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La scelta circa la collocazione della disciplina 89

III. L A DIRETTIVA SULLE PRATICHE COMMERCIALI SLEALI E LA SUA

2. I L RECEPIMENTO IN I TALIA : LA NORMATIVA PRIMA DEL C ODICE DEL

2.2 La scelta circa la collocazione della disciplina 89

A prescindere dalle riserve a carattere sostanziale relative alle scelte del legislatore, in dottrina si sono espressi contrasti già con riferimento alla collocazione ideale della nuova normativa, e sull’opportunità di inserire la disciplina delle pratiche commerciali scorrette nel codice del consumo.

Il primo profilo ad essere oggetto di dibattito è stata la scelta del legislatore di lasciare inalterata la normativa del codice civile: si è osservato che una integrazione degli artt. 2598-2601 del codice civile – disciplinanti gli atti di concorrenza sleale – nel codice del consumo avrebbe infatti elevato la disciplina della direttiva a regola generale in materia di pratiche commerciali sleali.233

La scelta operata dal legislatore, in realtà, appare coerente con l’obiettivo, perseguito dal legislatore comunitario, di tenere separate sul piano soggettivo la tutela diretta dei consumatori e la tutela diretta dei professionisti. In questo senso, collocare la disciplina delle pratiche commerciali scorrette all’interno del sistema del codice civile avrebbe reso difficoltoso individuare in modo univoco i legittimati ad agire.234

Si sarebbe voluto, inoltre, sgomberare il campo da possibili confusioni tra la disciplina delle pratiche commerciali scorrette e                                                                                                                

232 Cfr. AA. VV., Pratiche commerciali scorrette e codice del consumo. Il

recepimento della direttiva 2005/29Ce nel diritto italiano (decreti legislative nn. 145 e 146 del 2 agosto 2007), Giappichelli, 2008, p. 67.

233 TROIANI U., La nuova disciplina delle pratiche commerciali scorrette, in

Consumatori diritti e mercato, 3, 2007, p. 70.

234 GUERINONI E., La direttiva sulle pratiche commerciali sleali. Prime note, in

quella relativa agli atti di concorrenza sleali; ciò sarebbe, a fortiori, evidenziato dalla scelta di utilizzare l’aggettivo “scorrette” rispetto all’aggettivo “sleali”, maggiormente idoneo a tradurre il termine unfair della direttiva.235

Altra ipotesi esclusa dal legislatore è stata quella di creare un testo normativo ad hoc rispetto al codice del consumo in tema di pratiche commerciali scorrette, così come avvenuto, ad esempio, in occasione della disciplina dei contratti per la prestazione di servizi finanziari stipulati a distanza. In questo caso, tuttavia, la dottrina è stata tendenzialmente unanime nell’evidenziare che una simile opzione si sarebbe posta in contrasto con l’art. 144 cod. cons., il quale prescrive di attuare ogni intervento idoneo ad incidere sul codice o sulle materie da in esso disciplinate attraverso “esplicita modifica, integrazione, deroga o sospensione delle disposizioni in esso contenute”.236

In definitiva, tra le diverse possibilità che il legislatore aveva a disposizione, sembra che la scelta di collocare la disciplina delle pratiche commerciali scorrette all’interno del codice del consumo sia stata quella maggiormente auspicabile.

Non si comprende, invece, la scelta di porne la regolamentazione all’interno della parte II del codice del consumo, relativo (al tempo) a “educazione, informazione e pubblicità” dei consumatori: più ragionevole, sarebbe stato forse collocare la normativa sulle pratiche commerciali scorrette nella Parte III, Titolo II del codice, disciplinante il rapporto di consumo.

                                                                                                               

235 Peraltro è stato osservato in dottrina che, qualora l’intento sia stato esclusivamente prevenire possibili ambiguità, la scelta del legislatore non sia stata particolarmente felice: ciò perché, da una parte, l’art. 2598 c.c. fa comunque riferimento al criterio della correttezza professionale, e dunque il termine “scorrette” non elimina le potenziali sovrapposizioni; dall’altra parte, perché all’interno del consumo le locuzioni “lealtà” e “correttezza” vengono usate a volte isolatamente, a volte congiuntamente, senza che sia possibile individuare un profilo di demarcazione netto tra le due. Cfr. GUERINONI E., Le pratiche commerciali

scorrette. Fattispecie e rimedi, Giuffré, 2010, p. 96, nota 10.

