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Le aree dismesse: definizione, evoluzione ed aspetti salienti

2 CITTÀ, TERRITORIO, MORFOLOGIA, FORMA URBANA

5.1 Le aree dismesse: definizione, evoluzione ed aspetti salienti

Il problema delle aree dismesse è diventato particolarmente rilevante agli inizi degli anni ’90, periodo in cui si sono manifestati una serie di fenomeni pressoché concomitanti, fra i quali il declino e l’inversione della crescita urbana, il processo di decentramento e

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GIOVANNELLI G. (1997), Oltre la dismissione: da spazio marginale a luogo urbano, in GIOVANNELLI G. (a cura di), Aree dismesse e riqualificazione urbana: strategie progettuali e modelli operativi per il recupero, Alinea, Firenze.

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Lo studio è stato scritto in collaborazione con il dott. ing. Piero PEDROCCO e con la dott.ssa Irina CRISTEA ed è in fase di pubblicazione.

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DRAGOTTO M. (2003), Aree dismesse: approcci, politiche e risultati attesi, da quaderno AUDIS Aree dismesse e città. Esperienze di metodo, effetti di qualità, Franco Angeli, Milano.

rilocalizzazione e il conseguente abbandono di vaste parti di città - destinate alle costruzioni industriali e/o ad infrastrutture di servizio urbano, civili e militari quali mercati, macelli, aree ferroviarie, caserme, ed altri fondi ed oggetti destinati a particolari usi - ed una crescente attenzione alle problematiche della sostenibilità ambientale.

Il fenomeno della dismissione degli immobili, come approfondiremo in seguito, non è comunque nuovo.

Esempi storici possono infatti essere ritrovati nella città di Pistoia dove le riforme religiose del XVIII secolo e le espropriazioni del periodo napoleonico hanno condotto all’abbandono di molti edifici ecclesiastici, e alla loro successiva riutilizzazione, ad opera di Enti pubblici e di privati, come istituti scolastici, accademie (letterarie e scientifiche), per l’ampliamento dell’ospedale e per attività residenziali. Tale è anche il caso della città di Mantova, dove il complesso conventuale di Santa Barnaba, fondato nel 1497, a seguito dell’allontanamento dell’ordine dal monastero, è stato trasformato nel 1979 in caserma. Non mancano nel nostro Paese infiniti altri esempi.

In epoche a noi più prossime, nelle aree urbanizzate nell’epoca successiva alle trasformazioni industriali di fine ‘800, a seguito dell’implementazione dei nuovi paradigmi urbanistici e dei concetti di zonizzazione, vennero attuati tutta una serie di strumenti urbanistici che incisero sullo sviluppo e sulla forma dei centri urbani.

Approfondiamo l’analisi di questi beni per comprenderne meglio il significato, le tipologie e le problematiche connesse, partendo proprio da una loro definizione, tratta dall’esperienza anglosassone101 secondo la quale per aree dismesse si intendono:

“any land or premises which has previously been used or developed and is not currently fully in use, although it may be partially occupied or utilized. It may also be vacant, derelict or contaminated. Therefore a brownfield site is not

necessarily available for the immediate use without intervention".102103

Sul territorio statale, una definizione significativa, per le assunzioni parametriche che si arroga, è stata data dalla Regione Lombardia.104 Secondo tale definizione per “Area

produttiva dismessa” si intende quel complesso di luoghi urbani “a destinazione industriale, artigianale, terziaria e commerciale, con superficie coperta superiore a duemila metri quadrati, nelle quali permane ininterrottamente la condizione dismissiva da oltre quattro anni, caratterizzata dalla cessazione delle attività economiche, su oltre il cinquanta per cento delle superfici coperte”.

Le definizioni sin qui citate riguardano le aree produttive e/o commerciali – direzionali. Va sottolineato che la problematica della dismissione degli immobili demaniali riguarda anche aree e/o immobili con differente destinazione d’uso oltre a quelle già citate.

Da quanto fin qui espresso appare implicito che il problema della dismissione debba essere collocato nel più ampio contesto concettuale della città e del territorio ed analizzato quale quadro di riferimento contestualmente specifico (per l’attenzione posta alla specificità dei luoghi) e generico (per la necessità di stimolare un confronto con l’idea complessiva della realtà urbana). In tale contesto ci si interroga dunque sulla possibilità di progettare un nuovo uso dei luoghi abbandonati e dismessi affidando loro un nuovo e diverso ruolo, forma e senso.

