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2 CITTÀ, TERRITORIO, MORFOLOGIA, FORMA URBANA

4.3 La pianificazione complessa

L’evoluzione del quadro normativo e dei mezzi tecnici non è sempre in grado di risolvere le enormi difficoltà che vengono a crearsi per procedere alle fasi attuative; ciò a causa soprattutto degli elevati costi degli interventi e delle difficoltà connesse in primis con gli espropri. Si è pertanto sentita la necessità di esplorare nuovi strumenti urbanistici, e questi sono stati reperiti, da parte della Pubblica Amministrazione (P.A.), attraverso un rinnovato rapporto tra di essa e i privati.

Nell’ambito di questo rinnovato rapporto pubblico-privato, va comunque sottolineato che questi ultimi, per avere la loro convenienza ad eseguire interventi urbanistici, dovevano essere incentivati dalla remuneratività dell’investimento. Per rendere remunerativi gli interventi si cominciò ad utilizzare la pratica della concertazione (o meglio della contrattazione), eventualmente attuando interventi in variante delle previsioni del P.R.G.: era questa una possibilità che fino a quel momento era stata ritenuta non idonea per il corretto sviluppo pianificatorio.

Gli strumenti della pianificazione complessa

4.3.1

Il nuovo atteggiamento della Pubblica Amministrazione, dunque, venne improntato alla disponibilità di armonizzare da una parte le modifiche necessarie per la realizzazione delle proposte congiunte di carattere sia pubbliche che private, e dall’altra le previsioni del P.R.G. L’operatore privato doveva inoltre essere disponibile ad accollarsi l’onere dell’attuazione degli interventi urbanistici non remunerativi (servizi, impianti, opere di urbanizzazione, opere di riqualificazione urbana, risanamenti e miglioramenti ambientali ed altro).

Tale risposta normativa, introdotta con la disponibilità alla concertazione degli interventi, si è concretizzata con l’introduzione di un quadro pianificatorio nuovo basato su strumenti attuativi innovativi: i programmi urbanistici complessi.

Durante gli anni ’90, dunque, si affermò una crescente attenzione ad una maggiore flessibilità nelle procedure di pianificazione. Questi strumenti contenevano indicazioni in merito alla programmazione, alla progettazione, alla gestione ed all’utilizzo delle aree da sfruttare da assoggettare ad intervento di trasformazione urbana.

I programmi e i relativi strumenti riguardarono le aree urbane da riqualificare o da recuperare. Il loro scopo consistette nella promozione del recupero edilizio, urbanistico, ambientale e socio-economico delle aree urbane degradate.

I programmi urbanistici complessi sono stati introdotti contestualmente a provvedimenti legislativi di natura essenzialmente economica (leggi finanziarie), anche perché i primi sono

stati corredati da specifici finanziamenti di sostegno pubblico. Gli interventi avviati mediante i programmi urbanistici complessi andavano considerati come strumenti a termine, nel senso che la loro redazione era vincolata al rispetto di scadenze temporali prefissate e non dilazionabili. Erano anche caratterizzati da alcuni elementi comuni:

- prevedevano la partecipazione congiunta di operatori pubblici e privati; - non prevedevano l’esproprio per l’acquisizione delle aree;

- si riferivano ad aree già urbanizzate;

- consentivano la concertazione delle previsioni progettuali fra gli operatori privati interessati e gli Enti pubblici;

- prevedevano in genere la possibilità di operare in variante al P.R.G. (mediante l’accordo di programma);

- disponevano di specifiche forme di finanziamento pubblico.

I programmi complessi hanno inoltre subito una loro evoluzione: da strumenti previsti per zone periferiche limitate, sono successivamente stati estesi ad ambiti sempre più estesi. Anche gli obiettivi, inizialmente di riqualificazione di una parte del territorio urbano, sono stati allargati al perseguimento della promozione sociale ed economica del territorio. I sistemi edilizi ricercati dovevano essere caratterizzati dall’integrazione sociale e funzionale con il resto del tessuto urbano e per questo particolare attenzione venne assegnata alla qualità del progetto. I finanziamenti, infine, nati come disponibilità di fondi sia statali che provenienti dai privati, sono poi divenuti anche europei.

