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di Letizia Moratti

UBI Welfare è un innovativo osservatorio animato, in piena li-

bertà, da giovani ricercatori appartenenti alla Scuola di alta formazione di ADAPT che UBI Banca sostiene attraverso bor- se di studio messe a loro disposizione. Con questo progetto UBI Banca intende infatti dare contributo indipendente e proiettato al futuro nella lettura dei recenti fenomeni di welfa- re aziendale, con l’obiettivo di inquadrarli all’interno di una più ampia prospettiva di comunità e territorio che riteniamo imprescindibile per ripensare il sistema di welfare pubblico italiano. Questo è appunto il fine del presente Rapporto sul welfare occupazionale costruito non come un documento chiu- so, accessibile solo a pochi esperti e addetti ai lavori, ma come piattaforma aperta e plurale che contribuisca a ricondurre a si- stema le numerose e frammentate iniziative promosse da im- prese, enti bilaterali e i molteplici attori del sistema di relazio- ni industriali.

Il recente fenomeno del welfare aziendale supera, anche per espressa previsione legislativa, le logiche paternalistiche del Novecento industriale e della imprenditoria illuminata dell’Ottocento. Ma non può certo essere circoscritto e limitato dentro i rigidi confini aziendali. È nostra convinzione che sia in atto un cambiamento di paradigma economico e anche so- ciale che trova nel nuovo welfare una pietra angolare. È ormai certo e da tutti condiviso che il sistema economico che è stato costruito negli ultimi decenni non è oggi più sostenibile.

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Si tratta di una premessa importante, perché quando parliamo di welfare dobbiamo essere consapevoli che si tratta di uno dei principali tasselli di un mosaico complesso difficile da ricom- porre. Non possiamo non avere sullo sfondo una riflessione sull’economia nel suo complesso, e una riflessione che metta al centro l’idea di sostenibilità. E quando si parla di sostenibili-

tà non si fa riferimento solo a tematiche ambientali. Vi sono

ad esempio le grandi sfide demografiche che l’invecchiamento della popolazione e l’incremento dell’incidenza delle patologie croniche e il tema della disabilità ci pone.

Le più recenti proiezioni dell’Euro Working Group on Ageing in- dicano come, neutralizzando la componente migratoria, la po- polazione italiana sia destinata a ridursi a 39 milioni di abitanti entro il 2080, con effetti ancor più incisivi sulla composizione interna della popolazione stessa, e con una forte crescita dell’età media e dell’indice di dipendenza degli anziani. La combinazione tra costante diminuzione della natalità da un la- to e progressivo aumento dell’età media dall’altro conduce a stimare che, nel 2050, la popolazione inattiva sarà pari all’84% di quella attiva. Con le inevitabili conseguenze di sostenibilità economica sul sistema di welfare.

Vi è poi il tema della disabilità, oggi più che mai attuale per- ché ampliabile alle diverse forme di malattie croniche che, sempre più diffuse, rischiano di condannare le persone ad una uscita forzata dal mercato del lavoro.

Tra i suoi tanti significati, la parola “sostenibilità” oggi signi- fica, in primo luogo, sostenibilità economico-finanziaria dei sistemi di assistenza pubblica. Non è una novità, è dalla se- conda metà degli anni Settanta del secolo scorso, dopo una crisi dall’impatto molto ridotto rispetto a quella che stiamo vi- vendo oggi, che il welfare pubblico si è trovato in difficoltà a sostenere il circolo vizioso della società fordista. Una società in cui i limiti dell’economia capitalista erano risolti attraverso un sistema di politiche passive di aiuti fatti di ammortizzatori sociali, assistenza sociale, previdenza e altro ancora a spese dello Stato. Non aver voluto risolvere la crisi di tale sistema quando si è presentata per la prima volta ha implicato la crisi

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dei bilanci nazionali nonché la corsa all’indebitamento e al prepensionamento di persone che avrebbero potuto fornire ancora a lungo un contributo attivo all’economia e alla società. Ha inoltre avuto la conseguenza di salvaguardare, in parte, so- lo una componente della società, scaricandone i costi sulle ge- nerazioni future.

Tutto ciò ha aggravato situazioni di emarginazione sociale le cui dinamiche hanno condotto a profonde fratture nella socie- tà, acuite dalla crisi economica, ma certo conseguenza anche di una di trasformazione dell’economia e del lavoro alla quale i sistemi di welfare, modellati su paradigmi del passato, non hanno saputo rispondere.

Oggi la spesa sociale in Italia è abbastanza simile alle medie europee, nel complesso. Se però ci addentriamo nelle voci di spesa, notiamo che quella per le pensioni in Italia ammonta al 17% del prodotto interno lordo, tre punti in più della media europea. Il nostro sistema di welfare sembra concentrarsi più sugli assegni pensionistici e meno sulla salute e il benessere delle persone. Infatti il dato sulle spese per la sanità è inferio- re di oltre 5 punti percentuali rispetto alla media europea. A ciò bisogna aggiungere che la spesa pensionistica è inversa- mente proporzionale a quanto investito in istruzione e forma- zione: investire solo il 4,1% del prodotto interno lordo nel no- stro sistema educativo significa non investire sul futuro del Paese.

