2. Un nuovo panorama del mercato del lavoro
2.1. Lavoro produttivo e lavoro improduttivo nel para-
La moderna nozione di lavoro è scaturita e si è istituzionalizzata a partire dallo sviluppo e dalla affermazione del sistema econo-mico capitalistico. La letteratura economica del XIX secolo (si veda, anzitutto, la produzione marxista: K. MARX, Il capitale, Utet, 1974; K. MARX, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Ei-naudi, 2004, che a sua volta si richiama agli scritti di A. SMITH, La ricchezza delle nazioni, Utet, 1975, e di D. RICARDO, Principi di economia politica e dell’imposta, Utet, 1947) si è fatta promotrice di un’idea di lavoro da intendersi meramente in termini di attività produttiva, e dunque assimilabile, nel processo produttivo capi-talistico, agli altri fattori di produzione, quali terra e capitale.
Un’idea, quella di lavoro declinato in termini produttivi, che si è imposta non solo in ambito economico, ma ha avuto una fortu-na tale da essere incorporata anche nel discorso giuslavoristico, che non ha provveduto a formulare un’epistemologia del lavoro propria della disciplina, e dunque alternativa a quella economici-sta, come sostenuto diffusamente in M. TIRABOSCHI, Persona e lavoro tra tutele e mercato. Per una nuova ontologia del lavoro nel discorso giuslavoristico, ADAPT University Press, 2019, pp. 118-120.
Come è noto, la teorizzazione più matura della nozione econo-micista di lavoro emerge dal pensiero marxista, in particolar mo-do dalla trattazione conmo-dotta nelle prime pagine della prima se-zione Merce e denaro del I Libro di K. MARX, Il capitale, cit., pp.
95-105, relativamente alle categorie di “valore d’uso” e “valore di scambio” dei beni. Declassato a fattore di produzione al pari della terra e del capitale, il lavoro viene spogliato del suo signifi-cato antropologico e sociale, per diventare un oggetto di scam-bio, come argomenta M. TIRABOSCHI, op. cit., p. 115. Per poter essere venduto e rispondere all’interesse del capitalista al profit-to, il lavoro deve essere trattato come un bene economico
fun-zionale alla produzione di un valore di scambio. Lavoro astratto dunque, inteso come capacità di produrre un valore economico – misurato in termini di tempo – scambiabile sul mercato con altri beni dotati dello stesso valore. Dall’età della I Rivoluzione industriale, e per lungo tempo, nella nozione di lavoro rientrano solo quelle attività creatrici di valore in termini produttivi, e dunque economicamente rilevanti. Il lavoro produttivo e salaria-to ha potusalaria-to proliferare nel corso dei decenni grazie alla presen-za del lavoro riproduttivo e di cura, tradizionalmente escluso dalle dinamiche di mercato, e dunque grazie ad una divisione so-ciale del lavoro, che ricalca ruoli di genere (ivi, p. 73).
V.PULIGNANO, Work in deregulated labour markets: a research agenda for precariousness, ETUI Working Paper, 2019, n. 3, p. 7, sottolinea che la suddivisione del lavoro tipica del periodo fordista riflette le comprensioni della sociologia classica, che riconduce in parti-colare alla divisione del lavoro prospettata da Durkheim – asse-gnando alle donne incarichi di cura familiare e ordine domestico, e riconoscendo ai soli uomini la possibilità di inserirsi sul merca-to del lavoro istituzionale.
É.DURKHEIM, La divisione del lavoro sociale, Edizioni di Comunità, 1962, p. 80, all’interno di una più ampia teoria genealogica della società, sottolinea la progressiva differenziazione della donna dall’uomo, sia in termini biologici che funzionali. Se prima dell’istituzione della società «le funzioni femminili non sono net-tamente distinte dalle funzioni maschili, ma i due sessi conduco-no più o meconduco-no la medesima esistenza», con l’affermazione della civiltà si delinea una netta distinzione e separazione di ruoli tra i due generi. Nella società moderna coeva all’A., uomo e donna conducono esistenze profondamente diverse: mentre il primo è deputato al sostentamento della famiglia, e può quindi inserirsi nel mercato del lavoro salariato, la donna può dedicarsi alla cura della famiglia e dell’ambiente domestico. Durkheim valuta posi-tivamente la progressiva differenziazione tra i due sessi, in quan-to capace di alimentare la «solidarietà coniugale», «la più forte
delle inclinazioni disinteressate» (ivi, p. 79). È nella differenza e complementarietà dei due sessi che si fonda infatti non solo la stabilità del matrimonio, ma anche e soprattutto – ai fini del no-stro ragionamento – l’organizzazione sociale moderna. In nome della solidarietà la divisione del lavoro tra i sessi diventa norma.
