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1.3 La disaffiliazione come paradigma della condizio ne di senza dimora

1.3.1 Il lavoro come fattore d’integrazione

L’identificazione del lavoro comestruttura di integrazione sociale(Ran-

ci, 2002: 23) non `e esclusivamente da imputarsi alla funzione di mezzo volto al soddisfacimento di certi bisogni per la perpetuazione materiale dell’esistenza. Il lavoro ha tradizionalmente rappresentato una delle colon- ne portanti di un sistema orbitante, in gran parte, intorno all’occupazione lavorativa, dettando i criteri della stratificazione sociale e dell’identit`a so- ciale e individuale, della protezione sociale, intrecciando la configurazione del mercato del lavoro con i principi redistributivi adottati dal welfare. Il mancato inserimento dell’individuo nel sistema lavorativo `e, dunque, ten- denzialmente considerato indice di scollamento rispetto al tessuto sociale. In epoca medievale, i poveri vagabondi sprovvisti di un’occupazione su- bivano l’attribuzione di un marchio d’infamia morale, oltre che corporale, iscritto in un sistema dove repressione e assistenza si amalgamavano a tu- tela e preservazione dell’ordine esistente (Geremek, 1992). In particolare, il riconoscimento o meno delle capacit`a lavorative - criterio spartiacque nel rapporto speculare tra lavoro e assistenza - sanciva il merito dell’assistenza a coloro che palesavano inabilit`a fisiche come stimmate della passione del pauper Christi, che avrebbe aperto le porte dell’economia della salvezza ai loro benefattori, per poi, nel tardomedioevo, esser oggetto di trattamento sulla scia della logica repressiva e del controllo, con l’istituzionalizzazione

negli ospedali (Geremek, 1992; Castel, 1995). La figura del mendicante va- lido, fisicamente abile al lavoro, additato comeun usurpatore: qualcuno

che si pone come beneficiario potenziale dell’assistenza mentre si libera dell’obbligo del lavoro (Castel, 1995: 92), cos`ı come quella del povero

vergognoso(Ibidem.: 93), espressione del declassamento sociale e di colo-

ro che Castel definisce i sovrannumerari, prodotto di scarto del sotto impie- go - assimilabili alla condizione degli attuali disoccupati - necessitano, gi`a prima della rivoluzione industriale, una contestualizzazione rispetto alle dinamiche socio-economiche e alla paradossalit`a dei metodi di intervento, basati sull’imperativo categorico del lavoro senza la possibilit`a stessa di

accedere al lavoro(Geremek, 1992: 166). Nonostante il dispiegamento di

forze innescate dalla rivoluzione industriale, il dilagare di una certavul-

nerabilit`a di massa(Castel, 1995: 205) apre le porte del rischio di cadere

in miseria anche alla condizione laboriosa. Non sembra, per `o, esser messa in discussione la convinzione che la liberazione dagli schemi feudali fosse di per s´e garanzia di accesso al mondo del lavoro, istituzionalizzando, cos`ı, di diritto ci `o che prima il mendicante e il vagabondo erano considerati di fatto: dei delitti comportanti giustificate sanzioni penali (Ibidem.: 231),

in quanto espressioni di difetti di volont`a.

L’avvio di una concezione del lavoro comecondizione naturale degli es-

seri umani e della disoccupazione come un’anomalia (Bauman, 2002b:

157), si `e accompagnata ad un rafforzamento della funzione di principale fattore di integrazione ad esso attribuita, ergendolo, cos`ı, a valore fon- damentale all’interno di una nuova organizzazione non solo del sistema lavorativo, ma anche morale e sociale. `E proprio nelle societ`a industriali che il lavoro si esprime con forza come morale istituzionalizzata (Ca-

stel, 1995: 315), imponendo il dovere di svolgere un lavoro - qualsiasi e

a qualunque condizione - come unico mezzo moralmente accettabile per vivere (Bauman, 1998: 29) e intervenendo nei rapporti tra lavoro e as-

sistenza anche attraverso forme di autoselezione da parte dei poveri, nel senso chequanto pi `u squallida e degradante sarebbe stata l’esistenza dei

poveri che non lavoravano, tanto pi `u accettabile sarebbe o quanto meno sopportabile sarebbe apparso il destino di chi prestava la propria opera in cambio di un salario da fame(Ibidem.: 30).

Sempre pi `ul’individuo e la sua specifica collocazione lavorativa sono di-

moderne (Mingione e Pugliese, 2002: 11), imponendosi ai legami d’ori-

gine comunitari, per proporre nuove forme diintegrazione nella subor-

dinazione(Castel, 1995: 382), attraverso la specializzazione e la divisione

del lavoro e una nuova articolazione in classi della societ`a, ma anche come fondamentale fattore di strutturazione individuale dell’identit`a che vede nella carriera intrapresala principale fonte di fiducia in se stessi o di in-

certezza, di autocompiacimento o di autodisapprovazione, di orgoglio o di vergogna (Bauman, 1998 : 36) e che identifica anche la posizione rag-

giungibile nell’ambito della propria comunit`a.

