memoria essenziale per ricordare la benevolenza di JHWH verso la nazione eletta. A prescindere

405 X.LEON-DUFOUR, 439.

406 H. EISING, Il libro di Isaia, I, Roma 1971, 49-50.

dal fatto che le parole della parabola siano ipsissima verba Jesu oppure no, dal punto di vista letterario è importante che l’incipit della narrazione riprenda un racconto veterotestamentario: è più logico dal punto di vista pratico perché l’uditorio era formato da buoni conoscitori dell’Antico Testamento e serve quindi per attirare attenzione; nello stesso tempo viene conferita maggiore autorità al racconto che segue questa citazione isaiana; Gesù, in questo modo, conferma quanto insegna e cioè che non è venuto per abolire ma per dare compimento alla legge e ai profeti (Mt 5, 17).

2. Invio dei servi vv. 2-5:

A suo tempo inviò un servo a ritirare da quei vignaioli i frutti della vigna. Ma essi, afferratolo, lo bastonarono e lo rimandarono a mani vuote. Inviò loro di nuovo un altro servo: anche quello lo picchiarono sulla testa e lo coprirono di insulti. Ne inviò ancora un altro, e questo lo uccisero; e di molti altri, che egli ancora mandò, alcuni li bastonarono, altri li uccisero.

Il v.2 ci introduce delicatamente nella scena senza lasciar presagire la continuazione.

Finora tutto il racconto faceva pensare ad un favola idilliaca, fatta di delicate attenzioni, di amorevoli premure. Il lettore ed anche l’ascoltatore, hanno potuto constatarne con piacere la bellezza; in fondo sono rimasti coinvolti nella scena, hanno consacrato al séguito tutta l’attenzione dovuta ed ora si aspettano un’evoluzione felice.

Il v. 2 si trova in posizione centrale: fa da cerniera tra l’accaduto e l’avvenire, ognuno si chiede, che ne sarà? È fondamentale sia dal punto di vista della narrazione perché serve ad aumentare la suspense, sia perché sancisce il leit-motiv dell’intera storia, che è senz’altro l’invio nella vigna, dei servi prima e del figlio poi. Considerando il fatto in loco, secondo l’evoluzione logica degli eventi, è ovvio che il padrone voglia esigere i propri frutti. L’espressione ‘a suo tempo’, infatti, vuole sottolineare proprio questo e c’è pertanto chi vuole far coincidere questo tempo408 con quello precettato in Lv 19,23-25, cioè cinque anni dopo l’affitto.

Dal v. 2 al v. 5, si consuma il primo atto dell’atteggiamento drammatico dei vignaioli. Tutto ha inizio con un inquietante ‘ma’ che capovolge la diegesi, quale digressione al clima sereno che si era venuto a creare. Ora il vocabolario si fa pieno di verbi e di termini che esprimono violenza. Il narratore è acuto nel metterli per iscritto. Esiste una grande divergenza voluta, tra i primi due versetti che sono segnati da asindeti, assonanze e dal raffinato lessico di Isaia, rispetto a quelli successivi che invece appaiono freddi e incorniciati da un linguaggio giornalistico, dove non si dà spazio a sentimenti. È messa in luce, attraverso un gioco di contrasti, l’intenzione dei fittavoli, i quali reagiscono contro gli inviati in maniera ingiustificata, sproporzionata e violenta409.

A detta di Jeremias tale modo di reagire non è del tutto assurdo e immotivato. La parabola descriverebbe in maniera realistica lo stato d’animo rivoluzionario dei contadini della Galilea di fronte ai grandi proprietari fondiari, suscitato dal movimento zelota, originario di quella regione. Infatti, la valle superiore del Giordano, le rive nord-ovest del lago di Genezaret, ed anche la regione montagnosa nel suo insieme, costituivano a quel tempo dei latifondi, di cui la maggior parte apparteneva a stranieri410. I braccianti erano stufi di lavorare un suolo che non gli apparteneva e pensarono di appropriarsene con la forza. Il rifiuto dei fattori diventa allora un avvertimento per il padrone: un chiaro messaggio per far capire come stanno le cose e nello stesso tempo serve ai vignaioli stessi per vedere quale reazione ha avuto il padrone, vedendosi rientrare in tali condizioni i suoi messi. Se si considera questa ipotesi la parabola assolverebbe allora, ad un’altra funzione ancora, quella di ristabilire l’ordine sociale infranto.

Mantenendoci fermi al testo, possiamo notare che la violenza dei contadini è direttamente proporzionale all’aumentare degli invii dei servi; ne vengono descritti tre rispecchiando quella

408V. TAYLOR, 554.

409 S. GRASSO, Vangelo di Marco, 297.

che in Marco si chiama la “regola del tre”. Il primo infatti è bastonato, il secondo è picchiato alla testa e insultato, il terzo è ucciso. La scena si è macchiata di sangue. Il comportamento dei vignaioli sembra assurdo. Stando al racconto, solo il primo servo ha la possibilità di dialogare coi vignaioli; è scritto infatti che arriva per ritirare i frutti della vigna, il secondo e il terzo e poi tutti gli altri non ne hanno il tempo, alla sola vista vengono barbaramente malmenati e uno di essi è assassinato. L’atteggiamento del padrone è esattamente opposto a quello dei fittavoli: egli continua a inviare persone. Se osserviamo bene è sempre la stessa parola che è ripetuta per designare gli inviati: servo, in greco doulon. Mutano le risposte, mutano le parole, i gesti dei destinatari, ma i servi sono sempre gli stessi, come quelli del primo invio; ciò che cambia è sono una parola: allous cioè altri, indica le diverse persone che si offrono in questo compito. Il termine ripetuto esprime bene la ferma volontà del padrone a donare ancora opportunità ai

che in Marco si chiama la “regola del tre”. Il primo infatti è bastonato, il secondo è picchiato alla testa e insultato, il terzo è ucciso. La scena si è macchiata di sangue. Il comportamento dei vignaioli sembra assurdo. Stando al racconto, solo il primo servo ha la possibilità di dialogare coi vignaioli; è scritto infatti che arriva per ritirare i frutti della vigna, il secondo e il terzo e poi tutti gli altri non ne hanno il tempo, alla sola vista vengono barbaramente malmenati e uno di essi è assassinato. L’atteggiamento del padrone è esattamente opposto a quello dei fittavoli: egli continua a inviare persone. Se osserviamo bene è sempre la stessa parola che è ripetuta per designare gli inviati: servo, in greco doulon. Mutano le risposte, mutano le parole, i gesti dei destinatari, ma i servi sono sempre gli stessi, come quelli del primo invio; ciò che cambia è sono una parola: allous cioè altri, indica le diverse persone che si offrono in questo compito. Il termine ripetuto esprime bene la ferma volontà del padrone a donare ancora opportunità ai