6. Apprendimento, lavoro, innovazione nella IV Rivoluzione
6.4. Le nuove competenze, lavori e professioni
6.4.1. I lavoratori della conoscenza
Già a partire dagli anni Settanta del Novecento si è verificato un sostanziale processo di terziarizzazione dell’economia che ha in-teressato tutti i Paesi dell’Europa occidentale determinando una crescita del numero di persone occupate nel settore dei servizi a discapito di quelle impiegate nell’industria e nell’agricoltura (E.
REYNERI, Sociologia del mercato del lavoro. II. Le forme dell’occupazione, Il Mulino, 2005;I.FELLINI, Il terziario di consumo. Occupazione e pro-fessioni, Carocci, 2017). È in tale trasformazione che differenti au-tori hanno intravisto la nascita di un gruppo di nuove professio-ni, definito con l’etichetta di knowledge workers o con termini affini che presentano sottili differenze. Tra le espressioni più ricorrenti F. BUTERA, S. DI GUARDO, Analisi e progettazione del lavoro della conoscenza: il modello della Fondazione Irso e due casi, in Studi Organiz-zativi, 2009, n. 2, e B. SURAWSKI, Who is a “knowledge worker” – claryfying the meaning of the term through comparison with synonymous and associated terms, in Management, 2019, vol. 23, n. 1, hanno segnala-to: personale qualificato, professionisti, esperti, classe creativa, lavoratori autonomi di seconda generazione, esperti, specialisti, knowledge producers, mental workers, information worker e white-collar workers.
L’espressione knowledge workers, coniata per la prima volta da Pe-ter Drucker (P.DRUCKER, Management and the professional employee, in Harvard Business Review, 1952, vol. 30, n. 3; P. DRUCKER, Landmarks of Tomorrow, Harper & Brothers, 1957; B.SURAWSKI, op. cit.) per indicare coloro che possiedono, utilizzano e creano conoscenza preziosa, è ancora oggi utilizzata da numerosi stu-diosi per riferirsi a un idealtipo di lavoratore tipico della moder-nità che produce conoscenza nuova a mezzo di conoscenza ri-correndo all’uso combinato di diversi saperi (F. BUTERA, S.B A-GNARA, R. CESARIA, S.DI GUARDO, Knowledge Working. Lavoro, lavoratori, società della conoscenza, Mondadori, 2008) e utilizzando congiuntamente facoltà cognitive, relazionali e comunicative nel-lo svolgimento dell’attività lavorativa. Seppur all’interno del
di-battito teorico non sia ravvisabile una definizione univoca del concetto (B.SURAWSKI, op. cit.), ma piuttosto emergono plurime sfumature, è possibile individuare alcuni tratti distintivi che sono stati evidenziati da più studiosi e che delineano una nuova figura di lavoratore totalmente differente dall’operaio fordista tipico del Novecento industriale.
Secondo alcuni autori, tra i tratti caratteristici di questo nuovo e crescente gruppo di lavoratori ci sarebbero anche inediti e diffusi livelli di instabilità, precarietà e rischio (U.BECK, La società del ri-schio. Verso una seconda modernità, Carocci, 2013, cit.; R. CASTEL, op. cit.). Innanzitutto per la modalità in cui si esplica il lavoro, con il venir meno di una serie di mansioni prescritte e la necessi-tà di lavorare su “copioni ampi” (F.BUTERA,S.DI GUARDO, op.
cit.) e «ruoli fluidi e intercambiabili» (E. ARMANO, op. cit.) che si modificano in continuazione al mutare dei rapporti di lavoro e delle esigenze produttive e organizzative. In aggiunta, il lavoro diviene task oriented modificando parallelamente la modalità di remunerazione che non è più a tempo ma per obiettivi (ibidem).
Nel caso delle persone che svolgono il proprio lavoro in forma autonoma o attraverso collaborazioni ciò può portare anche a una instabilità e precarietà economica.