Ma `e proprio quando il lavoro sembra solidificarsi come fulcro di questo ordine sociale, ponendosi come marcatore principale del posizionamento dell’individuo all’interno della societ`a, che questa centralit`a del lavoro

`e rimessa brutalmente in questione (Castel, 1995: 454) nel passaggio

dal fordismo a un modo di produzione pi `u flessibile che non ha soltanto una dimensione organizzativa e tecnica, ma `e espressione di nuovi rap- porti sociali (Rosanvallon, 1995: 83). Si tratta di un passaggio nel quale

si possono riscontrare tutta una serie di antinomie - rigidit`a vs flessibi- lit`a, piena occupazione vs perfetta elasticit`a del mercato, regolazione vs deregolamentazione, programmazione vs rischio - (Chicchi, 2001), tra le quali l’ingrediente pi `u caratteristico `e la disponibilit`a a lasciare che le

mutevoli richieste del mondo esterno determinino la struttura aziendale interna(Sennett, 1998: 51). In particolare la flessibilit`a sia occupazionale

che delle prestazioni,figlia primogenita della globalizzazione (Gallino,

2009: 37), rispondendo alle richieste del “giusto in tempo” e produzione solo su domanda formulate dalla concorrenza internazionale, attraverso la riduzione del costo diretto e indiretto del lavoro e l’imperativo “non

assumere” (Ibidem.: 33), riflette i suoi effetti su una molteplicit`a di piani,

da quello produttivo a quello individuale (Gallino, 2009; Sennett, 1998). Da una parte, l’impatto della flessibilit`a si `e riversato - pur con sfumature diverse - sui sistemi lavorativi, sulla stratificazione in classi, oggi ristruttu- rata con una forma a clessidra e spinta da una forte polarizzazione rispetto alla stabilit`a dell’occupazione, formazione e livello dei salari. Dall’altra, la riduzione e redistribuzione in modo capillare del rischio d’impresa tra catene reticolari dislocate su scala globale, la frammentazione del proces- so produttivo sia da un punto di vista funzionale che spaziale vanno ad ampliare le distanze tra efficienza e solidariet`a, facendosi portavoce di un

messaggio di individualizzazione delle sorti del lavoratore, che al disin- teresse della dirigenza aziendale vede aggiungersi l’indebolimento delle forme associative (Rosanvallon, 1995).

Ineluttabili sono le influenze sui percorsi di vita dei singoli in termini di erosione delle sicurezze occupazionali, professionali, previdenziali, di red- dito, di rappresentanza, che vanno a condensarsi nell’insicurezza delle

condizioni di vita(Gallino, 2009: 76), sempre pi `u in balia di fattori contin-

genti, compromettendo cos`ı le possibilit`a di programmazione del proprio percorso di vita e alimentandoil timore di perdere il controllo sulle pro-

prie vite(Sennet, 1998: 17).

In generale, oggi sembra essersi contratta la possibilit`a di riconoscere nel lavoro quel perno intorno al quale legare definizioni di s´e, identit`a e

progetti di vita (Bauman, 2002: 160), dal momento che il lavoro sembra

perdere progressivamente la posizione centrale di punto d’intersezione tra motivazioni individuali, integrazione sociale e riproduzione del sistema e sembra ad esso sostituirsi un senso di precariet`a diffusa sia in ambito la- vorativo che di vita, che assolve anche la funzione di agente moralizzatore volto all’ordine e al controllo (Bauman, 1999). Ma forti sono ancora i ri- chiami al lavoro nella sua qualit`a di fattore di integrazione nelle logiche di alcune politiche di intervento implementate in ambito europeo, che pro- pongono di promuovere l’inclusione attraverso l’occupazione (Van Berkel, 2002).

Le tendenze a sintetizzare formule di equivalenza tra disoccupazione e esclusione da una parte e occupazione e inclusione dall’altra hanno spinto Van Berkel a interrogarsi sulla validit`a di tali assunti in riferimento alle politiche di attivazione. Viene, infatti, sottolineata la necessit`a di declina- zioni di tali considerazioni in relazione sia al punto di vista soggettivo dei significati delle esperienze vissute dalle persone, ma anche in relazione all’eterogeneit`a del sistema lavorativo per coglierne vantaggi e svantaggi, per meglio considerare opportunit`a e rischi rispetto all’inclusione e all’e- sclusione che ciascuna tipologia di lavoro implica, seppur con modalit`a differenziate, in termini di status, aumenti o riduzioni di reddito, indipen- denza economica, contatti sociali, autostima e prospettive.

Compatibilmente ad un quadro di profonde trasformazioni del sistema lavorativo `e opportuno articolare il discorso sul rapporto e sull’impatto di tali trasformazioni sulle vite dei singoli, evitando di cadere in sintesi

deterministiche, particolarmente scivolose in riferimento alle persone sen- za dimora, nei confronti delle quali `e ancora piuttosto radicato il falso stereotipo della volontaria scelta dell’oziosit`a.