Gli strumenti possono essere suddivisi in tre generazioni di programmi.

La prima generazione è stata emanata all’inizio degli anni ’90, ed era finalizzata a promuovere specifici finanziamenti per la trasformazione urbana quale motore per la riqualificazione. Gli strumenti appartenenti a questo primo gruppo sono:

 Programmi Integrati di Intervento (P.I.I. - L. n. 179/’92);  Programmi di Recupero Urbano (P. di R. – L. n. 493/’93);

 Programmi di Riqualificazione Urbana (P.Ri.U. - D.M. 21 dicembre 1994);  Contratti di quartiere (C. di Q. - L. n. 662/’96).

Il P.I.I. è previsto dall’articolo 16 della L. n. 179 del 17 febbraio 1992 - “Norme per l’edilizia

residenziale pubblica” – introdusse un piano di dettaglio caratterizzato da una molteplicità

di funzioni, dall’integrazione fra diverse tipologie di intervento, attraverso l’intervento di operatori pubblici e privati; perseguì la riorganizzazione urbana e la riqualificazione del tessuto urbanistico, edilizio e ambientale dell’area oggetto di intervento. La Legge, pur non imponendo particolari contenuti, tuttavia dispose che gli interventi fossero di diversa modalità (nuova edificazione, opere di urbanizzazione, risanamento ambientale, ed altro) e che nell’area ci fosse una integrazione tra diverse funzioni urbane. Il piano, normalmente attuato mediante la forma della stipula di convenzioni, venne redatto dai soggetti pubblici e privati in forma autonoma o congiunta, presentato al Comune, che lo adottava e che stabiliva se assegnare al piano stesso valore di concessione edilizia.

I P.R. furono introdotti dall’art. 11 della L. n. 493 del 4 dicembre 1993 (Decreto legge 5 ottobre 1993, n. 398, convertito, con modificazioni, dalla L. 4 dicembre 1993, n. 493) e successivamente integrati dal D.M. 1/12/’94 e riguardarono l’esecuzione di programmi composti mediante un insieme coordinato di interventi urbanizzativi, ambientali ed edilizi che fossero finalizzati al recupero dell’edilizia residenziale pubblica, ma che nel contempo contenessero l’apporto di risorse integrative private. Gli interventi previsti dai Programmi di Recupero dovevano essere presentati come proposta unitaria e basati sul concorso di risorse pubbliche e private. Il Comune stabiliva la priorità degli interventi previsti nel programma e il Comitato per l’Edilizia Residenziale (CER), organo ministeriale, stabiliva la modalità e i criteri per la concessione dei finanziamenti. Tra gli interventi pubblici vennero contemplati il recupero edilizio, la manutenzione, l’ammodernamento, la sostituzione delle opere di urbanizzazione primaria, la realizzazione o il recupero dell’urbanizzazione secondaria. Gli interventi privati riguardarono l’aumento della superficie utile degli edifici di edilizia pubblica, il completamento dei piani di zona, la realizzazione di alloggi-parcheggio.

Gli insediamenti di edilizia residenziale oggetto di proposta di P.R.U. vennero individuati dai Comuni. Le Regioni assicurarono i finanziamenti e procederono alla loro revoca nel caso che gli interventi non fossero avviati entro dieci mesi dal piano.

I P.R.U. sono stati introdotti con il D.M. 21/12/’94 (“Programmi di riqualificazione urbana a

valere sui finanziamenti di cui all’art. 2, c. 2, Lg. n. 179 del 17 febbraio 1992”) con successive

modifiche ed integrazioni si proposero di avviare il recupero edilizio e funzionale di ambiti di edilizia non residenziale che contribuivano al miglioramento della qualità della vita e dell’edilizia residenziale. Poterono accedere ai finanziamenti i Comuni con popolazione superiore a 300.000 abitanti, o capoluogo di provincia, o altri Comuni purché la proposta riguardasse aree industriali dismesse o ambiti oggetto di rilevanti trasformazioni economiche. Poterono essere previsti interventi che riguardavano l’acquisizione di immobili da destinare ad urbanizzazione primaria o secondaria o all’edilizia pubblica, la sistemazione ambientale e l’arredo urbano, il risanamento di parti comuni di fabbricati residenziali, la ristrutturazione urbanistica. I programmi vennero avviati dai Comuni che specificarono gli obiettivi dei programmi e i costi di realizzazione. Il Comune aveva anche facoltà di procedere autonomamente a valutare la proposta di soggetti interessati.