Tra i knowledge workers si ritrovano anche lavori definiti “profes-sioni liminali” (F. BUTERA, S. DI GUARDO, op. cit.) come ad esempio consulenti, esperti di comunicazione, web designer, professionisti del design, operatori qualificati del turismo, ovve-ro nuovi povve-rofessionisti che differentemente dalle povve-rofessioni li-berali tradizionali non sono protetti da albi e ordini, e al con-tempo sfuggono alle declaratorie delle categorie professionali, non godono delle tutele del lavoro subordinato dipendente e ri-sultano scarsamente normati, poco istituzionalizzati senza criteri di ingresso definiti e con percorsi di sviluppo professionale non formalizzati (ibidem; E.ARMANO, op. cit.). In questa situazione di incertezza istituzionale, secondo alcuni autori (B.A. BECKLY, Gaffers, Gofers, and Grisps: Role-based Coordination in Temporary
Orga-nization, in Organization Science, 2006, vol. 17, n. 1; E. ARMANO, op. cit.), «è la comunità professionale che riconosce informalmen-te le compeinformalmen-tenze maturainformalmen-te sul campo dai soggetti e conseninformalmen-te ruoli inter-organizzativi tra diversi ambienti aziendali. Vi può es-sere cioè una identità “professionale”, che pur non essendo né formalmente sancita per legge né riconosciuta dagli ordini pro-fessionali, è comunque rilevante dal punto di vista organizzativo e consente gradi di scelta ai soggetti. Da questo punto di vista alcune identità del lavoro non riconosciute dagli ordini si presen-tano ben altro che residuali, come invece sono descritte nella let-teratura sulle professioni [cfr. A. ABBOTT, The System of Profes-sions. An Essay on the Division of Expert Labor, University of Chi-cago Press, 1988]» (E.ARMANO, op. cit., p. 92).
Tra gli studiosi che hanno elaborato delle categorizzazioni all’interno delle quali inserire nuove tipologie di lavoro, si distin-gue il pensiero del sociologo americano R.FLORIDA, L’ascesa del-la nuova cdel-lasse creativa, Mondadori, 2003, che neldel-la trasformazione in atto ha individuato l’ascesa di una nuova classe denominata
“creativa”. Questa classe, in base ai dati occupazionali del Bu-reau of Labor Statistics degli Stati Uniti, è costituita da due ulte-riori sottoclassi: “i professionisti creativi” (ovvero delle occupa-zioni manageriali, di quelle in campo finanziario e degli affari, nei settori legale, tecnico o di assistenza sanitaria e di livello su-periore delle vendite e direzioni commerciali) e il “nucleo super-creativo” (delle occupazioni nei campi della matematica e dell’informatica, dell’ingegneria e dell’architettura, delle scienze sociali, fisiche e biologiche, dell’educazione, addestramento e bi-blioteconomia, dell’arte, design, spettacolo, sport e mezzi di co-municazione; così Florida, citato in S.NEGRELLI, op. cit., p. 51).
Vi è accordo tra gli autori che hanno studiato il fenomeno dei knowledge workers, sulle cogenti esigenze di aggiornamento conti-nuo per questi lavoratori, i cui percorsi di istruzione e formazio-ne non si esauriscono con il conseguimento di un titolo accade-mico ma perseguono con corsi di aggiornamento e/o
formazio-ne durante tutto il corso della vita professionale. Questa pratica risulta essere sia una necessità sia una volontà, in quanto il lavo-ratore della conoscenza deve essere il protagonista della propria traiettoria socio-professionale al fine di mantenersi e imporsi sul mercato con le competenze ricercate (E. ARMANO, op. cit.), ma anche perché riconosce la necessità di autorealizzarsi e autode-terminarsi in campo professionale, e ciò a prescindere dallo spe-cifico statuto professionale (subordinato o autonomo). Nella stessa direzione E. RULLANI, Lavoro in transizione: prove di Quarta Rivoluzione industriale in Italia, in A.CIPRIANI, A.GRAMOLATI, G.
