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1. Primo capitolo – Quadro di riferimento teorico dello

1.1. Inquadramento dell‘aspetto teorico

1.1.1. La traduzione letteraria nell‘era ―pre-scientifica‖

nell‘era ―pre-scientifica‖, la traduzione letteraria, intesa come traduzione dei classici greco-latini e della Bibbia, era di importanza fondamentale per chi praticava o teorizzava il tradurre nel mondo occidentale. Cicerone (106-43 a. C.), Orazio (65-8 a. C.), George Chapman (1559-1634), Nicolas Perrot D‘Ablancourt (1606-1664), John Dryden (1631-1700) e Wilhelm Humboldt (1767-1835) sono, per esempio, tra coloro che hanno speculato sulla traduzione dei classici; San Girolamo (347-420) e Martin Lutero (1483-1546) hanno invece riflettuto sulla traduzione dei libri sacri. Le opinioni di queste persone sulla traduzione dei classici e della Bibbia da una parte indicano l‘importanza della traduzione letteraria nel mondo occidentale e dall‘altra forniscono alcune informazioni preziose sui metodi utilizzati in questo tipo di traduzione nel corso della storia.

I Romani, al contrario dei Greci che avevano tradotto solo per risolvere problemi pratici di comunicazione con un atteggiamento scettico e ostile verso ciò che proveniva dalle culture straniere, considerarono la traduzione uno strumento importante per assimilare le letterature e filosofie degli altri. Scopo della traduzione letteraria era raffinare la lingua latina attraverso i modelli greci. Questa tradizione stimolò nella Roma antica varie riflessioni teorico-filosofiche sul tradurre. Per esempio, Cicerone nel suo trattato Libellus de optimo genere oratorum,70 manifesto della traduzione artistica, scriveva che quando aveva tradotto i discorsi di due eloquenti oratori greci, Eschine e Demostene, «non

70 Qual è il miglior oratore, c. 46 a. C.

ho ritenuto necessario tradurre parola per parola, ma ho conservato il modo e la forza di tutte le parole» (Osimo, 2002: 13- 14 e cfr. Nergaard, 1993: 58). Anche Orazio, nella sua Arte poetica, testo fondamentale sulla teoria letteraria, esprimeva idee simili a quelle di Cicerone sulla traduzione: «Nec verbo verbum curabis reddere fidus interpres» (Nergaard, 1993: 28), ossia «non ti sforzerai di rendere fedelmente parola per parola il tuo testo»71 (ibid.).

Dopo alcuni secoli, San Girolamo, per giustificarsi di fronte a coloro che lo accusavano di aver tradotto male la Bibbia, si appoggiava ai maestri Cicerone e Orazio, citando le loro stesse parole:

Io per me non solo confesso, ma dichiaro a gran voce che nelle mie traduzioni dal greco in latino, eccezion fatta per i libri sacri, dove anche l‘ordine delle parole racchiude un mistero, non miro a rendere parola per parola, ma a riprodurre integralmente il senso dell‘originale. E di questo mio metodo ho a maestro Cicerone, il quale lo adottò nel tradurre il Protagora di Platone, l‘Economico di Senofonte, e le due bellissime orazioni, che Eschine e Demostene scrissero l‘uno contro l‘altro (…)

Anche Orazio, uomo d‘acuto ingegno e di profonda dottrina nella sua Arte poetica dà questi precetti ad un traduttore erudito; ―Non ti sforzerai di rendere fedelmente parola per parola il tuo testo.‖ (Gerolamo, 1993: 66-67)

Mentre nell‘età classica Cicerone, Orazio e San Girolamo sostenevano che era impossibile tradurre un‘opera artistica traducendo l‘―originale‖ parola per parola, Dante Alighieri (1265- 1321) nel Convivio (1306-1308) affermava, come molti altri prima e dopo di lui, che «non fosse possibile tradurre la poesia senza rompere la sua armonia musicale» (Nergaard, 1993: 46) a prescindere dal fatto che si traducesse parola per parola o il senso. In ogni caso, nel Medioevo i traduttori rifiutarono l‘eloquenza ciceroniana, in cui predominava la bellezza del testo di arrivo, e mirarono alla fedeltà verso la Bibbia con minuziosa e servile esattezza, deformando spesso la lingua della traduzione. Questo metodo di traduzione artistica, che consisteva nel trasportare le parole dall‘―originale‖ all‘idioma latino, fu determinato dal «nuovo valore sacrale cristiano della parola come verbum Dei» (Folena, 1973/1994: 10).

Nonostante per molti secoli la traduzione letterale fosse la più praticata nelle traduzioni dei testi letterari, riflessioni sulla traduzione artistica in qualche modo simili a quelle di Cicerone e

71 Siccome Orazio non usa l‘avverbio ma l‘aggettivo, sia possibile tradurre anche nel

seguente modo: «da vero traduttore, non ti sforzerai di rendere parola per parola il tuo testo».