I C. di Q., introdotti dal D.M. 22/10/’97 (“Approvazione del bando di gara relativo al

finanziamento di interventi sperimentali nel settore dell’edilizia residenziale sovvenzionata da realizzare nell’ambito di programmi di recupero urbano denominati “Contratti di quartiere”) furono programmi di recupero urbano destinati ai Comuni con quartieri segnati

da diffuso degrado delle costruzioni e dell’ambiente urbano e da carenze di servizi in un contesto di scarsa coesione sociale e di marcato disagio abitativo. I Contratti poterono essere applicati alle aree soggette a Piani per l’Edilizia Economica e Popolare (P.E.E.P. - L. n. 167/’62), per le zone di recupero, per i comparti edificatori particolarmente degradati (art. 18 – L. n. 392/’78), per le aree assoggettate a recupero urbanistico (art. 29 della L. n. 47/’85) e per le aree aventi analoghe caratteristiche eventualmente individuate dalla legislazione regionale. Gli interventi dovettero essere volti al rinnovo dei caratteri edilizi, all’incremento della funzionalità urbanistica, al risparmio delle risorse energetiche e al miglioramento della qualità abitativa ed insediativa. La procedura per l’attuazione dei Contratti previde che il Comune, presentava apposita domanda alla Regione e, qualora ammesso a finanziamento (tra i 3 e i 20 miliardi), doveva trasformare la proposta in progetto esecutivo entro 180 giorni.

I programmi di seconda generazione introducono strumenti più complessi, a livello di scala microurbana, con livello di progettazione più articolato e che riguarda anche l’area di intervento. L’attenzione dei progetti era rivolta principalmente ai programmi di riqualificazione delle periferie e il recupero era inteso non solo a livello urbanistico edilizio, ma riguardò anche gli aspetti della sicurezza urbana e del recupero sociale di aree degradate. A questo secondo gruppo appartennero i Contratti di Quartiere (L. n. 662/’96). La terza generazione di programmi sono strumenti emanati sempre verso la fine degli anni ’90, ma che considerarono forme diverse di finanziamento. Appartennero al gruppo il Programma di Riqualificazione Urbana per lo Sviluppo Sostenibile del Territorio – P.R.U.S.S.T. (D.M. LL.PP. 8 ottobre 1998), strumento promosso per la realizzazione di interventi di trasformazione che coniugassero diversi fattori del territorio quali quello storico, artistico e sociale. Il Programma ebbe il merito di introdurre concetti innovativi, quali i finanziamenti congiunti tra pubblico e privato (non meno di 1/3 dei costi complessivi del progetto), l’introduzione del concetto di sostenibilità della progettazione e dell’intervento e la valorizzazione delle iniziative in funzione dell’efficacia per la pubblica amministrazione nel sostenere il costo dell’intervento.

Fra gli strumenti di pianificazione complessa, ricordiamo infine le Società di Trasformazione Urbana (S.T.U.).

Sono state introdotte nel 15 maggio 1997 con L. n. 127 - "Misure urgenti per lo snellimento

dell'attività amministrativa e dei procedimenti di decisione e di controllo".

Provincia e Comune) e privata (imprese di costruzioni, proprietari dei terreni, utenti finali) e venivano attivate per la progettazione e la realizzazione di interventi di trasformazione urbana che erano attuazione di strumenti urbanistici vigenti (non avevano pertanto potere di deroga sulle previsioni del P.R.G.).