Nel passato il fenomeno della dismissione è stato determinato dalla cessazione oppure dal trasferimento di un’attività, ed il processo di riconversione è stato caratterizzato da una

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Cfr. problema dei “brownfield site”. 102

Journal of Environmental Planning and Management. V43 (1). pagg. 49-69. Jan 2000. 103

Dal glossario del sito www.brownfieldscenter.org, troviamo inoltre una definizione di brownfiled, sulla cui base , per aree dismesse, si intendono le “abandoned, idled, or under-used industrial and commercial facilities where expansion or redevelopment is complicated by real or perceived environmental contamination”.

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Vds. art. 7 comma 1 della L. R. 1/2007. “Strumenti di competitività per le imprese e per il territorio della Lombardia”.

continuità nella trasformazione, senza generare crisi del sistema insediativo ma piuttosto una graduale sostituzione dei manufatti ottenuta con l’adattamento delle strutture preesistenti alle nuove necessità. Nell’attuale contesto antropico il fenomeno è determinato anche dall’ammodernamento dei servizi e delle infrastrutture, è scandito dai tempi più rapidi dell’innovazione tecnologica, ma è soprattutto collegato alle dinamiche di ristrutturazione di alcune consistenti porzioni di città. In tale contesto, come avremo modi di approfondire, l’elemento di novità consiste nel modo di rapportarsi alla questione ed alle problematiche della riqualificazione urbana; in particolare, le aree dismesse sono viste come un problema urbano, intimamente collegato ai fenomeni di crisi strutturale e di degrado sociale che si manifestano nella città contemporanea.

Gradualmente ci si è però resi conto che la possibilità di riutilizzare le aree dismesse all’interno di tessuti urbani, fortemente congestionati e spesso immobilizzati nella forma e nel contenuto, è una importante possibilità di conferimento di margini di flessibilità alla nuova domanda di spazio alla nuova qualità urbana, ed è pertanto stato colto l’interesse per le aree dismesse come risorse fondamentali per intervenire e riabilitare parti urbane fortemente strutturate.

Queste le domande e molte le ipotesi di riutilizzo delle aree dismesse, che dovranno, come vedremo, essere contestualizzate nella più vasta idea di città, di territorio e di affermazione dell’identità urbana.

Le basi storiche, sociali, economiche ed urbanistiche della dismissione nella

5.1.1

città post-industriale

Nel presente paragrafo verrà affrontata l’evoluzione del fenomeno della dismissione nella città post-industriale della fine del XX secolo, sia dal punto di vista delle cause endogene, sia nel più ampio quadro di riferimento delle dinamiche urbane e territoriali.

Le aree dismesse in origine si inserivano nel contesto culturale delle discussioni e delle pratiche in merito alla conservazione e al recupero del patrimonio architettonico di origine storica, all’archeologia industriale, alla conservazione dei monumenti, al mantenimento della città storicamente formata intesa come un unico monumento indivisibile. Ma al di la di risolvere quelle che potevano a prima vista sembrare problematiche oggettive, di fatto si trascuravano i pressanti influssi delle trasformazioni della società e dell’economia, della riconversione industriale e della rinnovata organizzazione politico-sociale; non si trattava, in sintesi, di riconoscere il valore architettonico dei manufatti dismessi, quando prendere atto che alcune parti significative della città stavano rapidamente collassando.

Ma già sin dai primi casi di dismissione di aree della città, si prese subito consapevolezza del fatto che il tutto si poteva tradurre in un’occasione per la città stessa, dal punto di vista urbanistico, per ripensare e migliorare la forma e la qualità urbana, insomma una opportunità economica per gli operatori pubblici e privati per intervenire nelle aree dismesse e trarre da esse risorse per un rinnovato slancio urbanistico.

I mutamenti economici conseguenti al processo di deindustrializzazione - che ebbero inizio col recesso dell’economia occidentale provocato dalla crisi energetica del 1973 - hanno prodotto, fra l’altro, la progressiva decentralizzazione dell’insediamento e, conseguentemente, una minore attrattività insediativa delle grandi aree urbane e metropolitane. Tali aree, in profonda e continua trasformazione, avevano comunque sviluppato forti legami tra gli assetti sociali, i mutamenti economici, i processi di trasformazione tecnologica e quelli della globalizzazione.