Orazio, che esaltavano la traduzione del senso, sono osservabili anche nei periodi successivi. Nel 1420 il grande umanista Leonardo Bruni (1370-1444) in un trattato incompiuto sulle leggi di una buona traduzione affermava che «la traduzione più difficile è quella ‹di un testo della prosa armoniosa e ricca di figure retoriche› (...) che non vanno tradotte alla lettera, ma nel loro significato traslato» (Osimo, 2002: 21). Martin Lutero, che desiderava realizzare la più comprensibile versione in volgare tedesco della Bibbia (1522-1534), rendendola leggibile a tutti i germanofoni, tendeva a ―germanizzare‖ la sacra scrittura. Per ottenere questo scopo, il padre della Riforma sosteneva che si doveva «talvolta mantenere rigidamente le parole, talaltra rendere soltanto il senso» (Nergaard, 1993: 36), ossia «lasciare spazio alla lingua ebraica, laddove essa fa meglio di quanto può fare il nostro tedesco» (ibid.). George Chapman, eminente traduttore in inglese di Omero, nell‘Epistle to the Reader, premessa alla sua versione dell‘Iliade, scriveva che il traduttore doveva: «1. Evitare di rendere il testo parola per parola. 2. Cercare di raggiungere lo ―spirito‖ dell‘originale. 3. Evitare traduzioni troppo libere, basandosi invece su un accurato studio di altre versioni e glosse» (Bassnett- McGuire, 1985/1980: 55 e trad. it. 1993: 80). Dal canto suo, Nicolas Perrot D‘Ablancourt, traduttore francese di Tacito e di Luciano, che abbracciava la visione della traduzione ―bella, ma infedele‖, affermava: «Non cerco sempre di riprodurre le parole dell‘autore, nemmeno i suoi pensieri. Il mio scopo è invece quello di ottenere lo stesso effetto che l‘autore aveva in mente e quindi adattarlo secondo il gusto del nostro tempo» (Nergaard, 1993: 38). In modo simile, il celebre poeta inglese John Dryden nella prefazione dell‘Eneide scrisse nel 1697: «Mi sono sforzato di far parlare Virgilio quell‘inglese che egli stesso avrebbe parlato se fosse nato in Inghilterra e nella nostra epoca» (Bassnett-McGuire, 1985/1980: 60 e trad. it. 1993: 86-87). Lo statista, filologo e scrittore tedesco Wilhelm Humboldt nell‘introduzione alla sua traduzione dell‘Agamennone (1816) di Eschilo criticava l‘idea di una traduzione che si adeguava ai criteri estetici dell‘epoca: «Anche se tutti i principali autori greci e latini sono stati tradotti in francese, e alcuni perfino tradotti molto bene nello stile francese, né lo spirito del mondo antico né la comprensione di quello spirito hanno permeato la nazione francese» (Osimo, 2002: 52). Nella prima metà del Novecento il celebre filosofo, storico e critico Benedetto Croce (1866-1952) sosteneva che la lingua letteraria era intraducibile, ossia «Platone e Agostino, Erodoto e

Tacito, Giordano Bruno e Montagne non sono a rigore traducibili, perché nessun altro linguaggio può rendere il colorito e l‘armonia, il suono e il ritmo dei linguaggi loro propri» (Croce, 1993: 217).

Concludendo, nel corso della storia occidentale, coloro che traducevano hanno spesso riflettuto sulla traduzione della lingua artistica, ovvero la traduzione dei testi classici greco-latini e della Bibbia. Questa riflessione ha dato origine ai due metodi principali adottati nella traduzione letteraria: verbum de verbo, tradurre parola per parola, e sensum exprimere de sensu, tradurre il significato. Per esempio, mentre Cicerone (Osimo, 2002: 13-14) sosteneva categoricamente la traduzione del senso per i testi classici, San Girolamo (1993: 66-67) preferiva tradurre parola per parola i libri sacri e il senso di tutti gli altri testi che non appartenevano a questa categoria. In questo modo, San Girolamo introduce una nuova variabile determinante nella scelta del metodo da adottare nella traduzione letteraria, cioè il tipo testuale. Dal canto suo, Nicolas Perrot D‘Ablancourt (Nergaard, 1993: 38) intende tradurre non le parole o il significato, ma l‘effetto. L‘attenzione di John Dryden (Bassnett-McGuire, 1985/1980: 60) non si è rivolta, invece, a rendere una traduzione che si presenti come un testo ―originale‖ scritto nella lingua d‘arrivo. Altri parlano dell‘impossibilità relativa alla traduzione letteraria, a prescindere dal metodo utilizzato. Mentre per Dante (Nergaard, 1993: 46) questa impossibilità era circoscritta alla poesia, per Croce (1993: 217) è assoluta. In sintesi, dall‘antichità latina fino alla seconda metà del Ventesimo secolo, in Occidente, riflettere sulla traduzione «non significava altro che esprimersi sulla traduzione letteraria» (Nergaard, 1995: 17).