Le Società venivano istituite dal Comune, che assumeva il ruolo di leader, individuava i partner pubblici e privati, definiva gli interventi da realizzare e costituiva lo statuto della S.T.U.

La riqualificazione delle periferie

4.3.2

Gli interventi di riqualificazione furono più la conseguenza di una serie di provvedimenti normativi, che la presa di consapevolezza delle condizioni funzionali e qualitative.

I programmi integrati pubblico - privato, a livello statale, furono recepiti alla fine degli anni ’80 e riguardarono principalmente interventi straordinari di edilizia residenziale, a sostegno della mobilità del personale dello Stato. Gli interventi furono localizzati all’esterno della città consolidata e non contribuirono né al recupero della città storica né alla riqualificazione delle periferie.

Il tema della periferia, delle sue disfunzioni, del suo degrado, della sua assenza di qualità, giunse all’attenzione degli addetti ai lavori nel corso degli anni ’90. Furono avviati alcuni provvedimenti legislativi allo scopo di sostenere la riqualificazione urbana. La L. n. 179 del ‘92 intese perseguire la riqualificazione attraverso programmi integrati, di iniziativa privata e attraverso programmi di riqualificazione urbana, promossi dal Ministero dei Lavori Pubblici.

La L. n. 662/’96 (finanziaria 1997) introdusse i Contratti di Quartiere, che furono programmi integrati connessi alle problematiche sociali e occupazionali, ma comunque riguardanti l’edilizia residenziale sovvenzionata. I C. di Q. riguardarono la città consolidata (quella la cui identità fisica era stabilizzata) spesso interessata da fenomeni di degrado e di insufficienza funzionale.

I programmi fin qui tratteggiati facevano riferimento a strumenti quali l’Accordo di Programma e la Conferenza dei Servizi, con possibilità di incidere sugli strumenti urbanistici introducendo i necessari adeguamenti. Gli esiti degli interventi furono alquanto modesti anche in considerazione che i tempi concessi per la presentazione delle proposte furono estremamente contratti e che pertanto i relativi progetti di riqualificazione non raggiunsero un sufficiente grado di approfondimento. Nel complesso furono comunque approvati 66 programmi di investimento, che comportarono una spesa globale pari a 8.600 miliardi di lire.

Mentre nelle aree centrali si perseguì un recupero edilizio diffuso, per le aree periferiche non si riuscì ad avviare una politica di riqualificazione urbana. I modesti esiti dei programmi di riqualificazione derivarono dalla loro frammentazione e settorialità, ossia dal fatto di essere eminentemente strumenti inseriti in norme di finanziamento per l’edilizia residenziale. Diverso sarebbe stato se la riqualificazione fosse stata basata su risorse specifiche e su strategie intersettoriali, anche perché “la riorganizzazione della città in

termini di efficienza, di qualità, di competitività, non passa attraverso le abitazioni, ma attraverso servizi ed infrastrutture”.

I Programmi di Riqualificazione Urbana e di Sviluppo Sostenibile del Territorio, emanati nel 1998, segnarono il superamento dei programmi integrati incentrati sulla riqualificazione del patrimonio residenziale. Essi introdussero lo scenario della riorganizzazione funzionale e qualitativa delle aree urbane strategiche, intervenendo sulle infrastrutture della mobilità e sulle interconnessioni tra i distretti insediativi.

I P.R.U.S.S.T., a fronte di un modesto impiego iniziale di capitale investito negli studi di fattibilità (140 miliardi di lire), attivarono ingenti investimenti, sia pubblici che privati, per

l’attuazione di programmi di ampio respiro territoriale, tanto che possono essere considerati come i primi investimenti che intervennero nell’“area vasta”. Gli interventi riguardarono più la trasformazione territoriale e la nuova infrastrutturazione che il mantenimento e la riqualificazione degli agglomerati urbani.

4.4 La Normativa sui beni demaniali e sulla loro dismissione

Nel corso del seguente paragrafo, verranno delineati gli aspetti di maggiore interesse che riguardano la normativa sui beni demaniale e quella riguardante la dismissione. Tra tali aspetti verranno anche trattati i fondamenti di molte definizioni terminologiche, in modo da avere strumenti utili per la comprensione della ricca materia legislativa emanata in proposito.