MARI (a cura di), op. cit., p. 437, presenta la figura dello smartwor-ker che autogestisce il proprio tempo e il proprio lavoro e anche decide se e quanto investire sulle proprie capacità infatti è il la-voratore che pensando al proprio lavoro futuro che si trova «a decidere in quale campo investire sul proprio futuro professio-nale, quanto e come assumere rischi in base al risultato. Ed eventualmente quando e come “mettersi in proprio”, con una startup, se ha interlocutori che lo richiedono o ambizioni perso-nali in tal campo».
Gli autori che hanno studiato, più di recente, l’impatto della IV Rivoluzione Industriale sulla creazione e distruzione di posti di lavoro e sulla emersione di nuovi fabbisogni di competenze si sono concentrati molto sul ruolo della tecnologia e in particolare dell’automazione, per giungere in parte a conclusioni simili a quelle fin qui riportate sulla diffusione di lavori ad alta intensità di conoscenze e competenze. Come documentato da A.M AGO-NE, op. cit., gli studiosi che hanno approfondito il tema degli im-patti dell’automazione sulle professioni, raggruppati dall’A. nella schiera degli “innovatori militanti”, sono convinti che la tra-sformazione tecnologica non porterà alla cosiddetta “fine del la-voro”, ma a una crescita dei posti di lavoro che si distingueranno per la ricchezza dei contenuti intellettuali connessi ad attività di ricerca, progettazione, innovazione e gestione delle tecnologie di nuova generazione e a una riduzione dei lavori ripetitivi e facil-mente sostituibili dalle nuove tecnologie (M. COLOMBO, E.
PRODI, F. SEGHEZZI, Le competenze abilitanti per Industria 4.0. In memoria di Giorgio Usai, ADAPT University Press, 2019, pp. 250 ss.).
D.H.AUTOR, F.LEVY, R.J.MURNANE, The Skill Content of Recent Technological Change: An Empirical Exploration, in The Quarterly Jour-nal of Economics, 2003, vol. 118, n. 4, cercando di rispondere alla domanda «What is it that computers do – or what is it that peo-ple do which computers – that appears to increase demand for educated workers?» distinguono le professioni esistenti in routi-narie, caratterizzate da ripetitività e meccanicità, e non routinarie nelle quali ci sono alte componenti di imprevedibilità. È quest’ultimo tipo di professioni che non verrà automatizzato mentre le professioni routinarie saranno facilmente sostituite dalla nuova tecnologia all’avanguardia. Gli AA. specificano inol-tre che la richiesta di professioni non routinarie implicherà an-che una maggiore richiesta di lavoratori con un titolo di studio universitario (ivi, p. 1322).
Secondo E. BRYNJOLFSSON, A. MCAFEE, The Second Machine Age. Work, Progress, and Prosperity in a Time of Brilliant Technologies, W.W. Norton & Company, 2014, restano fuori dal rischio di au-tomazione da parte delle macchine le professioni che richiedono skill emozionali, affettive, relazionali, creative e con esse man-sioni ad alto contenuto intellettuale relative a processi diagnostici e problem solving (M. COLOMBO, E. PRODI, F. SEGHEZZI, op.
cit., p. 250).
Già M. CASTELLS, La nascita della società in rete, Università Bocco-ni Editore, 2002, p. 286 (come riportato da S.NEGRELLI, op. cit., pp. 67-68), aveva affermato che «l’automazione implica […] da un lato l’eliminazione del lavoro esecutivo, meccanico e di routi-ne, e dall’altro la concentrazione delle operazioni di livello supe-riore nelle mani di impiegati e professionisti qualificati, che prendono decisioni sulla base delle informazioni memorizzate nei file dei loro computer».
E.RULLANI, op. cit., p. 423, evidenziando che la tecnologia non è indipendente dagli uomini, ma è al contrario inestricabilmente interconnessa con essi, scalfisce il rischio di determinismo tecno-logico derivante dall’introduzione di nuove tecnologie e suggeri-sce di guardare con attenzione ai nuovi lavori che stanno na-scendo e che proprio la digitalizzazione rende molto diversi da quelli standard tipici del fordismo poiché nascono lavori “intelli-genti”, “altamente differenziati” «che richiedono un impegno temporaneo, tendenzialmente fluido, delle capacità e del tempo dei lavoratori impiegati» (ivi, p. 436).