Si è assistito alla riarticolazione dei sistemi produttivi sul territorio: le grandi imprese hanno abbandonato le aree centrali urbane per rilocalizzarsi in aree esterne al contesto cittadino, avviando quel processo definito di contro urbanizzazione e di decentramento produttivo. Hanno inciso pesantemente nel generale ripensamento delle scelte localizzative altri

aspetti, che potremmo definire strutturali, fra i quali preponderante è sicuramente il rapido processo avvertito nel campo dell’innovazione tecnologica, della globalizzazione (fenomeno, quest’ultimo, particolarmente avvertito, che ha reso più stretti i rapporti tra i mercati, le strategie di produzione, le tecnologie e le dinamiche evolutive dei sistemi urbani) e della terziarizzazione. Molti contatti, prima legati a logiche di vicinanza fisica, sono stati sostituiti da scambi immateriali, resi possibili dalle crescenti possibilità fornite dall’informatizzazione. Non vanno inoltre dimenticate le nuove possibilità trasportistiche che, fornendo nuovi servizi di mobilità e maggiori potenzialità di spostamenti, hanno consentito alla popolazione una maggiore flessibilità nelle scelte legate alla residenza, scelte che, in precedenza, erano assolutamente indirizzate dalla necessità di risiedere nelle immediate vicinanze del luogo di lavoro.

Queste dinamiche evolutive socio-economiche, avvertite in ambito europeo già negli anni ’80 e note con il termine di “post-industriale”, hanno determinato una tendenza generalizzata da parte delle realtà industriali di modificare la propria organizzazione produttiva. I processi gestionali ed esecutivi, sfruttando le notevoli potenzialità offerte dalle innovazioni tecnologiche e dall’automatizzazione, hanno consentito di ottimizzare i processi produttivi. Il territorio da gerarchizzato si è trasformato in reticolare, consentendo il superamento dei confini nazionali e permettendo alla città di far parte di più reti di relazioni (la città si trova comunque a perdere la propria identità territoriale per scomporla in tanti frammenti quanti sono le reti da cui è attraversata e a cui aderisce).

Anche il principio di identità della città è stato messo in discussione. Prima ci si riferiva alla città come ad una entità agglomerata attorno al suo centro e circoscritta all’interno di uno spazio ben delimitato. Questo concetto è stato sorpassato. La collettività non si riconosce più all’interno della specificità di un centro cittadino e/o nell’appartenenza ad analoghi interessi economici e/o in un sistema molto codificato di eredità storiche e culturali, ma è divenuto parte della più ampia rete cui la città stessa entra a far parte economicamente. Si è corso dunque il rischio che la città potesse perdere la propria anima, per diventare un semplice supporto infrastrutturale di attività spesso delocalizzabili e/o multilocalizzabili. Nel processo delineato di complessiva mutazione della città agli inizi degli anni ’80, si innesta, a livello urbanistico, il fenomeno della dismissione, inteso sia come abbandono di parti di territorio urbanizzato, ma anche come necessità di trasformare gli aspetti fisico-spaziali ed economico-relazionali della città stessa.

La trasformazione urbana cui si è assistito può essere distinta in due momenti: il decentramento della produzione e l’internazionalizzazione dell’economia. Le dinamiche del cambiamento delle città sono state sintetizzate da B. Secchi105 che in proposito osserva che “l’esperienza fondamentale a partire da cui si costruisce negli ultimi venti anni il problema

urbano, è dunque un’esperienza di progressivo arresto della crescita urbana e di progressiva dispersione”, ossia esamina come si sia passati dalla concentrazione alla dispersione del

tessuto urbano. Questa osservazione ci fa riflettere anche sulla crisi che già allora attraversando i centri urbanizzati, una crisi che riguardava gli spazi, ma anche l’intero sistema economico; si stava assistendo al passaggio dalla cultura dell’espansione a quella della trasformazione.

Fu dunque necessario avviare una “stagione” di operazioni complesse di trasformazioni urbanistiche, che riguardavano la città “per parti”, e che miravano a trovare un filo conduttore che legava la conservazione della città esistente, recuperando le tracce del passato e dei valori che erano stratificati nella città stessa, con le necessità di evoluzione delle dinamiche indotte dai mutati scenari economici – produttivi internazionali.