Va fatta comunque una piccola premessa. Quando si parla di dismissione, sovente ci si riferisce a beni pubblici la cui proprietà è in capo allo Stato. Si entrerà nel merito di questi beni, fornendone una catalogazione, ma al momento si vuole solo ricordare che si tratta per lo più di infrastrutture che hanno perso la loro originaria funzione e che vengono introdotti nuovamente sul mercato per una loro ricollocazione economica, sociale e produttiva.

Ma tali beni non sono gli unici in dismissione. Si pensi al vasto patrimonio immobiliare privato, soprattutto a quello industriale, che viene riconvertito al termine di una fase produttiva che, per svariate ragioni, non viene più continuata e perseguita. Anche dell’argomento si tratterà, ma giova qui rammentare che le logiche economiche connesso agli aspetti relativi al riuso seguono logiche differenti, ma per molti versi simili, rispetto a quelle adottate per gli immobili di origine demaniale.

I beni pubblici

4.4.1

I beni pubblici sono quei beni che appartengono agli Enti pubblici e che sono destinati a soddisfare interessi pubblici.

Esistono anche i beni privati, che sono quei beni caratterizzati da diritti di proprietà, che sono detenuti da privati o da aziende individuali o societarie e che possono essere volontariamente scambiati sul mercato.

Alcuni di questi beni, particolarmente importanti per la collettività, possono appartenere soltanto allo Stato o ad altri Enti pubblici territoriali. Altri, invece, possono appartenere sia ad Enti pubblici sia a soggetti privati: in quest’ultimo caso, essi sono sottoposti a determinati vincoli che ne tutelano la finalità pubblica.

La legislazione adottata dal Codice Civile del 1942, attualmente in vigore, distingue, per l'appunto Libro Terzo (Della Proprietà) - Titolo I (Dei beni) – Capo II (Dei beni appartenenti allo Stato, agli Enti pubblici e agli Enti ecclesiastici) del Codice Civile due categorie:

- il demanio pubblico (art. 82274 del C.C.);

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Art. 822 - Demanio pubblico

Appartengono allo Stato e fanno parte del demanio pubblico il lido del mare, la spiaggia, le rade e i porti; i fiumi, i torrenti, i laghi e le altre acque definite pubbliche dalle leggi in materia (Cod. Nav. 28, 692); le opere destinate alla difesa nazionale.

Fanno parimenti parte del demanio pubblico, se appartengono allo Stato, le strade, le autostrade e le strade ferrate; gli aerodromi (Cod. Nav. 692 a); gli acquedotti; gli immobili riconosciuti d'interesse storico, archeologico e artistico a norma delle leggi in materia; le raccolte dei musei, delle pinacoteche, degli archivi, delle biblioteche; e infine gli altri beni che sono dalla legge assoggettati al regime proprio del demanio pubblico.

- i beni patrimoniali (art. 82675 del C.C.).

La legislazione pre-vigente trattava genericamente del demanio, ed indicava in tale termine (derivante dal latino medievale demanium o domaniun, che rappresenta, a sua volta, secondo un’opinione più attendibile, una corruzione del vocabolo dominium) tutti i beni che sono tenuti ed amministrati dallo Stato per l’attuazione dei fini pubblici.

Tale distinzione è stata introdotta al fine di differenziare la natura e le caratteristiche dei beni ed il relativo aspetto giuridico, anche se la dottrina non è sempre concorde nel determinare i criteri di classificazione.

Affinché sussista la demanialità di un bene alcuni testi sostengono che è necessario che il bene stesso appartenga ad un Ente pubblico territoriale, sia destinato all'uso pubblico e alla fornitura di un servizio pubblico. Ma tale asserto non sempre è pertinente in quanto si nota che nel caso di una caserma, e per ovvie ragioni, non si può parlare di bene destinato all'uso pubblico.

Si può allora affermare che il criterio più semplice per l'individuazione della demanialità di un bene, consiste nella natura stessa del bene e, in particolare, nella necessarietà di renderne pubblico l'uso.