Anche P.BIANCHI, 4.0. La nuova rivoluzione industriale, Il Mulino, 2018, p. 82, ha analizzato i rapporti tra uomini e robot per ana-lizzarne le ricadute pratiche. Secondo l’A. i robot non sostitui-scono e surrogano mansioni svolte dall’uomo ma svolgono atti-vità ad alta precisione che non potrebbero essere effettuate dall’uomo. Quindi il lavoro umano non viene meno e non è so-stituito dalle macchine, ma sempre più si suddivide tra attività creative-relazionali e attività a basso valore aggiunto che non ri-chiedono l’utilizzo delle nuove macchine complesse.
C. DEGRYSE, Digitalisation of the economy and its impact on labour markets, ETUI Working Paper, 2016, n. 2, p. 23, riprendendo le riflessioni condotte da alcuni autori prima di lui suddivide i lavo-ri nell’economia digitale in tre grandi macrocategolavo-rie: 1) jobs at greatest risk of automation/digitalisation; 2) jobs at least risk of automa-tion/digitalisation; 3) new jobs (posti di lavoro a maggior rischio di automazione/digitalizzazione; posti di lavoro a minor rischio di automazione/digitalizzazione e nuovi posti di lavoro). Nel pri-mo gruppo rientrano lavori come: i lavori d’ufficio e le mansioni d’ufficio, le vendite, i trasporti e la logistica e alcuni aspetti dei servizi finanziari. Nel gruppo dei lavori a minor rischio di auto-mazione troviamo alcuni tipi di servizi come il parrucchiere, l’estetista, il management, le risorse umane e i servizi legali. Infi-ne i nuovi lavori sono a loro volta suddivisi dall’A. in top of the scale e bottom of the scale. Tra i primi riporta i data analysts, i data
mi-ners, i creatori e progettisti di software, applicazioni, macchine in-telligenti, robots e stampanti 3D. Nei bottom of the scale inserisce i
«digital “galley slaves” (data entry or filter workers) and other
“mechanical Turks” working on the digital platforms e uber drivers, casual odd-jobbing (repairs, home improvement, pet care, etc.) in the “collaborative” economy». Anche il quadro de-lineato da Degryse fa emergere un mercato del lavoro polarizza-to che risulta suddiviso tra una fascia alta e una fascia bassa.
Come evidente, nella fascia bassa del mercato del lavoro si col-locano tutti quei lavori del settore dei servizi alle imprese e so-prattutto alle persone.
Un’altra idea diffusa tra gli studiosi del lavoro 4.0 è quella del superamento della divisione tra il lavoro manuale e intellettuale.
Tra gli autori che hanno sostenuto questa possibilità individuia-mo G. MARI, Il lavoro 4.0 come atto linguistico performativo. Per una svolta linguistica nell’analisi delle trasformazioni del lavoro, in A. C I-PRIANI, A. GRAMOLATI, G. MARI (a cura di), op. cit., p. 322, il quale ha affermato che il lavoro tipico del Novecento industriale prevede un dualismo mentale/manuale poiché parte dalla czione dell’idea di ciò che si vuole realizzare e termina con la rea-lizzazione pratica dell’idea stessa (attraverso attività manuali), mentre nel lavoro 4.0 queste caratteristiche del lavoro classico mutano in quanto il lavoro diviene un «atto linguistico perfor-mativo» nel quale avviene la ricomposizione di quegli elementi che sono sempre stati separati all’interno del dualismo lavoro mentale-lavoro manuale.
Questa tesi è stata sostenuta anche da F. TOTARO, Lavoro 4.0 e persona: intrecci e distinzioni, in A. CIPRIANI, A. GRAMOLATI, G.
MARI (a cura di), op. cit., che, in quello che lui stesso definisce un
«corpo a corpo amichevole» con le riflessioni di Mari, evidenzia il superamento della divisione tra il lavoro intellettuale e manuale che a suo parere rappresenta la sostanziale differenza tra il lavo-ro della conoscenza e il lavolavo-ro tipico della fase fordista.