Per ciò che riguarda le strategie di intervento, è emersa la necessità di recuperare gli spazi urbani mediante un approccio sistemico. Gli spazi urbani e gli immobili non vengono più considerati come occasione di valorizzazione delle singole infrastrutture, quanto piuttosto quale mezzo per individuare la specificità delle parti urbane da riqualificare e considerarle quali valori strategici per il recupero dell’identità dei luoghi. Questo tipo di progettualità ha

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condotto alla conservazione estesa della città dismessa, ossia alla liberazione di un tessuto urbano dagli usi per cui era stato progettato, che apparteneva alla storia stessa della città ed ai suoi caratteri specifici, ma che comunque costituiva un senso ed un significato da recuperare e conservare quale carattere distintivo del processo di mutazione della città. La risorsa si è identificata, dunque, nel ritrovare nel senso di appartenenza, nel pregio di un bene culturale o ambientale. Ciò ebbe chiaramente senso per quelle parti della città che avevano elevato valore architettonico. Per le parti obsolete, invece, i disegni progettuali erano prevalentemente orientati alla sottrazione delle opere stesse, per il recupero dei valori paesistici ed ecologici in una logica di riequilibrio territoriale basato sulla qualità degli spazi aperti.

A partire dalla seconda metà degli anni ’80, si è assistito ad un generale ripensamento dell’ambiente urbanizzato. È stata data enfasi al ruolo della riqualificazione quale mezzo per perseguire la qualità urbana e si è assistito alla nascita di una cultura, definita della trasformazione, che ha cercato di contenere lo “spreco di territorio” e di preservare il significato storico dei luoghi. Quindi le ottiche di espansione urbana hanno lasciato il posto alle pratiche di recupero e di rinnovamento con, al centro delle attività progettuali, la città stessa e la ricerca del miglioramento delle condizioni esistenti con particolare attenzione agli aspetti connessi alla qualità urbana e alla salvaguardia dell’ambiente.

Negli anni ’90 la tendenza si è modificata radicalmente. Sono stati sviluppati strumenti urbanistici ad hoc, definiti “programmi urbani complessi”, che rispondevano all’esigenza di mettere a punto un disegno progettuale, sul tipo dei masterplan anglosassoni, indirizzato alla città quale centro polifunzionale -e non settorializzato funzionalmente - attraverso gli strumenti delle zoning.

Le attività di riconversione sono state dunque orientate all’esigenza di ridisegnare e ripensare ampie aree di città attraverso un disegno progettuale organico che affrontasse le varie necessità urbanistiche con una visione generale e unitaria.

L’approccio complesso ha sortito un duplice effetto: da un lato ha dato impulso alle procedure operative, snellendole, e dall’altro ha dimostrato l’inefficacia degli strumenti urbanistici che erano al momento disponibili. Per quanto riguarda, in particolare, gli strumenti urbanistici, essi si sono spesso tradotti in modelli di tipo gestionale utili, quali linee guida a disposizione dei funzionari pubblici per definire i limiti per l’assunzione di responsabilità amministrative derivanti dalle richieste che provenivano, principalmente, dal mercato immobiliare. I provvedimenti esecutivi emessi erano infatti sovente caratterizzati da una scarsa cura per gli aspetti architettonici a scapito di un’efficacia, quasi del tutto normativa ed economica, dell’intervento. Gli interventi nel periodo sono stati proposti principalmente da promotori privati, ed erano quasi sempre indirizzati all’integrale sostituzione degli immobili dismessi.

Alla fine degli anni ’90 si è posta una maggiore attenzione agli aspetti progettuali relativi ai fattori qualitativi e di vivibilità urbana. In dettaglio si ricercò nello sviluppo della fase progettuale ed in quella operativa, nella scelta delle funzioni insediative e negli aspetti funzionali di assegnare all’area da riqualificare quelle caratteristiche di compatibilità e sostenibilità che meglio e maggiormente si adattavano alle precedenti attività monofunzionali e che potevano consentire al contesto urbano di assumere valore strategico. Si sono affermate due tendenze: da un lato una forte componente ecologista che maturava una grande attenzione all’ambiente, quale componente essenziale per un rinnovato rapporto tra luoghi e natura e dall’altro un’accresciuta enfatizzazione degli spazi pubblici urbani “aperti”, quale veicolo privilegiato per sviluppare le relazioni sociali ed economiche dell’insediamento.

Le aree urbane riqualificate e rinnovate nell’uso, meglio se con funzione anche strategica, erano caratterizzate da spiccata accessibilità. Esse divennero nuovi centri ai quali affidare le risposte alle crescenti esigenze di spazi pubblici e si posero quali stimoli per una nuova socialità metropolitana. In sostanza il riutilizzo delle aree dismesse era ispirato dall’intenzione di restituire agli spazi una dimensione collettiva e condivisa e di promuovere

quei valori capaci di far riscoprire l’identità dei luoghi.