Lo stato produce beni pubblici.

I beni pubblici sono inoltre quei beni che sono:

- non rivali, quando possono essere consumati da più individui simultaneamente. Un bene è rivale quando il suo consumo da parte di un soggetto è incompatibile con il consumo da parte di altri soggetti (es. una mela, una giacca);

- non escludibili, quando è tecnicamente impossibile o costosissimo poter escludere qualcuno dal beneficiarne. Un bene è escludibile se è possibile consentire il suo consumo ad alcuni, impedendolo ad altri. Es. una visione cinematografica, un concerto. In merito all’assegnazione di un bene alla categoria di quelli pubblici o privati, sono valide le seguenti regole:

bene rivale non rivale

escludibile Bene privato Bene di club

(es. Piscina)

non escludibile Bene Comune Bene pubblico

Tabella 2 - Assegnazione beni in funzione loro caratteristiche.

Passiamo adesso a dare una definizione meno accademica di “bene pubblico”; per far ciò ci rifacciamo al concetto economico di “indicatore nominale” che riguarda i procedimenti necessari per poter afferire ad un’analisi economica territoriale di quei beni, in particolare quelli ambientali o culturali, che sono difficilmente monetizzabili. In buona sostanza si tratta di particolari metodologie che sono particolarmente utili all’ingegnere del territorio per giungere ad una corretta valutazione dell’impatto ambientale e, quindi ad una corretta progettazione del territorio.

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Art. 826 - Patrimonio dello Stato, delle province e dei Comuni

I beni appartenenti allo Stato, alle province e ai Comuni, i quali non siano della specie di quelli indicati dagli articoli precedenti, costituiscono il patrimonio dello Stato o, rispettivamente, delle province e dei Comuni. Fanno parte del patrimonio indisponibile dello Stato le foreste che a norma delle leggi in materia costituiscono il demanio forestale dello Stato, le miniere, le cave e torbiere quando la disponibilità ne è sottratta al proprietario del fondo, le cose d'interesse storico, archeologico, paletnologico, paleontologico e artistico, da chiunque e in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo, i beni costituenti la dotazione della presidenza della Repubblica (Costit. 843), le caserme, gli armamenti, gli aeromobili militari (Cod. Nav. 745) e le navi da guerra.

Fanno parte del patrimonio indisponibile dello Stato o, rispettivamente, delle province e dei Comuni, secondo la loro appartenenza, gli edifici destinati a sede di uffici pubblici, con i loro arredi, e gli altri beni destinati a pubblico servizio.

Tra gli “indicatori nominali” dei beni ambientali o culturali precedentemente citati rientrano le “esternalità” e i “beni pubblici”.

Il concetto di esternalità si verifica allorquando un bene, soggetto ad una variazione (positiva o negativa) della propria utilità intrinseca (a carico dei soggetti economici, produttori o consumatori), non determina automaticamente la variazione della corresponsione di una contropartita (pagamento per l’incremento di utilità o compensazione per il suo decremento).

Al concetto di esternalità è collegato quello di “beni pubblici”, ossia di quei beni per i quali si verificano contemporaneamente le seguenti condizioni:

 risponde al principio di “non escludibilità”, che implica che se un bene è offerto ad un individuo, il bene stesso è automaticamente offerto a tutti;

 non presenta alcuna forma di rivalità nel consumo;

 rappresenta un bene la cui fruibilità è universalmente riconosciuta (inverso del principio di “non escludibilità”).

Per quanto riguarda l’uso dei beni pubblici si parla di :

 uso generale (uso diretto da parte dell’Ente o uso ordinario da parte degli utenti come, ad esempio, l’uso di strade pubbliche da parte dei singoli);

 uso particolare che consiste in una concessione (stabilimento balneare, chiosco ed altro) o autorizzazione (trasporti eccezionali).

Valgono dunque i requisisti relativi alla seguente procedura di individuazione di un bene tracciati nella Tabella 3.

Riassumendo, i beni pubblici possono anche essere definiti come “esternalità non