Il dovere dell’individuo è dunque quello di perfezionare la spe-cializzazione richiesta dal suo compito, accettando di sacrificare le altre sue facoltà. La specializzazione delle funzioni affettive femminili e delle funzioni intellettuali maschili assume dunque in Durkheim un valore morale, perché serve alla coesione e alla stabilità della società.
Lungo il solco della riflessione di Durkheim si colloca l’elaborazione del sociologo statunitense esponente della corren-te struttural-funzionalista Parsons, soprattutto per quanto con-cerne i ruoli sessuali giocati all’interno della struttura familiare e la loro ricaduta in termini di ruoli sociali. Parsons, come Dur-kheim, postula la divisione sessuale del lavoro all’interno della famiglia, e la funzionalità di tale ripartizione di ruoli, durante il periodo dell’industrialismo, in sostegno del mercato del lavoro e dei ruoli societari di appannaggio maschile. Parsons riconduce i ruoli familiari ad «una differenziazione lungo due assi, quello ge-rarchico e del potere e quello della funzione strumentale con-trapposto alla funzione espressiva» (T. PARSONS, R.F. BALES, Famiglia e socializzazione, Mondadori, 1974, p. 49). Il primo asse è relativo alla generazione, il secondo al sesso. La funzione stru-mentale, assolta prevalentemente dal marito-padre, riguarda le relazioni del sistema-famiglia con l’ambiente esterno, con il sod-disfacimento delle condizioni di conservazione del proprio equi-librio e con l’instaurazione “in via strumentale” delle relazioni desiderate verso oggetti-scopi esterni. Il settore espressivo, gesti-to prevalentemente dalla moglie-madre, riguarda invece lo stagesti-to di cose interno del sistema-famiglia, come il mantenimento delle relazioni integrative tra i suoi membri, la regolazione dei modelli e dei livelli di tensione delle unità che lo compongono. Questa divisione sessuale del lavoro risulterebbe efficace, a detta dell’A.,
perché ridurrebbe la concorrenza per il salario familiare, consen-tendo al contempo alle donne, escluse dal lavoro salariato, di concentrarsi sulla crescita dei figli e sull’amministrazione degli affari domestici.
Più recentemente, questo stesso concetto è stato espresso, in termini economici, anche da G.S. BECKER, A treatise on the family, Harvard University Press, 1993. In un discorso dall’ampio respi-ro sull’economia della famiglia, Becker sostiene che la divisione sessuale del lavoro si sia ispirata alla ripartizione di ruoli all’interno della famiglia, ed equipara l’organizzazione di ogni nucleo familiare al funzionamento di una fabbrica (ivi, p. 51), giungendo a giustificare la divisione sessuale del lavoro con la massimizzazione dell’utile mediante la specializzazione da parte di donne e uomini nella loro attività di elezione. Le prime, asse-condando una particolare inclinazione femminile alla cura, han-no sviluppato un vantaggio comparato nell’ambito degli impegni domestici, permettendo così ai secondi di dedicarsi alla produ-zione di mercato (ivi, pp. 37-40). Indipendentemente dalle ra-gioni sottese alla ripartizione di ruoli – che Becker riconduce ad una naturale vocazione alla cura delle donne – il pregio dell’analisi di Becker consiste nell’aver riconosciuto il legame di possibilità che sussiste tra lavoro domestico e lavoro di mercato.
La produttività del lavoro maschile è resa possibile dal silenzioso operare di un esercito femminile e invisibile dedito ad attività di sussistenza, quali il governo della casa e la crescita dei figli. Si comprendono dunque le regole del funzionamento dell’industrialismo fordista e della società sottesa, «profonda-mente legata alla segregazione di genere perché implicita«profonda-mente incentrata sulle dicotomie lavoro/famiglia, uomo/donna, lavo-ro/non lavoro» (M.TIRABOSCHI, op. cit., p. 181).
M. TIRABOSCHI, op. cit., p. 73, approfondisce «l’intima connes-sione o interdipendenza tra lavoro riproduttivo e lavoro produt-tivo», richiamando un passo di H.ARENDT, Vita activa. La condi-zione umana, Bompiani, 2017, p. 111, secondo la quale ciò che i
domestici lasciano dietro di sé è «né più né meno che la libertà dei loro padroni o, secondo un’espressione moderna, la produt-tività potenziale dei loro padroni». Eppure, nonostante l’indispensabile ruolo di sostegno svolto dalla componente lavo-rativa femminile in favore di quella maschile, la prima non ha ri-cevuto alcun tipo di considerazione in termini economici, ma non solo. Arendt ravvisa le ragioni di questa mancata considera-zione nell’elaboraconsidera-zione intellettuale di Marx, che si è imposta al-lora non solo in ambito economico, ma è stata assorbita succes-sivamente anche dalla scienza giuridica: «Marx disprezzava il la-voro improduttivo come parassitario, in effetti una specie di perversione del lavoro, come se non fosse degna del nome di la-voro se non un’attività che arricchisse il mondo» (ivi, p. 110).