Il fatto stesso che spesso non si parli di istruzione e di forma- zione, non solo dei giovani ma anche della popolazione in età di lavoro, quando si discute di welfare è, oltretutto, sintomo del fatto che siamo ancora lontani da una vera economia socia- le che abbia al centro lo sviluppo integrale della persona e la sua sostenibilità nella società di oggi. La rivoluzione tecnolo- gica in atto, che tanto inciderà sui modi di produrre e di creare ricchezza, impone un piano straordinario di alfabetizzazione digitale nelle aziende e nei luoghi di lavoro che è compito dei moderni sistemi di welfare affrontare, coinvolgendo le imprese e i corpi intermedi in una logica di sussidiarietà rispetto all’intervento dell’attore pubblico.

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Uno sguardo particolare meritano anche gli importi irrisori de- stinati alla spesa per la promozione dell’inclusione sociale (circa lo 0,7%), se si tiene conto che l’Italia è il terzo Paese per percentuale di persone che vivono in famiglie povere o senza lavoro, che non beneficiano di trasferimenti sociali e che pertanto sono a rischio povertà o esclusione sociale. Gli ultimi dati disponibili ci dicono che in Italia vivono 1 milione e mez- zo di famiglie in stato di povertà assoluta, ossia 4 milioni e seicento mila persone.

Permangono ancora oggi i tratti familistici del welfare italiano e due significative distorsioni nella composizione della spesa sociale: la prima, di natura funzionale, trova origine nel fatto che i finanziamenti per la vecchiaia appaiono marcatamente sovradimensionati rispetto a quelli per tutte le altre voci e si concentrano sul fronte previdenziale; la seconda, di natura di- stributiva, è invece presente all’interno delle diverse voci di spesa, in quanto l’Italia stabilisce un divario di protezione fra le diverse categorie occupazionali.

Il welfare italiano, infatti, si è storicamente rivolto in primis ai lavoratori, i quali venivano tutelati dall’insorgenza dei tradi- zionali rischi della vecchiaia, della malattia, dell’infortunio e della disoccupazione. In altri termini, i diritti sociali sono sempre stati strettamente connessi allo status di lavoratore. In un mondo del lavoro in completa evoluzione, nel quale le vec- chie figure scompaiono, i contratti di lavoro cambiano e in cui è difficile capire chi ha o meno lo status di lavoratore (pensia- mo al mondo del volontariato sociale ad esempio), questo mo- dello rischia di lasciare troppe persone indietro.

Oggi la possibilità che ci si presenta, un’opportunità che la crisi prolungata ci offre, è quella di ripensare la sostenibilità in chiave di un’economia positiva che sappia coniugare profitto e utilità sociale. Questo è possibile in primo luogo superando il dualismo tra pubblico e privato, tra Stato e mercato, che è tut- to tranne che descrittivo della società contemporanea. Occorre aprirsi a quell’universo di realtà che, pur essendo giuridica- mente enti privati, offrono servizi pubblici senza i quali le

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prestazioni socio-assistenziali non sarebbero possibili per am- pie fette di popolazione. Non solo. Svolgendo il proprio lavo- ro, gli esponenti dell’economia sociale conciliano la sostenibi- lità frutto delle loro attività con la sostenibilità in termini di occupazione generata, sono infatti circa 700mila le persone impiegate in questi settori in Italia.

Un vero modello di welfare contemporaneo, al passo con le sfide dei nostri tempi, non può quindi essere monopolio pub- blico. Abbiamo detto che questo risulterebbe insostenibile economicamente, ma c’è di più. Risulterebbe socialmente inso- stenibile perché finirebbe per negare una vitalità presente nella società italiana, una vitalità che parte dal basso e che occorre sostenere secondo la logica della sussidiarietà. Lasciamo spa- zio a coloro che si muovono in logiche di prossimità, che sono più vicini ai bisogni e alle persone, che non necessitano di grandi strutture e dei relativi costi. Lasciare spazio oggi signifi- ca ridurre, o quantomeno non aumentare, le complicazioni bu- rocratiche necessarie per erogare certi servizi, norme spesso pensate avendo in mente grandi realtà e non le caratteristiche dell’economia sociale.

In quest’ottica acquista senso e valore il tema del welfare aziendale – recentemente promosso e rilanciato dal nostro Le- gislatore, dopo alcune limitate esperienze di matrice paternali- stica – come strumento di modernizzazione e ampliamento di modelli di welfare non più sostenibili, e come strumento di prossimità verso i lavoratori. In questa direzione è anzi impor- tante sottolineare come è solo inquadrandoli all’interno di un’economia sociale e positiva che questi modelli di welfare possono raggiungere il loro scopo e senza ricadere in quelle logiche di ingiustizia sociale ed economica che ci hanno con- dotto nella situazione in cui siamo. Per queste ragioni è quan- to mai importante sostenere e promuove la realtà del welfare sussidiario in Italia, evitando al tempo stesso l’emersione di logiche meramente mercantilistiche nell’erogazione di beni primari come la sanità, la previdenza e l’istruzione che non possono essere frammentati in micro iniziative aziendali, ma che piuttosto necessitano di un ecosistema di riferimento che

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aggreghi le persone e le imprese nelle comunità e nei territori di riferimento.

Il presente Rapporto sul welfare occupazionale in Italia pro- mosso dall’Osservatorio UBI Welfare si colloca, appunto, in que- sta direzione. Segnalandosi per tratti di novità e differenzia- zione rispetto a un “mercato” del welfare aziendale che, se in- teso come iniziative meramente individuali e slegate da logiche di rete e territorio, rischia nel lungo periodo di creare più problemi di quanti possa risolverne nel breve, esso potrà con- tribuire alla soddisfazione di interessi fondamentali per la coe- sione e la sostenibilità delle nostre economie e della nostra so- cietà.

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LE RAGIONI DI UN (NUOVO) RAPPORTO