236 DE CRISTOFARO G., Il «Codice del consumo», in Nuova leg. civ. comm.,

2006, p. 755; MINERVINI E., Codice del consumo, in Dig. disc. priv., Sez. civ.,

Si è osservato,237 infatti, che la scelta sarebbe risultata più idonea

sotto il profilo sistematico e contenutistico: posto che il Titolo II contiene tutte le disposizioni concernenti la disciplina dei contratti tra consumatori e professionisti, questo sarebbe diventato il «secondo pilastro» del sistema di regole generali applicabile ai contratti del consumatore, idoneo ad affiancare la disciplina delle clausole vessatorie.238

In tal senso, l’incoerenza della disciplina deriva dal fatto che la Parte II del codice del consumo disciplina(va) esclusivamente ipotesi relative alla fase precedente la conclusione del contratto, mentre le pratiche commerciali hanno un rilievo ben più ampio nella dinamica negoziale, potendo incidere in fase di trattativa, ma altresì al momento della conclusione del contratto ovvero in un momento successivo.239

Una simile scelta sarebbe stata inoltre supportata, ad avviso della dottrina,240 dalla formulazione dell’art. 39 cod. cons., il quale

statuisce che “le attività commerciali sono improntate al rispetto dei principi di buona fede, di correttezza e di lealtà, valutati anche alla stregua delle esigenze di protezione delle categorie di consumatori”.

È stato evidenziato che l’esistenza stessa del titolo II, in posizione intermedia tra la parte generale sui contratti del consumatore, e la parte speciale relativa ad i singoli contratti, si sarebbe potuta spiegare, al momento della creazione del codice, soltanto nella prospettiva futura di accoglimento delle norme della direttiva sulle pratiche commerciali sleali. In favore di questa ricostruzione deporrebbero altresì i paragrafi 6 e 7 della Relazione del Governo al codice del consumo, i quali evidenziano che “il codice del consumo prevede una disposizione generale riguardante le regole che devono ispirare tutta l’attività commerciale” e che “l’art. 39 introduce principi generali nelle attività commerciali, conformi ai principi generali di diritto comunitario in tema di pratiche commerciali sleali”.

                                                                                                               

237 AA. VV., Le pratiche commerciali sleali. Direttiva comunitaria ed

ordinamento italiano, Giuffré, 2007.

238 Inserita nel Titolo I della medesima Parte III.

239 BARTOLOMUCCI P., L’attuazione della direttiva sulle pratiche commerciali

scorrette e le modifiche al codice del consumo, in Rass. dir. civ, 2008, p. 273.

240 MINERVINI E., Codice del consumo e direttiva sulle pratiche commerciali

sleali, in AA. VV., Le pratiche commerciali sleali. Direttiva comunitaria ed

ordinamento italiano, Giuffré, 2007, p. 76; SANDULLI A., Art 39, in Alpa e Rossi Carleo (a cura di), Codice del consumo, Commentario, Napoli, Esi, 2005, p. 288.

L’art. 39, disciplinando in generale l’attività commerciale, avrebbe potuto operare da “cappello” della disciplina sulle pratiche commerciali scorrette, superando la parvenza di pre-contrattualità che la disciplina potrebbe avere, e valorizzando le esigenze generali di protezione alla base della direttiva la quale trova expressis verbis applicazione in relazione alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori poste in essere prima, durante e dopo un’operazione commerciale relativa ad un prodotto (art. 3, comma 1).

La scelta, in questo caso, appare difficilmente comprensibile: l’unica spiegazione che parte della dottrina241 ha avanzato

rinviene la propria ragione nel fatto che la disciplina delle pratiche commerciali scorrette avrebbe una natura prettamente “pubblicistica”, così come confermato dal fatto che né il legislatore italiano né quello comunitario si siano pronunciati sulle conseguenze privatistiche in caso di violazione da parte del professionista del divieto di porre in attuazione pratiche commerciali scorrette, individuando l’unica conseguenza in sanzioni amministrative pecuniarie. Una simile posizione giustificherebbe, forse, la collocazione della normativa sulle pratiche commerciali scorrette nella Parte II del codice del consumo, estranea al tema della contrattualistica.