Era questa l’ideologia del lavoro fordista, ben espressa da A.
ACCORNERO, Era il secolo del lavoro, Il Mulino, 2000, p. 13: «sala-riato, produttivo, manifatturiero; un lavoro di mercato, non di cura, non di servizio; un lavoro maschio, maschile, mascolino».
L’industrialismo fordista, argomenta M. TIRABOSCHI, op. cit., p.
118, incorpora la nozione astratta di lavoro forgiata da Marx, giungendo così a riconoscere come lavoro solo quell’attività do-tata di un valore di scambio, che può essere cioè scambiata sul mercato in favore di un altro bene. «Il mercato del lavoro» pro-segue «ha coinciso dunque con il mercato del lavoro produttivo»
(ivi, p. 119), dal quale viene contestualmente escluso il lavoro di cura, per lungo tempo considerato “improduttivo” perché non in grado di confezionare un bene vendibile sul mercato (P. BOSI,
“Care”, sviluppo umano e crescita: una conciliazione difficile, Il Mulino, 2008, p. 640; V.PULIGNANO, op. cit., pp. 7-8). Se dunque il lavo-ro plavo-roduttivo viene valutato in termini monetari, coincidendo per l’appunto con il lavoro salariato (così M.TIRABOSCHI, op. cit., p. 119; V. PULIGNANO, op. cit., pp. 7-8), il lavoro estraneo alla dimensione mercantile e non retribuito, quello di competenza femminile, viene declassato alla categoria di non-lavoro.
L’avvento della IV Rivoluzione Industriale, e la portata innova-tiva e dirompente delle tecnologie da essa resa disponibile, mette in crisi il paradigma dell’industrialismo fordista basato, come si è visto, sulla divisione sessuale del lavoro e sulla dicotomia lavoro produttivo-lavoro improduttivo. Come argomentato in F. S E-GHEZZI, La nuova grande trasformazione. Persona e lavoro nella quarta rivoluzione industriale, ADAPT University Press, 2017, pp. 18-19, l’aumento dell’automazione dei processi produttivi comporte-rebbe una riduzione del numero complessivo degli occupati nel settore manifatturiero tradizionale. Allo stesso tempo, si eviden-zierebbe una forte spinta verso la sostituzione e la trasformazio-ne all’interno del mercato del lavoro, attraverso la creaziotrasformazio-ne di attività più complesse caratterizzate dalla complementarietà tra uomo e macchina in seno alla manifattura stessa da un lato, e at-traverso l’affermazione di nuovi segmenti del mercato del lavoro capaci di rispondere alle esigenze di un mutato contesto socio-demografico. La IV Rivoluzione Industriale, da intendersi, come argomentato nel capitolo precedente, non solo nei termini di un’innovazione tecnologica, ma come un nuovo paradigma so-cio-economico e culturale, sembra dunque favorire il passaggio da una «market-oriented vision of the world to a new third-sector perspective», come afferma J. RIFKIN, The End of Work.
The Decline of the Global Labor Force and the Dawn of the Post-Market Era, Putnam’s Sons, 1995, p. XVIII, e la definizione di una nuo-va organizzazione del lavoro che non sia più funzionale solo alle logiche produttive ad esso sottostanti. L’espressione più lampan-te del venir meno della distinzione industrialista tra lavoro pro-duttivo e lavoro ripropro-duttivo è l’emersione del mercato del lavo-ro di cura, un’attività tradizionalmente considerata priva di valo-re economico e dunque svolta gratuitamente dalle donne in seno al proprio nucleo familiare. Questo nuovo segmento di mercato – parimenti ad altre attività che rispondono a bisogni sociali ur-genti lasciati insoddisfatti dal mercato, come la tutela e il risana-mento ambientale, interventi di rigenerazione urbana, la salva-guardia e la valorizzazione del patrimonio artistico e culturale
(M.TIRABOSCHI, op. cit., pp. 158-159) – pongono inedite sfide in termini di salute e sicurezza, richiedendo un ripensamento della normativa assicurativa e di protezione finora modellata su conte-sti e attori del lavoro produttivo.
2.2. I nuovi ecosistemi demografici, economici e sociali