Nel sistema urbano contemporaneo, le aree dismesse sono dei veri e propri ruderi, sono il prodotto fisico della trasformazione urbana. La dismissione di tali aree è sovente la conseguenza logica della perdita dei fattori legati all’uso, alla funzionalità e al valore sociale e collettivo delle infrastrutture. Esse si pongono quale emblema di negatività e pertanto rappresentano il paradigma di un ciclo urbano che ha terminato il suo iter evolutivo.

Da queste considerazione si deduce una diffusa disponibilità alla loro trasformazione, attraverso interventi in grado di risolvere “problemi speciali” ma anche indirizzati a risolvere problematiche connesse con gli interessi economici e sociali del mercato e del complesso antropizzato.

Nell’idea del riutilizzo di aree ormai prive di funzioni, uso e funzionalità, si trova implicitamente il riferimento alla tendenza urbanistica della demolizione, della trasformazione, quasi a voler ricercare un punto zero, una base da cui ripartire, per una potenziale riscrittura del contesto e dei suoi paradigmi insediativi.

Fra le possibili ipotesi di intervento sulle aree ed immobili dismessi, va tenuto in debita considerazione che la demolizione conduce alla perdita irrimediabile degli edifici interessati alla sostituzione e, di conseguenza, alla scomparsa dei valori storici e sociali che in essi si erano instaurati e riconosciuti nel tempo. E’ comunque vero che i costi del recupero e i risultati che si intendono raggiungere sono spesso incompatibili, per cui si è a volte costretti a constatare che la demolizione è l’unica alternativa economicamente percorribile.

Recentemente la tendenza progettuale maggiormente adottata prevede la “trasformazione semantica” delle aree/infrastrutture dismesse, ossia la programmazione di intervento di “sottrazione” in luogo della “totale demolizione”. Per “sottrazione” si intende l’attività di ricerca e di approfondimento del valore semantico dell’oggetto a premessa di qualsiasi tipo di intervento. Tale analisi consente di valutare nel dettaglio tutti i fattori di interesse per il mantenimento dell’area/immobile e di individuare quali tra essi siano maggiormente idonei per la trasformazione urbanistica - in chiave organizzativa, possibilmente innovativa. Ove ciò non fosse economicamente possibile o perseguibile, si può anche pensare al rifacimento più o meno parziale delle aree da riqualificare, adottando dunque criteri di efficienza ed efficacia degli interventi.

E’ l’evolversi dei tempi che ce lo impone, il mondo della globalizzazione connaturato all’idea del consumismo, che portano ad un processo continuo di produzione, consumo, ripensamento e sostituzione. E sulla base di questa nuova concettualità, anche la durata di un edificio può essere stimata e si può pensare che nel tempo una nuova e diversa costruzione prenderà il posto della precedente, la sostituirà anche nel concetto di città, in una dialettica in continuo divenire ed evoluzione.

Le cause della dismissione

5.1.2

La dismissione sta interessando un’ampia tipologia di immobili fra i quali le infrastrutture di carattere generale (scuole, carceri, mercati, zone militari, ospedali, ed altre), quelle industriali e i servizi collegati (strade e ferrovie, magazzini, scali marittimi e fluviali, serbatoi ed altro). Le cause non sono ovviamente univoche, ma hanno radici differenti che possono essere in linea di principio ascrivibili sia alla tipologia delle infrastrutture, sia a cause socio-economico-politiche e sia ad aspetti tecnologici e funzionali.

Le cause della dismissione possono essere ricondotti a quattro ordini di fattori: fattori settoriali (crisi demografica; trasformazioni economiche e produttive, declino di settori produttivi, ed altro), specifici (legati al ciclo di vita dell’edificio), generali (legati, ad esempio, alla razionalizzazione dei servizi sociali) ed infine ambientali (ad es. esaurimento di una cava).

Per quello che riguarda le aree e gli immobili destinati ad attività industriali, la principale causa di abbandono può essere individuata nel declino di alcuni settori produttivi quali, ad esempio, l’industria meccanica, l’estrazione di metalli, le acciaierie ed altre ancora. La decadenza di queste tipologie industriali, comporta la perdita di posti di lavoro e, di conseguenza, gli operai licenziati, sono costretti ad emigrare verso altre città. Come conseguenza molte delle aree produttive e residenziali sono state lentamente svuotate e le